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Un raggio di sole a Kiev
Martedì 19 agosto ho incontrato a Kiev, nella sede della Ong Arca, Sofia Torlontano, venticinquenne di Pescara, responsabile di un progetto della cooperazione italiana. Sofia si è laureata in Cooperazione internazionale e ha fatto un master sul tema della Risposta umanitaria in emergenza. Ha lavorato nel marketing/fundraising per Save the children, poi ha fatto un tirocinio in Comunicazione alle Nazioni Unite a Copenaghen e la sua prima esperienza sul campo è stata in Kenya con ActionAid Kenya. Ora il suo ruolo è davvero importante: è Project Manager in Ucraina con un progetto dell’Ong Arca, che ha vinto un bando della Cooperazione Italiana. Il progetto su cui ha lavorato Sofia e che ha diretto nell’ultima fase si è concluso in questi giorni e riguardava la situazione di emergenza delle persone più fragili. E’ un progetto multisettoriale con interventi a Kiev e focus geografico su Sumy, Kharkiv e Mykolaïv, a ridosso della linea del fronte e con diverse aree di attività: * Costruzione di rifugi per le scuole e per gli istituti di formazione professionale. Attività con i bambini. * Acquisto di materiali e attrezzature mediche per gli ospedali delle città interessate dal progetto. * Distribuzione di cibo, prodotti per l’igiene e stufe elettriche ai civili delle cittadine e dei villaggi a ridosso del fronte e vicini a tal punto che l’insieme dei villaggi della Comunità di Yunakivka, una hromada, nell’oblast (si tratta di nomi di entità territoriali e amministrative) di Sumy, dove Arca stava portando aiuti, è stata da poco occupata dalle armate russe. * Installazione di filtri per la purificazione delle acque per renderle potabili, problema serissimo a seguito dei bombardamenti sulle infrastrutture (centrali elettriche, impianti idrici…) * Distribuzione di cibo a Kiev a persone senza fissa dimora. Queste esistono in Ucraina, come in Italia e in qualsiasi città del mondo, ma tra loro vi sono tanti sfollati interni che hanno perso tutto e non sono ancora riusciti a integrarsi, trovando un lavoro e una abitazione decente, come invece molti altri sono riusciti a fare avendo maggiori possibilità economiche  professionali. Molti di loro sono scappati prima dell’arrivo dell’Armata Russa dalle regione del Donbass e dalla Crimea, altri dalle città fantasma semidistrutte ed evacuate a ridosso del fronte, oppure dalle città spesso colpite dai droni e anche da missili di vario tipo e potenza. Gran parte degli sfollati interni, che provengono ovviamente dalle regioni orientali, se non la quasi totalità, sono di madrelingua russa o di famiglie linguisticamente russo-ucraine. Il progetto non è terminato, ma esaurito il supporto italiano proseguirà grazie ai partner locali di Arca, e cioè Remar e Hope Ukraine, a cui resterà ad esempio la tensostruttura dove vengono serviti i pasti, montata accanto alla stazione centrale di Kiev. Il secondo progetto che Sofia dirigerà e che partirà a breve, con focus geografico su Rivne e Kiev, si ripromette di creare opportunità di lavoro a lungo termine, attraverso corsi di formazione professionale e microcredito, ad alcune donne e in particolare a quelle che, dopo anni di guerra al fronte, necessitano di un reinserimento sociale. Durante la nostra lunga conversazione Sofia mi spiega che sono stato molto fortunato, perché l’ultimo attacco è stato il missile della strage del 31 luglio; dal mio arrivo a Kiev in poi non ci sono stati attacchi di nessun tipo. In effetti alla mia partenza più d’uno mi aveva fatto capire che la situazione di Kiev era molto più pericolosa di quella di Leopoli. Mi dice che in effetti la situazione è stata per giorni e giorni veramente drammatica, con continue esplosioni che hanno colpito anche zone centrali della città, che mi indica sulla mappa e che proverò a raggiungere perché non sono troppo distanti da dove alloggio. Per lei, come per tutti gli abitanti di Kiev, ci sono state notti di vera paura, passate insieme ad amici con i sacchi a pelo nei rifugi. Poi, tra un attacco e l’altro, mazzi di splendidi fiori ricevuti per festeggiare di essere ancora vivi, il lavoro che deve riprendere con il massimo della concentrazione possibile e serate a ballare in luoghi frequentati da tanti giovani e a offerta libera, perché divertirsi è un modo di distrarsi, riprendere energia e resistere. Mi chiedo e le chiedo se non vi sia ancora il rischio di un’escalation disastrosa, che potrebbe essere addirittura causata dall’incertezza sul fatto che un missile in arrivo sia dotato di un