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Perché la destra politicizza il denaro?
Con il licenziamento di Lisa Cook, Donald Trump ha cominciato a rompere l’ultimo dei tabù: l’indipendenza della Fed. Con buona pace di Federico Rampini, che ora dovrà cercare nuovi argomenti per celebrare la superiorità dell’Occidente nei confronti delle autocrazie e del Grande Sud, Trump non si è limitato a sbeffeggiare per mesi Jerome Powell, è «passato all’atto». I mercati sono ovviamente agitati, temendo il controllo politico della banca centrale più importante del mondo, quanto meno di quel pezzo di mondo che si autodefinisce davvero libero. Colpendo Lisa Cook, tra l’altro, Trump è riuscito a unire istanze strettamente economiche, ovvero il governo della moneta e del suo costo, con la politica del simbolico: Cook, prima donna nera nel board della Fed, è simbolo di ciò che il movimento MAGA qualifica come «capitalismo woke». Ma si tratta evidentemente di una mossa che, nel confermare la furia ideologica del trumpismo, fa anche saltare in aria le coordinate alle quali l’apologia dei tecnici del denaro (da Volcker a Draghi), negli ultimi decenni, ci aveva abituato. L’attacco alla Fed ha un primo, e fondamentale, obiettivo: far ripartire l’inflazione. E già qui, le bussole, funzionano poco. Non è l’inflazione un modo per ridurre il peso del debito per i debitori, ovvero per le fasce più povere della società che, per consumare, per esempio per acquistare una casa, debbono necessariamente indebitarsi? E non è – ancora – l’aumento dei prezzi, uno stimolo per gli imprenditori e gli investimenti, stimolo che, se ben gestito, favorisce la ripresa dell’occupazione? Sarebbe dunque, Trump, un vero amico della classe operaia e del ceto medio impoveriti, come insiste il movimento MAGA? Occorre allargare lo sguardo. I creditori contro i quali si vuole scagliare Trump, imponendo alla Fed l’abbassamento del costo del denaro e, a seguire, favorendo la dinamica inflativa, non sono tanto i miliardari americani, che comunque saranno favoriti dall’azzeramento delle tasse, ma tutti coloro che pagano l’enorme debito pubblico americano (ad agosto, oltre i 37 mila miliardi di dollari). > Il debitore mondiale non è più l’Europa, come subito dopo la Seconda guerra > mondiale, ma sono gli Stati Uniti d’America. L’inflazione è dunque un modo, come d’altronde lo fu in parte per Richard Nixon nel 1971, per «ristrutturare» unilateralmente il debito pubblico.    Pensate alla Grecia nel 2015. Un Paese povero, afflitto dal debito e martellato dai suoi creditori (banche, fondi di investimento, fondi previdenziali, ecc.), è sottoposto a una “cura” fatta di vessazioni, umiliazioni e, soprattutto, compressione del welfare, abbassamento dei salari reali, disoccupazione, suicidi, biografie spezzate, giovinezza rubata. Un impero, come gli Stati Uniti, procede diversamente. Dicevamo di Nixon: nel giorno di Ferragosto del 1971 (la scelta del giorno per l’incontro con Putin in Alaska sarà stata casuale?), dichiarò il dollaro non più convertibile in oro. Tutti coloro che possedevano dollari, per esempio diversi paesi europei (la Francia in testa), ma non solo, si sono tenuti la carta, senza poter ottenere l’oro che gli Stati Uniti, a Bretton Woods nel 1944, si erano impegnati a consegnare su richiesta. Un furto, tra l’altro accompagnato – e nessuno in questi mesi lo ha ricordato – dall’introduzione di dazi del 10%. Ovviamente c’è un problema: se la Fed abbassa il costo del denaro, e l’inflazione riparte, in giro per il mondo molti paesi che da decenni fanno incetta del dollaro, considerandolo valuta di riserva per eccellenza, potrebbero – come già in diversi stanno facendo – smettere di acquistare Titoli di Stato, che sono denominati in dollari e, alla forza del dollaro, della Fed e dell’economia americana più in generale, devono la loro affidabilità. Powell, più nello specifico, teme per i titoli a lunga scadenza, il cui rendimento l’altro ieri (26.08) è salito non poco, così come è aumentato il differenziale con quelli a breve scadenza. Segnale che, in prospettiva, l’affidabilità del debito americano si fa scarsa e, coloro che lo acquistano, pretendono rendimenti sempre più importanti. > La mossa di