L’urlo del post punk contro il postmodernismo
Se il punk conobbe il suo apogeo nel 1977, l’anno del Giubileo celebrato nel
pieno della crisi economica, il post punk si sviluppò tra l’inverno del
malcontento del 1978 e il 1984, svolta epocale nella società inglese per lo
sciopero dei minatori che si sarebbe concluso con una decisiva sconfitta della
classe operaia.
Nel 1978 i fratelli Dave e Robert Wise, ex membri di King Mob, scrissero un
opuscolo, The End of Music. Criticando l’ambiente in cui si era mosso anche il
loro gruppo, essi accusavano il punk e il reggae di avere sfruttato il malessere
giovanile per farne un prodotto di consumo. La parabola dei Sex Pistols, secondo
loro, confermava le teorie di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale,
dimostrando che la musica non aveva più nulla da dire in termini rivoluzionari:
“Il nichilismo ulcerante quasi psicotico, che si incontrava ovunque – niente
divertimento, niente sentimenti e fantasie selvagge di caos – persino nelle
persone più vicine, divenne il linguaggio dei registratori di cassa. La società
borghese aveva generato i suoi mostri. Essa li disapprovava nello stesso momento
in cui traeva profitto dalle loro malformazioni”, si legge in The End of Music.
Contemporaneamente, a Manchester, Tony Wilson, convinto che le influenze del
pensiero situazionista che aveva assorbito nei dieci anni precedenti avessero
invece ancora molto da dire, fondava il Factory Club e la Factory Records.
L’Internazionale situazionista si era sciolta nel 1972, certificando la fine del
senso della propria esperienza con la consolazione, per dirla con Debord, che
ormai “le nostre idee sono nella testa di tutti”. Nella primavera di quell’anno
un evento sembrava dargli ragione. A Saint Louis, in Missouri, venne abbattuto
il primo dei trentatré palazzi di cemento alti undici piani che costituivano
l’enorme complesso residenziale di Pruitt-Igoe, costruito a metà degli anni
Cinquanta dall’architetto Minoru Yamasaki, il quale, proprio negli stessi giorni
delle prime demolizioni, festeggiava l’inaugurazione dell’altro progetto per cui
diventerà famoso: le Twin Towers di New York.
Pruitt-Igoe, Saint Louis
Edificato secondo gli ortodossi criteri corbusiani della “città radiosa”, il
complesso di Pruitt-Igoe venne fatto saltare in aria su richiesta insistente
della maggioranza dei suoi diecimila abitanti, esasperati da condizioni di vita
che ritenevano non più sopportabili, visto che il complesso era rapidamente
degradato in uno scenario di vandalismo, crimini e delinquenza. Negli anni Venti
Le Corbusier aveva ideato la sua dottrina urbanistica secondo il principio
“architettura o rivoluzione”, intendendo che occorreva offrire case dignitose
alle masse e organizzare la vita urbana in modo da disinnescare i sommovimenti
sociali. Trent’anni dopo, quando quella dottrina si diffondeva a Pruitt-Igoe
come nel resto del mondo, Chtcheglov aveva rovesciato la questione: “rivoluzione
o suicidio”. Nel 1954 i lettristi, futuri situazionisti, a proposito della
“città radiosa”, scrivevano: “Ma ai nostri occhi i viaggi terrestri non sono né
monotoni né tristi; le leggi sociali non sono inflessibili; le abitudini che
occorre attaccare frontalmente devono far posto ad un incessante rinnovamento di
meraviglie; e il primo confort che noi auspichiamo sarà l’eliminazione delle
idee di questo genere, e delle mosche che le diffondono”. Le demolizioni volute
dagli abitanti di Pruitt-Igoe sembravano cominciare a dare loro ragione, ma
quella vittoria si rivelò illusoria.
Nel 1977 il critico Charles Jencks pubblicava la prima edizione di un saggio
destinato a fare storia nel suo settore, The Language of Post-Modern
Architecture, nel quale dichiarava che quello dell’abbattimento del primo blocco
di Pruitt-Igoe era stato “il giorno in cui l’architettura moderna è morta”:
un’importanza epocale immortalata in una suggestiva sequenza del film
Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, con la musica di Philip Glass. L’edilizia
popolare del modernismo aveva fallito, l’architettura della città poteva
liberarsi dal ruolo pedagogico imposto dal funzionalismo del secondo dopoguerra,
si doveva trovare un nuovo linguaggio, qualcosa che superasse il moderno. Jencks
all’epoca lavorava in Inghilterra, aveva studiato con Banham ed era consapevole,
perché lo vedeva con i propri occhi, che, incuranti del fallimento di
Pruitt-Igoe, gli urbanisti inglesi continuavano imperterriti a costruire
quartieri brutalisti, come certificava l’inaugurazione dei Robin Hood Gardens
degli Smithson proprio nel 1972.