ordigno nucleare. Sofia mi dice che il problema permane, che del resto lei da anni (mi dice “fin da giovane” e a me viene da ridere perché ha, come ho già detto, venticinque anni e quindi mi vien da pensare “fin da bambina”) è attiva e impegnata a favore del trattato per la messa al bando delle armi nucleari (TPAN), di cui abbiamo parlato tante volte su Pressenza. Sofia, come tutti del resto quelli con cui ho parlato, è molto scettica sui colloqui di questi giorni in Alaska e a Washington: troppe volte si era ad un passo dalla pace e poi tutto è saltato. Sono stato fortunato a incontrarla perché l’indomani era in partenza per rientrare, per un paio di settimane di vacanza, nella sua Pescara. “Vai al mare?” le chiedo. “A dire il vero vado in montagna in un campo organizzato dalla Croce Rossa… Mi “diverto” così, lì ci saranno i miei amici più cari… Altrimenti restavo qui” mi risponde. Sofia tornerà dopo le ferie per coordinare il nuovo progetto di sostegno all’imprenditoria femminile. Questa ragazza, nata nel 2000(!), attiva sui social, a cui piace andare a ballare e divertirsi con gli amici, non è diversa dai ragazzi della sua generazione, ma come molti di loro vive quotidianamente, come attività professionale, come volontariato o come nel suo caso entrambi le cose, l’impegno a favore di un mondo migliore, diverso, altro. La mia generazione ha fallito e abbiamo poco da insegnare; possiamo soltanto metterci con grande umiltà al loro servizio, perché se non altro evitino di ripetere i nostri errori. Loro ci insegnano la concretezza sociale e umana indissolubilmente legata all’impegno politico. Il sorriso con cui mi congeda mi sembra un piccolo raggio di sole che illumina questo mondo “vasto e terribile”.   Mauro Carlo Zanella
Luci a Kibera: un ritratto della più grande baraccopoli dell’Africa orientale
Tra enormi sfide e difficoltà, la vita a Kibera, malfamata baraccopoli di Nairobi, testimonia la straordinaria tenacia dei suoi abitanti. Capaci di vincere le avversità con creatività e resilienza, scrivono ogni giorno un racconto che esalta l’indomito spirito umano. Il testo e le immagini di questo articolo sono tratti dal calendario 2025 dell’associazione non profit Amani, che da trent’anni si dedica a garantire a bambini, bambine e giovani in Africa il diritto a un’identità, una casa sicura, cibo, istruzione, cure mediche e il calore di una famiglia. Amani gestisce case di accoglienza, centri educativi e scuole professionali in Kenya e Zambia, offrendo ogni giorno opportunità concrete a chi altrimenti vivrebbe in strada, negli slum e nelle periferie di Nairobi e Lusaka. Il calendario (disponibile nell’e-shop di Amani al prezzo di € 10,00 per la versione da parete e € 5,00 per quella da scrivania) è dedicato a Kibera, una delle più grandi e note baraccopoli dell’Africa orientale, periferia di Nairobi. Le splendide immagini sono opera del fotogiornalista Brian Otieno, cresciuto proprio a Kibera e quotidianamente impegnato a sfatare i cliché sulla sua terra d’origine attraverso il progetto Kibera Stories (v. servizio di copertina di Africa 6/2020 a lui dedicato). A introdurre questo viaggio fotografico nella quotidianità di Kibera è il racconto di una giornalista keniana pluripremiata, Judie Kaberia, esperta di media e attivista dei diritti umani, delle politiche pubbliche e della parità di genere. Basta dire Kibera perché chi conosce la realtà della vita in uno slum senta un brivido freddo correre lungo la schiena. Per gli altri, quella realtà sarà qualcosa di vago che scaturisce da racconti che trasformano la cruda realtà in favola. Per capire cosa significhi vivere in uno slum, bisogna guardare Kibera, una delle baraccopoli più estese dell’Africa orientale. Situata nella capitale del Kenya, Nairobi, in soli 2,5 chilometri quadrati Kibera ospita circa un milione di persone, che per lo più sopravvivono con meno di un dollaro al giorno, affrontando alti livelli di disoccupazione e criminalità dilagante. Per molti dei residenti, dati gli scarsi guadagni, Kibera rappresenta un rifugio sicuro. Le sue viuzze si snodano tra baracche costruite con ogni tipo di materiale: plastica, lamiera arrugginita, legno e fango. Minuscole catapecchie così fitte che i sussurri dei vicini filtrano attraverso le pareti. Sopra le loro teste si snoda una precaria ragnatela di cavi elettrici, una costante minaccia di rimanere folgorati. La mancanza di fognature adeguate fa sì che anche i servizi igienici siano un lusso e che i liquami scorrano tra le case, diffondendo malattie e un fetore intenso. La criminalità è una