Trump, però, va letta insieme al Genius Act, ovvero al pieno > sostegno normativo della sua Amministrazione alle monete digitali private, le > stablecoin. Pur trattandosi di criptovalute, si definiscono stabili e non oscillanti/speculative perché ancorate a monete legali, quali il dollaro ovviamente. L’obiettivo di Trump è quello di rispondere alla crisi del dollaro, della sua funzione di comando politico sul mercato mondiale, attraverso la diffusione delle stablecoin. In tendenza, qualora si affermassero, e favorite dagli effetti di rete, le stablecoin potrebbero in parte realizzare il sogno del sodale di Pinochet, l’economista premio Nobel che, per difendere la libertà, riteneva giusto sostenere il fascismo (come Peter Thiel di Palantir, d’altronde): Friedrich von Hayek. In un saggio del 1976, dal titolo La denazionalizzazione della moneta, Hayek proponeva di far saltare in aria il monopolio della Fed sull’emissione di moneta legale, favorendo una molteplicità di monete private in competizione tra loro. Monete private espressione di un regime di free banking, sistema tutt’altro che marginale nel XIX secolo americano e che ha rallentato di diversi decenni, negli Stati Uniti, la nascita di una vera e propria banca centrale. Da non dimenticare, infatti, che la Fed nasce soltanto nel 1913, diversi secolo dopo la Bank of England (1694), ma anche oltre un secolo dopo la fondazione napoleonica della Banque du France (1800). Ora, sembrerebbe dunque che l’attacco di Trump alla Fed sia solo il rilancio delle più spericolate teorie neoliberali degli anni Settanta. Lo è, in parte, ma solo in parte. Il free banking è una tendenza, che si realizzerebbe compiutamente solo con stablecoin più che affermate su scala mondiale. La Commissione europea, qualora decidesse di promuovere un’interpretazione estensiva del suo Regolamento in merito (MiCA), aprendo così le porte alla piena fungibilità in zona euro delle stablecoin denominate in dollari, darebbe un grosso aiuto al progetto trumpiano. La realizzazione del progetto, però, non è immediata. Trump, in verità, sta parlando anche al suo mondo, al movimento MAGA. Sta dicendo agli «sconfitti della globalizzazione» che il Presidente fa sul serio, piegando la Fed all’autorità politica, del governo. > Come con la Corte suprema, si tratta di affermare che, chi vince le elezioni, > comanda: sulla giustizia e, soprattutto, sull’economia, in particolare sul > denaro. Non sarebbe la prima volta, nella storia, che l’estrema destra decide di politicizzare la moneta. Ci pensarono già due nazisti che andrebbero studiati con attenzione, la stessa con la quale li studiava il liberale Keynes: Hjalmar Schacht e Walther Funk. Il secondo, in particolare, progettò nel 1940 una «moneta generale», per l’Europa germanizzata, alternativa al dominio dell’oro, che, allora e anche se ancora per poco, voleva dire dominio della sterlina e della City di Londra. Trump non restituirà le fabbriche agli Stati Uniti, ma intanto sta acquisendo il controllo di Intel e US Steel – fatto non banale. Trump sta restituendo agli impoveriti l’immagine di una politica che non si genuflette ai tecnici e ai dogmi dell’economia. La socialista americana Alexandria Ocasio-Cortez il problema ce l’ha chiaro, tanto che, affidandosi (anche troppo) alla Modern Monetary Theory, sta tentando di fare, del denaro e del suo costo, dell’inflazione, temi su cui la sinistra prende parola – politicamente. In Europa, purtroppo, dopo il movimento Blockupy il tema è uscito dall’agenda delle sinistre – una parte delle quali, quando si tratta di denaro, passa la parola ai banchieri centrali o comunque agli economisti di professione. Un disastro, perché a breve, come segnala Ignazio Angeloni della BCE, le destre europee imiteranno Trump, impallinando la BCE con scopi tutt’altro che redistributivi. In ultimo, ma non per importanza: e se obiettivo di Trump fosse anche quello di controllare l’economia, dai dazi alla moneta, alle grandi corporation, per avanzare nella lunga preparazione della resa dei conti bellica con la Cina? D’altronde, gli anni Trenta tedeschi, questo ci insegnano.     Immagine di copertina da Kaboompics.com L'articolo Perché la destra politicizza il denaro? proviene da DINAMOpress.
