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La nota delle organizzazioni palestinesi riunite al Cairo
“Su invito della Repubblica Araba d’Egitto e con il generoso patrocinio del presidente Abdel Fattah el-Sisi, e in continuità con gli sforzi dei mediatori in Egitto, Qatar e Turchia per porre fine alla guerra a Gaza e affrontarne le conseguenze — più recentemente i risultati del ”Vertice di pace di […] L'articolo La nota delle organizzazioni palestinesi riunite al Cairo su Contropiano.
Russia e Venezuela stringono sulla cooperazione strategica
Il presidente russo Vladimir Putin ha inviato alla Duma – ieri, giovedì 16 – l’accordo di associazione strategica e cooperazione con il Venezuela per la sua ratifica finale. Il documento presentato al Parlamento russo si intitola “Accordo tra la Federazione Russa e la Repubblica Bolivariana del Venezuela sull’associazione strategica e […] L'articolo Russia e Venezuela stringono sulla cooperazione strategica su Contropiano.
Dall’accordo di Sharm el Sheik su Gaza manca la firma di Israele. La tregua non è la pace
E’ un dettaglio passato inosservato, ma il documento sulla tregua a Gaza, firmato in pompa magna e a favore di telecamere a Sharm el Sheik, porta le firme di Trump, Erdogan, Al Sisi e Al Thani, vede mancare una firma significativa: quella di Israele. Si potrebbe aggiungere che manca anche […] L'articolo Dall’accordo di Sharm el Sheik su Gaza manca la firma di Israele. La tregua non è la pace su Contropiano.
Il testo integrale dell’accordo firmato da Israele e Hamas per “porre fine alla guerra” a Gaza
Middle East Eye ha ottenuto una copia dell’accordo firmato da Israele, Hamas e dai mediatori in Egitto per porre fine al genocidio di Gaza. Il documento, che include le firme di diversi mediatori, tra cui l’inviato degli Stati Uniti Steve Witkoff, è intitolato “Passi di attuazione per la proposta del presidente Trump per una […] L'articolo Il testo integrale dell’accordo firmato da Israele e Hamas per “porre fine alla guerra” a Gaza su Contropiano.
Il piano Trump per la Palestina è un progetto di dominio travestito da soluzione politica
In queste ore palestinesi e israeliani, o almeno la maggior parte di essi, celebrano la firma in Egitto dell’accordo che da stasera darà la tanto attesa tregua agli abitanti di Gaza distrutta dai bombardamenti e vedrà entro 72 ore il rilascio degli ostaggi israeliani casa. Ma si guarda anche al […] L'articolo Il piano Trump per la Palestina è un progetto di dominio travestito da soluzione politica su Contropiano.
Gaza. Accordo nella notte tra Hamas e Israele
Nella notte sarebbe stato raggiunto un primo accordo tra Hamas e Israele relativo alla liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza, la scarcerazione di 2000 prigionieri palestinesi, il ritiro parziale dell’esercito israeliano dalla Striscia, l’ingresso di aiuti umanitari e, soprattutto, l’inizio della tregua dopo due anni di violenti attacchi israeliani che hanno distrutto […] L'articolo Gaza. Accordo nella notte tra Hamas e Israele su Contropiano.
«Chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente»
«Let’s call it eternal peace in the Middle East», «chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente», così Trump definisce il suo piano all’inizio della conferenza stampa – senza domande – con Netanyahu sul cosiddetto “piano di pace” per tutta la regione mediorientale, non solo la Palestina. Perché si sa, quando si muove Trump, le cose si fanno in grande! E dato che Trump le parole le sceglie con cura, e non a caso come sembrerebbe, non ha usato “la pace perpetua” di kantiana memoria, ma la pace eterna, che in termini cristiani è l’eterno riposo, o meglio la morte. E non ci fu metafora mortifera più adeguata per definire questi “principi di pace”. E restiamo ancora sui preliminari: il piano viene presentato in una Conferenza stampa dal Presidente Trump e dal Presidente Netanyahu, dopo qualche ora di attesa. Trump spiega di aver parlato con un sacco di leader del mondo e li ringrazia con uno sovra esteso utilizzo di aggettivi superlativi: «Desidero ringraziare i leader di molte nazioni arabe e musulmane per il loro straordinario sostegno nello sviluppo della proposta, insieme a molti dei nostri alleati in Europa. L’Europa è stata molto coinvolta». E va avanti mimando le supposte conversazioni avute: “un piano incredibile” “una cosa enorme”, ne ha parlato con l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia, il Pakistan. Ma nessuno è lì per presentarlo, per firmarlo, o per supportare apertamente il piano. E in nessun modo è stata coinvolta la parte palestinese. In nessun modo.  > Gli accordi di Oslo, per quanto assolutamente fallimentari, sono stati un > momento storico nella storia palestinese-israeliana, e sono rappresentati > simbolicamente dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. Perché > la pace, o i tentativi di pace, si fanno con le due parti del conflitto, non > tra le sole parti amiche. Alla conferenza stampa ci sono gli alleati di sempre: gli Stati Uniti e Israele, tra cui accordi, pace, buone relazioni diplomatiche e commerciali esistono già. Ma non c’è nessuno altro. E questo è molto rappresentativo dell’era in cui viviamo, di come si stanno trasformando le relazioni internazionali, e dell’ordine mondiale emergente. Si parla con chi si conosce già, si impongono i propri punti di vista, non si ascoltano le opinioni opposte e la controparte, si procede sostanzialmente dritti per la propria visione del mondo. In un certo qual modo, questo è anche molto rappresentativo delle nostre relazioni interpersonali, dei dialoghi inesistenti che portiamo avanti nelle chat, incomprensioni continue, impossibilità di dialogo, e quasi nessuna propensione all’ascolto di chi non la pensa come noi.  Di Vince Musi / The White House – gpo.gov Nessuna mediazione possibile. Insomma, una catastrofe. E leggendo i principi elencati nel piano ce ne rendiamo conto.  «Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non rappresenterà una minaccia per i paesi vicini». E’ il primo punto, ripetuto più volte nei principi. Gaza non avrà controllo del proprio territorio, Hamas deve capitolare, lasciare le armi, lasciare il territorio, non è in alcun modo presa in considerazione come parte in gioco delle trattative o del successivo governo di Gaza. > A Gaza non è riconosciuta nessuna indipendenza, controllo sui confini o altro > tipo di autodeterminazione. Per un periodo transitorio, non sappiamo quanto > lungo, l’amministrazione sarà nelle mani da un comitato palestinese > tecnocratico composto da tecnici ed esperti palestinesi ed internazionali. > sotto il controllo del Consiglio di pace, con a capo il Presidente Trump, Tony > Blair e altri membri e capi di stato che dovranno essere annunciati.  Al punto 16, leggiamo: «le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno sulla base di standard, tappe fondamentali e scadenze legate alla smilitarizzazione che saranno concordati», quindi l’esercito israeliano non si ritira dal territorio immediatamente, ma in maniera graduale, per poi essere sostituita da nuove forze militari internazionali e una futura polizia palestinese.  Il futuro di Gaza rimane quello di una zona economica speciale, punto 11, dove si può derogare agli standard internazionali in termini di diritti, tariffe, e salari. I gazawi non saranno, quindi forzati ad andare via, ma saranno la forza lavoro a basso costo nella nuova riviera, che verrà costruita grazie all’aiuto di esperti che hanno lavorato ad «alcune delle più fiorenti città moderne del Medio Oriente», punto 10. Il punto 7: «Una volta accettato il presente accordo, gli aiuti saranno immediatamente inviati nella Striscia di Gaza» riconosce implicitamente che non entrano aiuti sufficienti a Gaza e che gli aiuti – come scritto nel punto 8 – dovrebbero essere distribuiti dall’Onu e le sue agenzie, e altre organizzazioni internazionali, come la Croce Rossa e la Mezza Luna Rossa. E non da una fondazione privata gestita in maniera poco trasparente. Conclusa la presentazione del piano per la pace eterna Trump ribadisce «se Hamas rifiuta sosterrò Israele perché finisca il lavoro», ripreso poi da Netanyahu «questo può essere fatto nella maniera più morbida o nella maniera più dura». Ed è inutile dire, come stanno facendo innumerevoli commentatori, ora la palla passa ad Hamas, perché qui non c’è nessun gioco possibile. Nessuna trattativa. Nessuna prospettiva di pace, solo eterna pace, cioè nuova morte e distruzione. Immagine di copertina: screenshot della conferenza stampa SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo «Chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente» proviene da DINAMOpress.