costante e la brutalità della polizia la conseguenza. Spesso i residenti cadono vittime di arresti illegali, estorsioni o, tragicamente, anche di esecuzioni. Durante le stagioni politiche o le proteste, Kibera diventa l’epicentro dei disordini, dove i giovani disoccupati sfogano la propria frustrazione affrontando la dura repressione della polizia. Dove fiorisce la speranza Eppure, nonostante una realtà così difficile, lo spirito umano fiorisce. La vita continua con vigore e tenacia. Le storie dei residenti riflettono una grande resilienza e ci dicono che c’è speranza anche negli ambienti più inospitali. Una speranza simile a una rosa stupenda che sboccia da un cespuglio di spine, così come la gente di Kibera trova forza dentro di sé, sfruttando qualsiasi opportunità, convinta che ogni giorno possa portare a un futuro migliore. Circa 30 anni fa, questa speranza ha richiamato l’attenzione di Amani — che significa “pace” — e di Koinonia Community, che hanno attivato un progetto alimentato dalla capacità di affrontare e superare le difficoltà di una comunità desiderosa di creare una vita migliore per le generazioni future. Grazie ad Amani e a Koinonia, bambini che vivevano in strada hanno potuto andare a scuola e affrancarsi da povertà e crimine. Guidati da padre Kizito Sesana, migliaia di loro sono stati allontanati dalla strada, trovando una casa e un centro dove l’istruzione è un diritto. Vengono sostenuti bambini che affrontano sfide quali violenza di genere, tossicodipendenza, matrimoni precoci, sfruttamento sul lavoro e traffico di esseri umani. A Kibera fiorisce anche la creatività. La comunità ha capito che il successo non andrebbe misurato con i soliti esami scolastici e ha cercato di identificare e coltivare il talento, consentendo ai bambini e ai giovani di partecipare a eventi sportivi e culturali. Nonostante i preconcetti che circondano la vita in uno slum, i giovani di Kibera sono coinvolti in attività creative e spesso eccellono negli sport, fino a entrare in squadre nazionali che offrono loro l’opportunità di un futuro migliore. Lo sport e il gioco sono parte della vita. Dopo scuola o nei fine settimana, bambini e giovani si ritrovano per giocare. Celebrazione della vita La loro idea di divertimento non coincide certo con quella di chi vive fuori dallo slum. Quello che per molti è un fiume melmoso, per loro è un allegro parco giochi. Con o senza costume, si tuffano creando ricordi preziosi che rimarranno per tutta la vita. Anche la moda trova un suo posto nel cuore dello slum. Tra le baracche, un ragazzo e una ragazza posano orgogliosi mostrando stili locali, bellezza incontaminata e creatività. Questa vibrante celebrazione della vita dimostra che i residenti non sono semplici spettatori, ma partecipano attivamente alla definizione delle tendenze globali, esprimendo la propria unicità. Un ring di pugilato, coperto da un tappeto cremisi, si erge a simbolo di resistenza. Eventi come questo dimostrano la collaborazione tra società, Ong e agenzie governative per coltivare i talenti locali e offrire occasioni di divertimento a tutta la comunità. Negli angoli di Kibera, i bambini trasformano ciò che li circonda in fonte di gioia. In assenza di veri campi da gioco, si arrampicano e inventano giochi che scatenano tante risate. Lo spirito della comunità cresce con giovani che si impegnano a ripulire la baraccopoli: uno sforzo collettivo che promuove il senso di appartenenza e li rende orgogliosi di migliorare l’ambiente in cui vivono. In questo arazzo di resilienza, brillano le donne di Kibera. Le madri, esempio di amore incondizionato e forza, affrontano sfide immense come la violenza di genere e la povertà estrema. Organizzazioni come Amani forniscono un sostegno vitale, offrendo l’opportunità di sviluppare nuove competenze e mezzi di sostentamento sostenibili. I murales colorati che adornano le strade di Kibera raccontano storie di grande intensità: comunicano le lotte quotidiane, le paure e le speranze che consentono di immaginare un futuro migliore. Ogni pennellata cattura le lezioni apprese e alcuni degli artisti sviluppano carriere degne di nota. Questa speranza radicata nella comunità è la luce in fondo al tunnel. Pur presentando sfide formidabili, la vita a Kibera è anche testimonianza della tenacia dei suoi residenti, che abbracciano il proprio destino con orgoglio e affrontano le avversità con creatività e resilienza, scrivendo un racconto che esalta l’indomito spirito umano. Per la gente di Kibera domani sarà sicuramente un giorno migliore. Foto di Brian Otieno Africa Rivista