«Chiamiamola la pace eterna nel Medio Oriente»«Let’s call it eternal peace in the Middle East», «chiamiamola la pace eterna
nel Medio Oriente», così Trump definisce il suo piano all’inizio della
conferenza stampa – senza domande – con Netanyahu sul cosiddetto “piano di pace”
per tutta la regione mediorientale, non solo la Palestina. Perché si sa, quando
si muove Trump, le cose si fanno in grande! E dato che Trump le parole le
sceglie con cura, e non a caso come sembrerebbe, non ha usato “la pace perpetua”
di kantiana memoria, ma la pace eterna, che in termini cristiani è l’eterno
riposo, o meglio la morte. E non ci fu metafora mortifera più adeguata per
definire questi “principi di pace”.
E restiamo ancora sui preliminari: il piano viene presentato in una Conferenza
stampa dal Presidente Trump e dal Presidente Netanyahu, dopo qualche ora di
attesa. Trump spiega di aver parlato con un sacco di leader del mondo e li
ringrazia con uno sovra esteso utilizzo di aggettivi superlativi: «Desidero
ringraziare i leader di molte nazioni arabe e musulmane per il loro
straordinario sostegno nello sviluppo della proposta, insieme a molti dei nostri
alleati in Europa. L’Europa è stata molto coinvolta». E va avanti mimando le
supposte conversazioni avute: “un piano incredibile” “una cosa enorme”, ne ha
parlato con l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia, il Pakistan. Ma nessuno è lì
per presentarlo, per firmarlo, o per supportare apertamente il piano. E in
nessun modo è stata coinvolta la parte palestinese. In nessun modo.
> Gli accordi di Oslo, per quanto assolutamente fallimentari, sono stati un
> momento storico nella storia palestinese-israeliana, e sono rappresentati
> simbolicamente dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. Perché
> la pace, o i tentativi di pace, si fanno con le due parti del conflitto, non
> tra le sole parti amiche.
Alla conferenza stampa ci sono gli alleati di sempre: gli Stati Uniti e Israele,
tra cui accordi, pace, buone relazioni diplomatiche e commerciali esistono già.
Ma non c’è nessuno altro. E questo è molto rappresentativo dell’era in cui
viviamo, di come si stanno trasformando le relazioni internazionali, e
dell’ordine mondiale emergente. Si parla con chi si conosce già, si impongono i
propri punti di vista, non si ascoltano le opinioni opposte e la controparte, si
procede sostanzialmente dritti per la propria visione del mondo. In un certo
qual modo, questo è anche molto rappresentativo delle nostre relazioni
interpersonali, dei dialoghi inesistenti che portiamo avanti nelle chat,
incomprensioni continue, impossibilità di dialogo, e quasi nessuna propensione
all’ascolto di chi non la pensa come noi.
Di Vince Musi / The White House – gpo.gov
Nessuna mediazione possibile. Insomma, una catastrofe. E leggendo i principi
elencati nel piano ce ne rendiamo conto.
«Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non
rappresenterà una minaccia per i paesi vicini». E’ il primo punto, ripetuto più
volte nei principi. Gaza non avrà controllo del proprio territorio, Hamas deve
capitolare, lasciare le armi, lasciare il territorio, non è in alcun modo presa
in considerazione come parte in gioco delle trattative o del successivo governo
di Gaza.
> A Gaza non è riconosciuta nessuna indipendenza, controllo sui confini o altro
> tipo di autodeterminazione. Per un periodo transitorio, non sappiamo quanto
> lungo, l’amministrazione sarà nelle mani da un comitato palestinese
> tecnocratico composto da tecnici ed esperti palestinesi ed internazionali.
> sotto il controllo del Consiglio di pace, con a capo il Presidente Trump, Tony
> Blair e altri membri e capi di stato che dovranno essere annunciati.
Al punto 16, leggiamo: «le Forze di Difesa Israeliane (IDF) si ritireranno sulla
base di standard, tappe fondamentali e scadenze legate alla smilitarizzazione
che saranno concordati», quindi l’esercito israeliano non si ritira dal
territorio immediatamente, ma in maniera graduale, per poi essere sostituita da
nuove forze militari internazionali e una futura polizia palestinese.
Il futuro di Gaza rimane quello di una zona economica speciale, punto 11, dove
si può derogare agli standard internazionali in termini di diritti, tariffe, e
salari. I gazawi non saranno, quindi forzati ad andare via, ma saranno la forza
lavoro a basso costo nella nuova riviera, che verrà costruita grazie all’aiuto
di esperti che hanno lavorato ad «alcune delle più fiorenti città moderne del
Medio Oriente», punto 10.
Il punto 7: «Una volta accettato il presente accordo, gli aiuti saranno
immediatamente inviati nella Striscia di Gaza» riconosce implicitamente che non
entrano aiuti sufficienti a Gaza e che gli aiuti – come scritto nel punto 8 –
dovrebbero essere distribuiti dall’Onu e le sue agenzie, e altre organizzazioni
internazionali, come la Croce Rossa e la Mezza Luna Rossa. E non da una
fondazione privata gestita in maniera poco trasparente.
Conclusa la presentazione del piano per la pace eterna Trump ribadisce «se Hamas
rifiuta sosterrò Israele perché finisca il lavoro», ripreso poi da Netanyahu
«questo può essere fatto nella maniera più morbida o nella maniera più dura». Ed
è inutile dire, come stanno facendo innumerevoli commentatori, ora la palla
passa ad Hamas, perché qui non c’è nessun gioco possibile. Nessuna trattativa.
Nessuna prospettiva di pace, solo eterna pace, cioè nuova morte e distruzione.
Immagine di copertina: screenshot della conferenza stampa
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