Gasdotto game changer
Dopo una trattativa durata un decennio, la firma di Pechino e Mosca al “memorandum d’intesa vincolante” su Power of Siberia2 è stata apposta il 2 settembre scorso, alla vigilia della parata militare di piazza Tiananmen per la Giornata della vittoria, alla quale ha presenziato il presidente russo, Vladimir Putin. Un […] L'articolo Gasdotto game changer su Contropiano.
Dall’Alaska a piccoli passi
Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni. Se dovessimo stare alle […] L'articolo Dall’Alaska a piccoli passi su Contropiano.
La diplomazia del Vaticano a stelle e strisce: Leone XIV raccoglie l’eredità cinese di Papa Francesco
La nomina del vescovo Lin Yuntuan a vescovo ausiliare di Fuzhou da parte del Vaticano segna una svolta nelle relazioni sino-vaticane. Sotto la guida di Papa Leone XIV, il primo pontefice americano, la Santa Sede ha pienamente attuato il controverso accordo provvisorio del 2018 con Pechino – un delicato equilibrio diplomatico che preserva l’ultimo canale funzionale dell’Europa verso la Cina, pur mantenendo i legami formali con Taiwan. La cerimonia di insediamento dell’11 giugno ha coronato un processo meticolosamente orchestrato che ha coinvolto le approvazioni del comitato cattolico del Fujian, riconosciuto dallo Stato, della Conferenza episcopale cinese e del Vaticano. Questo meccanismo di approvazione trilaterale, istituito in base al rinnovo dell’accordo del 2022, rappresenta un raro consenso operativo tra Roma e Pechino. Questo gesto avviene nel cuore di una contraddizione geopolitica. La Santa Sede è l’unico Stato europeo a mantenere relazioni diplomatiche formali con Taiwan, ma al tempo stesso è l’unico attore che riesce a dialogare concretamente con la Cina sulla base di meccanismi concordati. Mentre altri soggetti occidentali, come gli Stati Uniti – che hanno riconosciuto formalmente la Repubblica Popolare Cinese come unico governo legittimo della Cina fin dal 1979, in adesione alla politica della “One China” sancita dalla Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1971 – alimentano le tensioni nello Stretto di Taiwan con forniture militari, esercitazioni navali e una retorica conflittuale, il Vaticano si muove nella direzione opposta. In assenza di formali relazioni diplomatiche con Pechino, la Santa Sede ha costruito una via propria: silenziosa, paziente, diplomatica. È questo l’autentico volto della diplomazia di pace. Ad oggi, sono soltanto tredici gli Stati che mantengono relazioni diplomatiche ufficiali con Taiwan, tra cui piccoli Paesi insulari come Palau, Tuvalu e Nauru, e alcune nazioni dell’America Latina e dell’Africa. La Santa Sede è l’unico soggetto sovrano europeo a farlo. Ciò rende la sua capacità di dialogo con Pechino ancora più singolare: un attore diplomatico che, senza rinunciare a relazioni con Taipei, riesce a costruire un’intesa funzionale con il governo cinese su una materia delicatissima come la nomina dei vescovi. La figura di Lin Yuntuan, 73 anni, già amministratore apostolico della diocesi di Fuzhou e protagonista della vita ecclesiale locale fin dagli anni ’80, diventa così la prima espressione visibile dell’accordo Vaticano-Cina nel contesto del nuovo pontificato. Nato a Fuqing, nel Fujian, Lin è stato ordinato sacerdote nel 1984 ed è stato consacrato vescovo nel 2017. La sua lunga esperienza amministrativa e pastorale nella regione lo ha reso figura di fiducia sia per Roma che per Pechino. La scelta della diocesi di Fuzhou ha anche un valore simbolico. Il Fujian è la regione cinese più vicina a Taiwan ed è da secoli crocevia della diaspora cinese sull’isola. Oltre la metà della popolazione taiwanese ha origini nel Fujian, e numerose famiglie conservano