Nel 1978, mentre Tony Wilson fondava la Factory Records e metteva sotto
contratto i Joy Division, uscì Jubilee, un film ideato da Derek Jarman, regista
sperimentale e figura centrale della controcultura di quegli anni, e Jordan, già
collaboratrice del negozio londinese di Vivienne Westwood e protagonista del
film nel ruolo di Amyl Nitrate. Il film venne girato tra le banchine fatiscenti
di Butler’s Wharf, nella zona dei Docklands, dove allora Jarman viveva in un
magazzino abbandonato, e in altre zone degradate di una Londra spettrale. Il
paesaggio rappresentato ha la stessa atmosfera di quella che Savage aveva
documentato nella sua deriva a North Kensington; strade ancora danneggiate dalle
bombe della guerra, edifici fatiscenti e tutti i segni del declino industriale
britannico. In una delle scene più rappresentative del piglio sperimentale alla
base del film, per il quale Jarman incoraggiava i giovani attori suoi amici a
interpretare spontaneamente la sceneggiatura, il punk Sphinx tiene un sermone
sulla miseria della vita plastificata regolamentata dai pianificatori urbani,
mentre la telecamera indugia sul panorama punteggiato dei nuovi edifici
brutalisti del centro di Londra:
> È lì che io e Angel siamo nati. Non ho mai vissuto sotto il quattordice- simo
> piano finché non sono stato abbastanza grande da poter scappare. È stato
> piuttosto grandioso fino a quattro anni, stavo chiuso da solo con la
> televisione tutto il giorno. La prima volta che ho visto dei fiori sono
> impazzito. Avevo paura dei denti di leone. Una volta mia nonna ne ha colto uno
> e io ho avuto una crisi isterica. Tutto in quel palazzo è regolato dai
> pianificatori sociali secondo un minimo comune denominatore. Vista: cemento.
> Suono: la televisione. Tatto: la plastica. Le stagioni sono regolate dal
> termostato. Una volta all’anno, mamma e papà spolverava- no l’albero di Natale
> di plastica e si scambiavano patetici regali. Non sapevo che fossi morto fino
> a quindici anni. Non ho mai sperimentato amore o odio. La mia generazione è la
> generazione vuota.
A questo punto Kid, un altro punk interpretato da un giovane Adam Ant, esplode
in una risata che, come ricorda Jarman, va interpretata come una reazione
spontanea “alla mia scrittura pedante e forse anche piuttosto ridicola. Era una
risata sincera per ciò che avevo scritto, dei luoghi comuni sui casermoni di
cemento e tutto il resto”. Il punk incarnava la rabbia contro l’alienazione
urbana ma ne respingeva la teorizzazione. “Ma penso”, aggiunge Jarman, “che in
seguito le persone siano diventate più consapevoli delle trappole costruite dai
quartieri di palazzoni; quando è diventato un tema centrale, hanno iniziato ad
abbatterle”.
Nei vuoti urbani della crisi industriale Jarman vedeva l’ambientazione visiva
ideale per esprimere il disagio della generazione no future. A distanza di
tempo, per spiegare lo spirito del film, egli ha paragonato il nichilismo punk
inglese di quegli anni con il dada tedesco di Weimar: “In giro c’era un gran
disgusto, giusto e comprensibile, verso qualsiasi cosa, disgusto che però non
veniva incanalato, e che a suo modo si è ridicolmente trasformato in
repressione, con l’Inghilterra di Margaret Thatcher”. Un’altra scena iconica
all’inizio del film – girata tra Blackwall Lane e Grenfell Street, una zona di
Greenwich oggi rasa al suolo e ricostruita – immortala tre punk appoggiati a un
muro di cemento in una strada coperta di rifiuti e macerie, tra un’automobile
rovesciata e un uomo intento a derubare due donne inermi sbalzate
dall’abitacolo, un caseggiato popolare vittoriano a due piani in completo
abbandono e un gasometro. Sul muro di cemento, sopra la testa dei tre, campeggia
una scritta tracciata con lo spray: postmodern. L’associazione voluta da Jarman
lanciava un messaggio fin troppo chiaro: il postmoderno urbano si esprimeva in
un paesaggio apocalittico e in un grido espressionista contro una civiltà al
collasso.
Tre anni dopo, nel 1981, il governo inglese lanciava il London Docklands
Development Corporation, un piano di risanamento che trasformò i magazzini in
abitazioni residenziali e locali alla moda, facendone il cuore del rilancio di
Londra avvenuto nei decenni successivi e un modello della riqualificazione
urbana dell’Occidente postindustriale. Il postmoderno architettonico e urbano
annunciato da Jencks si sarebbe evoluto nel compiaciuto pastiche citazionista
all’interno di città che naufragavano nelle acque luccicanti della
gentrificazione, nei flussi sempre più anestetizzati delle metropoli diffuse e
liquide di oggi. Un processo certificato dalla quarta edizione di The Language
of Post-Modern Architecture uscita nel 1984, lo stesso anno in cui il critico
Fredric Jameson definiva, in un suo importante saggio, il postmodernismo come la
“logica culturale del tardo capitalismo”, ovvero una trasformazione radicale
dell’esperienza collettiva all’insegna di una compressione che frammenta le
esistenze, appiattendo il senso di profondità temporale e negando la percezione
di un possibile futuro diverso.