Guerra della moneta
Qualche episodio recente su cui riflettere. BANCHIERI CENTRALI CONTRO TRUMP Uno di loro, primo straniero alla testa della Bank of England (dal 2013 al 2020), ha appena vinto le elezioni in Canada (dopo essere stato l’ottavo Governatore della banca centrale del Paese, tra il 2008 e il 2013): Mark Carney. La seconda, mentre Meloni il 17 aprile scorso raggiungeva Washington per incontrare Trump, ha nuovamente abbassato il tasso di interesse sui depositi, rallentando l’apprezzamento dell’euro sul dollaro: Christine Lagarde. Il terzo, da Trump nominato nel 2017, ha rischiato non poco di essere defenestrato perché, a differenza di Lagarde, i tassi non li abbassa: Jerome Powell. Sono i tre banchieri centrali, assieme alla Cina, la più rilevante spina nel fianco di Trump. Trump ha bisogno del dollaro debole, per favorire l’esportazione e ridurre il peso del debito pubblico americano, ormai (quasi) fuori controllo. Il dollaro debole, però, smette di essere valuta di riserva sicura, spinge alla vendita e non all’acquisto di T-bond (Titoli del Tesoro americano), il rendimento di questi ultimi sale invece di scendere. I dazi, a ben vedere, sono solo un’arma negoziale, il cui scopo a lungo termine è senz’altro la parziale (quanto complicata) reindustrializzazione degli USA, ma la cui principale finalità è un nuovo Plaza Accord, o Mar-a-Lago Accord, nel quale Cina ed Europa si impegnino ad apprezzare (per qualche anno) renminbi ed euro nei confronti del dollaro. Il 2025, però, non è il 1985; la Cina non è il Giappone; l’Europa non è la sola Germania non ancora unificata. Ma, soprattutto, i maggiori banchieri centrali non sono sintonici con le mosse di Trump; di più, uno di loro ha vinto le elezioni, in Canada, proprio contro le battute di Trump sul 51° Stato. IL DENARO MODERNO In un discorso del 2 marzo 2018, Mark Carney, ancora banchiere centrale, spiega come funziona il sistema monetario. Con una chiarezza inusuale, perché la parola del banchiere centrale ha il compito di nascondere quanto dice, Carney distingue e illustra tre tipi di moneta: le banconote; le riserve, ovvero moneta digitale emessa dalle banche centrali e che le banche commerciali detengono in quelle centrali, come riserve appunto, per regolare le transazioni tra di loro; la moneta bancaria, ovvero i depositi elettronici che le banche commerciali creano quando erogano prestiti ai mutuatari (l’80% del denaro che circola nell’economia reale). Le banche centrali hanno il monopolio dell’emissione di moneta legale (quella che lo Stato deve sempre accettare per il pagamento delle tasse; quella che serve per estinguere un debito), emettendo due tipi di moneta in particolare: banconote (cartacee; circolante), per cittadini e imprese; riserve, per le banche commerciali. In verità, anche le banconote vengono stampate, dalle banche centrali, sulla base della richiesta delle banche commerciali, che mediano l’accesso dei cittadini alla moneta legale. Le riserve di banca centrale, invece, sono inaccessibili per i cittadini, riguardano solo le banche commerciali e, quindi, le transazioni interbancarie. > Ma come emettono moneta legale, le banche centrali? Senz’altro stampando > banconote, quando serve. Ma non è principalmente così che aumenta la base > monetaria (banconote più riserve). Le banche centrali, prevalentemente, emettono moneta legale aumentando le riserve per le banche commerciali e fanno ciò acquistando titoli di Stato nel mercato interbancario. Aumento della base monetaria e riduzione del tasso di interesse viaggiano di pari passo. Non vi è alcun automatismo, invece, per quel che riguarda le scelte delle banche commerciali: nella concessione dei prestiti a cittadini e imprese; nella riduzione del tasso di interesse applicato ai prestiti, a fronte della riduzione di quello principale (della banca centrale).  È la creazione di moneta bancaria, ex nihilo, a contraddistinguere la scena capitalistica: così, il migliore tra gli economisti borghesi, Joseph Schumpeter, ci ha insegnato. Nella sua celebrazione del capitalismo, credito significava innovazione più imprenditore, grande industria. Oggi significa, assai più spesso, immobiliare, nonché consumo per chi (tante e tanti) è afflitto da bassi salari; a stringere, profitti per le banche commerciali. Come ha dimostrato il 2008, però, il castello di carta (tra cartolarizzazioni, appunto, e derivati) può crollare con drammatica facilità, imponendo salvataggi che passano per le riserve delle banche centrali ma, soprattutto, per l’aumento del debito pubblico e conseguenti politiche di austerità. Il salvataggio delle banche too big to fail, dopo il 2008, è costato alla fiscalità generale (ai cittadini) più di 20 trilioni di dollari. Sarà casuale che Trump vuole allentare controlli e vincoli prudenziali per le banche? È difficile prevedere cosa accadrà, dopo? PERCHÉ LUCREZIA REICHLIN HA RAGIONE