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Il cemento è fatto per sgretolarsi. Dentro il quadrilatero di Rozzol Melara a Trieste
(disegno di irene servillo) Sono a Trieste per lavoro. Alle persone dico che mi occupo dell’accoglienza per un noto festival cinematografico, ma in sostanza faccio l’autista. Devo trasferire gli ospiti in vari teatri e poi assicurarmi che non perdano il volo di ritorno. Non è un lavoro difficile, forse stancante, ma di positivo ha il metterti alla prova in varie situazioni. La principale difficoltà è quella di trovare parcheggio, soprattutto in una città piccola e ricca come questa. Ovunque mi giri vedo suv, berline e macchine costose, sembra che nessuno guidi utilitarie. Ogni volta che torno in questa città il pensiero va al tenore di vita. Le persone sono ben vestite, solitamente hanno una shopper di qualche boutique tra le mani. I palazzi sono bassi, curati, con bellissimi infissi colorati e piante verdeggianti dietro grandi finestre-balcone. Dopo giorni in continuo movimento i miei occhi si abituano a quella realtà fatta di pellicciotti, cappellini, caffè in vetro e attese ai semafori. Finisco per assuefarmi e neanche mi chiedo più dove siano finiti tutti gli altri: quelli che non parcheggiano e non vanno in boutique. Incontro Emanuela, una giornalista che trasporto dal lussuoso e centralissimo Hotel Modernist alla periferica e abbandonata Rozzol Melara. Deve fare una presentazione di un libro nella sede di un’associazione. Percorro i tornanti che dal centro portano verso il limite nord della città. Superata la zona residenziale mi si para davanti un gigantesco complesso brutalista: due scatoloni in cemento collegati da ponti in ferro e costellati da piccole finestre intervallate da giganteschi oblò. Percepisco una sensazione già nota. Sono attratto da quella struttura come da un morto in autostrada, che vuoi vedere e non vuoi vedere. Accompagno Emanuela e decido di addentrarmi. Ho poco tempo prima del prossimo pick-up. Mi rendo conto che quel tipo di complesso è qualcosa di contemporaneamente familiare e inedito. Il cemento delle pareti sta iniziando a macchiarsi e a formare lunghe lingue verdastre. Molte vetrate sono spaccate, i graffiti ricoprono le superfici interne, c’è un’intensa puzza di urina e pochissime persone: un’anziana con un carrello, un uomo con un cane. Mi addentro ancora di più, arrivo fino ai garage. Si accende automaticamente la luce generale, attivata da un qualche sensore. Ci sono molte macchine costose in fila: suv, berline, ecc. Un uomo in tuta e scarpe da ginnastica mi taglia la strada, a tracolla ha delle racchette da tennis. Entra in una Bmw e parte. Salgo la rampa di scale, passo in una delle uscite di emergenza che permettono l’ingresso nei palazzi dal garage. Mi ritrovo in un lungo tunnel con il pavimento in gomma, ai lati file di attività abbandonate. Un gruppo di ragazzi fumano una canna. Li supero e finisco in una piazza coperta all’incrocio di quattro vie. Seduti su un cubo in cemento, utilizzato come panchina, ci sono due anziani. Il signor Michele e il suo amico Giovanni. Chiedo se sono del posto e intanto mi accendo una sigaretta. «Noi sì, siamo nati qua – dice il signor Michele –. Qua l’ha fatta l’Atar, sarebbe l’azienda territoriale per l’edilizia. Ha fatto seicentoquaranta appartamenti, hanno cominciato nel ’69, hanno fatto mezza ala, poi hanno fatto l’altra, ci abitavano milleseicento persone in quasi novantamila metri quadri. Ma adesso sono cambiate le cose. Prima c’era un ufficio postale, c’erano un sacco di cose. L’hanno costruito gli architetti di Trieste, era un Ordine intero… trenta tra architetti e ingegneri. Il coordinatore era Celli, che aveva anche uno studio importante a Trieste. Doveva essere un paese nel paese, ma hanno fatto una cazzata. Il cemento è fatto per sgretolarsi, e qui si sta sgretolando tutto. L’idea di partenza era anche buona, i primi vent’anni ha funzionato. Adesso mi sembra solo un mostro di cemento, non c’è un cazzo». «Qui ci vive un po’ di tutto – continua Giovanni, l’amico –. Lo chiamano “il quadrilatero” quando parlano di cose ufficiali, ma è conosciuto anche come Bronx. Ci sono cose che non vanno bene, mettono gente che si dovrebbe recuperare. Non sanno dove metterla e la mettono qua, extracomunitari e zingari. Gira un po’ di tutto. Qua per fare politica costruiscono casone, palazzoni e se ne fottono di quelle vecchie, qualcuno gli dovrebbe dire: “Dio bono, sistema quello che c’era prima”, no? Lo fanno perché così possono dire che hanno costruito». Ora capisco la sensazione provata inizialmente. Quel richiamo che mi ha portato a scendere dall’auto, che mi ha fatto immergere nel quadrilatero di Rozzol Melara: come trovarsi davanti un sogno disatteso, una visione rimasta incompleta. L’idea di una