ancora oggi legami familiari e culturali con la Cina continentale. La diocesi di Fuzhou include anche territori (come le isole Matsu) che, pur sotto l’amministrazione de facto di Taipei, appartengono alla giurisdizione religiosa cinese. In questo senso, la nomina di Lin assume un ulteriore valore: quello di unire simbolicamente due rive dello stesso mondo sinico-cattolico, in una fase storica segnata dalla divisione. La diplomazia della Santa Sede, anche con un papa di passaporto statunitense, non si piega alle logiche dei blocchi. L’Accordo del 2018 non è stato annullato, ma rilanciato: in un’epoca in cui le grandi potenze alzano la voce e accumulano armamenti, il Vaticano scommette ancora su un modello di pazienza diplomatica. Il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha parlato esplicitamente di un “ulteriore frutto del dialogo tra la Santa Sede e le autorità cinesi”. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha dichiarato il 12 giugno che “la Cina è disposta a collaborare con il Vaticano per promuovere il continuo miglioramento delle relazioni Cina-Vaticano attraverso il dialogo costruttivo e la fiducia reciproca”. Il contrasto con la diplomazia statunitense è netto. Washington sostiene apertamente l’armamento di Taipei e ne fa una pedina nel confronto strategico con la Cina. Eppure, è proprio grazie a questo approccio che, almeno in ambito ecclesiale, si è evitata una frattura insanabile. L’alternativa era proseguire con nomine unilaterali, scismi de facto e comunità cattoliche divise tra clandestinità e patriottismo. La Santa Sede ha scelto un’altra via: imperfetta, ma praticabile. Va riconosciuto che il processo resta fragile. La nomina unilaterale del vescovo di Shanghai nel 2021 ha dimostrato i rischi concreti di un accordo ancora soggetto a interpretazioni divergenti. E il carattere “provvisorio” dell’intesa, rinnovata a scadenza quadriennale, rende il cammino costantemente esposto a scossoni. Ma proprio per questo, ogni passo compiuto ha un valore doppio: non solo come atto ecclesiale, ma come segnale politico. In un mondo che sembra bruciare sotto il peso dei conflitti, dal genocidio in corso a Gaza agli attacchi contro l’Iran, la Santa Sede versa sapienti e pazienti gocce d’acqua sul fuoco, alimentando riconoscimento multipolare e flebili ma forti speranze di pace. L’accordo con la Cina si distingue da altri modelli (come quello informale col Vietnam o la semplice tolleranza di Cuba) per la sua forma strutturata e vincolante. A differenza di contesti dove la diplomazia è improvvisata, il caso cinese è codificato, scritto, sottoscritto. Ed è in questo spazio scritto che si muove il Papa, con pazienza e determinazione. L’attitudine multilaterale e multipolare del Vaticano non si limita alla Cina. La Santa Sede mantiene un impegno costante nella costruzione di relazioni pacifiche anche in America Latina e Africa, dove il ruolo di mediazione e dialogo interreligioso è spesso l’unica alternativa credibile alle derive securitarie o alle interferenze esterne. La diplomazia vaticana opera con la stessa logica paziente e discreta: riconoscere le complessità locali, ascoltare i bisogni delle comunità, costruire ponti dove altri alzano muri. La nomina di Lin Yuntuan non è solo la cronaca di un’ordinazione episcopale: è la conferma che la Santa Sede continua a esercitare una funzione unica sulla scena internazionale. E lo fa oggi, con un pontefice statunitense che non tradisce, ma rilancia, la via del dialogo. Forse è proprio da qui, e non dai vertici militari o dai forum geopolitici, che può partire una nuova idea di convivenza pacifica. La speranza, per ora, ha un nome e una diocesi: Lin Yuntuan, Fuzhou.     Redazione Italia