In un editoriale del “Corriere della Sera” dello scorso primo maggio, Lucrezia Reichlin ha sostenuto che la crisi del dollaro è una grande occasione per l’euro. Ciò, in primo luogo, se la BCE saprà prendere la stessa direzione della Cina, avanzando con l’euro digitale. L’affermazione di quest’ultimo, infatti, introdurrebbe un sistema di pagamento sicuro, alternativo a quelli attualmente egemoni e denominati in dollari, Visa e MasterCard i principali. La condizione fondamentale affinché l’euro emerga come valuta globale alternativa al dollaro, però, è un’altra. Scrive Reichlin: > «Per competere davvero con il dollaro, l’area dell’euro avrebbe bisogno di > strumenti di debito congiunti permanenti e di larga scala, creando un mercato > profondo liquido paragonabile ai titoli del Tesoro statunitensi». Solo in questo modo, continua Reichlin, l’euro sarebbe considerato valuta di riserva affidabile e un mercato comune dei capitali (con una piazza affari comune, per esempio a Francoforte) potrebbe davvero prendere piede. Immaginate se i 300 miliardi l’anno che dall’Europa procedono verso Wall Street si radicassero, invece, nella stessa Europa, finanziando ricerca e innovazione, sanità e reddito di cittadinanza (continentale): sarebbe, l’Europa, la stessa iattura tecnocratica conosciuta dopo il 2008 e fino alla pandemia? Pensate se anche i 30mila miliardi di risparmi privati europei, invece di essere aggrediti da BlackRock o di essere mobilitati per l’industria bellica (così vuole il White Book sul riarmo), fossero utilizzati per far proliferare Silicon Valley pubbliche, e non private, in giro per il continente: sì, sarebbe un’altra Europa. Reichlin dimentica – va precisato – che, per rendere sostenibile il debito pubblico europeo, servirebbe un regime fiscale progressivo e altrettanto federale, ostile a Irlanda e Lussemburgo, nemico dell’elusione fiscale agita dalle corporation multinazionali tutte e in modo sistematico da decenni. Eurobond, patrimoniale, tassa per le grandi imprese al 40%: l’Europa da conquistare. CONTRO IL FASCISMO, DEMOCRATIZZARE L’EURO I movimenti sociali e una sinistra radicale degna di questo nome, in Europa, dovrebbero imporre, dal basso o democraticamente, il programma di Lucrezia Reichlin – con le implementazioni fiscali segnalate. Affinché questo accada, in primo luogo bisogna vincolare l’emissione di eurobond al rilancio del welfare: istruzione, sanità, previdenza. Welfare contro keynesismo di guerra. E infatti vero che il programma di Reichlin è più che caro anche a Draghi, il quale però, schiettamente, propone eurobond per finanziarie l’industria bellica. Meglio di von der Leyen, perché piano tutto sommato federalista, ma sempre di armi e di morte si tratta. Di più: euro digitale contro stablecoins (vincolate al dollaro) senz’altro, ma chi controlla la moneta digitale pubblica? Per uscire dal sistema chiuso delle riserve di banca centrale, dovremmo immaginare un’emissione di moneta legale che, digitalmente, finisca nelle mani delle cittadine e dei cittadini europei – nel senso che vivono e lavorano sul suolo europeo. Direttamente, senza la mediazione delle banche commerciali. La parola d’ordine che qualche anno fa propose Christian Marazzi, ovvero «Quantitative Easing for the People», avrebbe così uno strumento nuovo, di importanza significativa, per ambire alla realizzazione. > Le guerre culturali mi paiono decisive. E il fascismo si articola, da sempre, > con sessismo e razzismo: se non si battono questi, il fascismo riemerge senza > sosta. La proposta che avanzo è al contempo troppo ambiziosa (o irrealistica?) > e alquanto insufficiente. Si colloca, tatticamente, nel solco del > tecno-riformismo europeo, con l’intento deliberato di radicalizzarne in senso > trasformativo, direi sovversivo, il programma. L’obiettivo concreto è anche > “antico”: reddito di cittadinanza e welfare universale. Il caos sistemico rafforzato dalla seconda Amministrazione Trump, però, impone un terreno di confronto inedito per il capitalismo e la politica europei: cedere ai ricatti di Trump e Vance, rompere l’Europa e procedere verso una nuova guerra civile analoga alle due del Novecento (il sostegno americano a AfD va, esplicitamente, in questa direzione; come quello di Putin a Orbán e Le Pen, d’altronde); avanzare nel senso di un prudente keynesismo che guarda alla Cina per ripensare il multilateralismo globale. Non vi è, a mio avviso, un tertium datur. Meloni lo sa, per questo è più preoccupata di quanto non voglia far sembrare. Di fronte al bivio, nella consapevolezza che senza 1917 niente Keynes, solo uno scarto europeo dalla morsa di Trump può salvarci dalla catastrofe globale. Dal basso, ovviamente; auspicando che, anche dall’alto, qualche spiraglio si apra. Immagine di copertina di PublicDomainPictures da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Guerra della moneta proviene da DINAMOpress.