schiera di ingegneri e architetti influenzati dalle teorie socio-architettoniche di Le Corbusier che hanno creduto di poter costruire una città fatta su misura dei cittadini, con tutto ciò che sarebbe servito, trascurando i fattori dell’identità e del rapporto con la “dimensione umana” che impallidisce all’ombra di un colossale blocco di cemento. Domando al signor Michele e al signor Giovanni come si vive oggi nel “quadrilatero”. «Qua aprono solo cose di comunità e associazioni, non ci sono attività. Provano a fare qualcosa per le persone, hanno aperto una biblioteca per i ragazzi un anno fa – risponde Michele –. Poi c’è un bar e basta, manco un panettiere, bisogna andare fuori, non c’è neanche una banca. Almeno c’è l’autobus che ti porta a Trieste, sono dieci minuti. Poi qua spendono un mare di soldi, stanno a spendere per cambiare gli ascensori, quindi bene, perché qui ci stanno dei vecchi come noi che capirà, come salgono su sti palazzoni? Ma sono cinquanta ascensori, strutture enormi… Quindi qualcosa la fanno. Ma poi è tutto pisciato. Gli extracomunitari, che per carità io non voglio giudicare, ma non si possono integrare, fanno le cose a cazzo e magari non hanno lavoro…». «C’era anche un’altra passerella, ma l’hanno tirata giù – ricomincia Giovanni –, hanno tolto dei ponti perché una decina si sono buttati giù. Sai, qui c’è gente che ha problemi, non c’è psicologo, non c’è niente, e si sono buttati giù dal ponte. Queste sono case popolari. I giovani non possono lavorare e magari si trovano i debiti o si sentono falliti. Io il mio l’ho fatto, prendo mille e quattro di pensione, non mi lamento. Sono del ’54, ho lavorato quarantadue anni e cinque mesi. Mi dispiace per loro. I giovani stanno impazzendo per questo, si fanno patologie, disturbi, io non riesco a fregarmene anche se sono vecchio». «Io ho fatto un po’ di tutto – continua Michele –. Sono andato in alto e poi sono andato in basso, nelle fabbriche sempre qua in zona. Poi sono andato in “mamma Rai”, mi ha mandato l’ufficio del lavoro. Però sempre meglio di quelli di adesso: un ragazzetto che era perito in telecomunicazioni doveva riparare una radio e non sapeva fare un cazzo. Ma dio bono, dico io, che si studiano questi? A che serve? Io sono radioamatore. Sono entrato in Rai con la terza media, sono andato a lavorare con le camere e con i registratori. Ma ci mandavano in posti a cazzo, sui campi minati… Eravamo in tre, giornalista, operatore e uno che segue per portare il necessario. Io portavo le cose, che sembrava avessi addosso un’armatura, quindici chili pesava quella roba là. Era faticoso, in due anni dieci persone se ne sono andate. Uno che è andato dove dovevo andare anch’io, qua vicino in Bosnia, gli è arrivato un missile ed è morto. Ho fatto bene ad andarmene, mi sono salvato, altro che. Gli davano dei soldi, ma ti sparavano, col cazzo che ci andavo, già normalmente camminavo sulle bombe…». Guardo l’orologio, è tardissimo. Ringrazio il signor Michele e il signor Giovanni e procedo a ritroso: passo dalla piazza al tunnel, discendo le scale di uno dei palazzi, taglio per un parchetto con delle giostrine, arrivo sulla strada ed entro in auto. Metto in moto e discendo i tornanti a velocità sconsiderata. Prima dell’ultima curva guardo lo specchietto retrovisore. Vedo i palazzoni in cemento scomparire dietro la montagna. (fabrizio ferraro)
Maltrattamenti ai disabili nel centro Stella Maris. Per i giudici i dirigenti non hanno responsabilità
(disegno di andrea nolè) Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura. Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco. Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati, qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola) andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e cura a carattere scientifico”. La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità. Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le argomentazioni nella motivazione della sentenza). Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi. In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari). Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio. Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”. Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole, tratte dalla sua Carta dei servizi: “La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”. HANNO VINTO I POTENTI Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, Tso. La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi più calde. D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori, cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni. Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia ­– afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza ­– abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”. A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo, all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni. Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove, di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud) ______________________ ¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere di Matera visto da dentro