In 1984 di Orwell, uno degli slogan del partito recita: “Chi controlla il
passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.
Con il postmodernismo la distopia dei totalitarismi novecenteschi si dissolveva
in quella di un presente eterno e piatto. Nelle prime pagine del saggio, Jameson
definisce Il grido di Munch “un’espressione canonica della grande tematica
modernista dell’alienazione, dell’anomia, della solitudine, della disgregazione
e dell’isolamento sociali, un emblema virtualmente programmatico di quella che
un tempo si chiamava età dell’ansia”. Mettendolo in relazione con i soggetti
piatti della pop art e di Andy Warhol, egli afferma come, nel postmodernismo,
questi sentimenti non siano più adeguati alla percezione collettiva e degni
quindi di una rappresentazione: “Si può definire tale mutamento nella dinamica
della patologia culturale come una sostituzione del soggetto alienato con il
soggetto frammentato”. Ben prima di Warhol, in una lettera indirizzata agli
Smithson pochi mesi dopo la mostra This is Tomorrow, Richard Hamilton aveva
definito così la pop art: “Popolare, ovvero pensata per un pubblico di massa;
transitoria, in quanto soluzione e breve termine; non necessaria, perché verrà
facilmente dimenticata; a basso costo, prodotta in serie; rivolta ai giovani;
spiritosa; sensuale; che fa solo apparenza; attraente; un grande business”. Un
elogio sfrenato della logica culturale del tardo capitalismo di cui il
postmodernismo avrebbe raccolto il testimone. In controtendenza rispetto a
questa ventennale trasformazione di sensibilità, il post punk ripropose il
soggetto alienato – con i suoi corollari di anomia, solitudine, disgregazione
sociale – come tema centrale della propria poetica. Incarnando un nuovo urlo
espressionista nei confronti del mondo, esso si presentò come un fenomeno di
“modernismo popolare”, come lo ha definito Fisher, a ricordarci che il cuore
malato del capitalismo rimaneva sempre lo stesso. Prigionieri impossibilitati a
fuggire dalle città raggelate dal declino industriale, i giovani post punk
introiettarono l’atmosfera dell’ambiente urbano, l’isomorfismo tra cemento
armato e capitalismo, facendone il prisma delle loro emozioni e la base della
creazione di un nuovo linguaggio. Emarginati dal tramonto della società dei
consumi, essi si sentivano fratelli dei loro coetanei che vivevano nei grigi
casermoni oltre la cortina di ferro, in quell’eastern bloc, il blocco del Patto
di Varsavia, nel quale le rassicurazioni dei comfort e della merce, con le quali
i loro padri erano stati blanditi fin dai tempi di This is Tomorrow, non avevano
avuto la possibilità di essere tradite.
“I fautori della modernità ci hanno insegnato a non fidarci di noi stessi e a
non amarci. Tutte quelle storie sulla coscienza individuale, sul dolore
solitario. La modernità si basava sulla nevrosi e sull’alienazione. Basta
guardare l’arte, l’architettura che hanno espresso. Hanno qualcosa di molto
freddo”. Così scriveva Ballard nel suo ultimo romanzo, Regno a venire, uscito
cinquant’anni esatti dopo la sua visita a This is Tomorrow e trenta dopo essere
stato la principale fonte d’ispirazione per tanti gruppi della scena post punk.
“Anziché temere l’alienazione, la gente dovrebbe accettarla. Forse è la chiave
per accedere a qualcosa di più interessante. Ecco il messaggio della mia
narrativa. Dobbiamo esplorare l’alienazione totale e scoprire cosa nasconde”:
questo auspicio di Ballard è una sorta di manifesto del post punk. Se i suoi
romanzi erano tesi a metterci in guardia da quella che lui stesso definì la
“suburbanizzazione dell’anima”, una peste emotiva figlia dei nuovi paesaggi
urbani, il post punk, facendone il proprio autore preferito, incarnò
musicalmente molte delle suggestioni contenute nel Ciò in cui credo, un
manifesto poetico scritto da Ballard stesso nel 1983:
> Credo nel potere che ha l’immaginazione di plasmare il mondo, di liberare la
> verità dentro di noi, di cacciare la notte, di incantare le autostrade, di
> propiziarci gli uccelli, di assicurarsi la fiducia nei folli. […] Credo nella
> morte del domani, nell’esaurirsi del tempo, nella nostra ricerca di un tempo
> nuovo, nei sorrisi di cameriere di autostrada e negli occhi stanchi dei
> controllori di volo in aeroporti fuori stagione. […] Credo nella non esistenza
> del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del
> presente. […] Credo nella morte delle emozioni e nel trionfo
> dell’immaginazione.
L’apocalisse del post punk. Nelle città ci annoiamo di Leonardo Lippolis in
prossima uscita presso Odoya
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Magazine.