(archivio disegni napolimonitor) La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *     *     *  Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
La guerra ai ragazzini. Nuove politiche dello spazio pubblico a Palermo
(disegno di adriana marineo) Palermo, martedì 18 marzo 2025. Per tutto il pomeriggio un elicottero sorvola Ballarò. Pattuglie di carabinieri, polizia e vigili urbani battono le strade, passano e ripassano accanto al campo di bocce di via Albergheria, davanti al pensionato San Saverio, nei punti in cui si sono accese le vampe negli anni passati. Di solito, il pomeriggio del 18 marzo si vedono ragazzini girare per il quartiere spingendo cassonetti pieni di legna, cercando un posto dove accatastarla. Oggi no. “St’annu, unn’a fannu fari a nuddu” (“quest’anno non la fanno fare a nessuno”, la vampa), commentano alcuni parrocchiani sugli scalini di San Giuseppe Cafasso, gli occhi in su a guardare gli elicotteri, le conversazioni accompagnate dal rumore del flappeggio delle pale del rotore. Alle 18 si alza una colonna di fumo bianco davanti al Civico. Un elicottero della polizia staziona sopra l’ospedale. Un’ora prima non c’erano segni di preparativi. Hanno rovesciato i cassonetti dell’immondizia e li hanno disposti lungo due file; alcuni sono incendiati, l’immondizia all’interno brucia, squagliando il polietilene insieme all’asfalto della strada. Nell’area del parcheggio di via Carmelo Lazzaro, delimitata dai cassonetti, arde una piccola vampa. Tra l’immondizia sono stati affastellati in fretta e furia alcuni pannelli di compensato, gli unici pezzi di legno che i ragazzini sono riusciti a trasportare senza farsi notare. Per il resto, le fiamme sono alimentate dalla plastica. L’aria è irrespirabile. Mi avvicino alla vampa, scatto una fotografia – l’unica della serata. Intorno al fuoco non c’è nessuno. Il falò propiziatorio di legna vecchia, preparato e acceso dai ragazzi all’imbrunire della vigilia della festa del santo, brucia nonostante i divieti. Ma non c’è nessuno a scaldarsi e a mangiare intorno alle fiamme, non ci sono adolescenti che giocano a saltarle e ad alimentarle con altra legna. Il centro del rito si è spostato, il fuoco principale sarà un altro, l’attenzione della gente del quartiere è rivolta a uno spettacolo diverso. Accanto ai cassonetti bruciati, è stata rovesciata una campana del vetro. Diversi ragazzi camminano con bottiglie di vetro in mano, le trasportano ai lati della strada, ammucchiandole tra le auto e i motorini, sul marciapiede. Molti indossano il passamontagna, altri si coprono il volto con cappucci, fazzoletti, bandane, sciarpe, magliette annodate dietro alla nuca. Si muovono veloci, si chiamano a voce alta, osservano attenti quello che succede intorno. Scherzano tra loro, giocano. Aspettano la polizia. La gente guarda la scena, appoggiata ai muri delle case, alle saracinesche dell’edicola, davanti alle vetrine della salumeria, della pizzeria, del centro scommesse, o in piccoli gruppi in mezzo alla strada, sotto gli alberi dell’aiuola davanti al Civico. Si sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi; i ragazzi si muovono compatti verso le barricate in fiamme, si calano i passamontagna sul volto. Poco dopo, arrivano due autoblindo della celere e un’autopompa dei vigili del fuoco. I ragazzini gli tirano contro una grandinata di bottiglie, alcuni restando in sella ai motorini accesi, suonando i clacson all’impazzata. Il vetro si schianta contro l’asfalto, il parabrezza del blindato e le fiancate delle automobili parcheggiate. I poliziotti scendono in tenuta antisommossa, sparano due lacrimogeni sui ragazzini a pochi metri di distanza, che si disperdono. Alcuni continuano a lanciare bottiglie: si staccano dal gruppo, corrono verso la polizia, caricano il braccio e scagliano una bottiglia, poi ritornano nel gruppo. I lanci si fanno più frequenti, le bottiglie volano più vicine agli agenti, i ragazzini si avvicinano sempre di più, fanno a gara tra loro. Uno arriva a pochi metri dalla fiancata dell’autoblindo aperto, prende la mira e tira una bottiglia di birra vuota sugli agenti; tre di questi si staccano dal cordone e partono all’inseguimento, appesantiti dall’equipaggiamento. Il ragazzino resta a guardarli, aspetta che arrivino a pochi passi da lui, si gira e corre veloce guadagnando terreno in pochi istanti. Mi allontano per stare al riparo dalle bottiglie, mi sposto vicino a un gruppo di adulti che osservano lo scontro da un’aiuola. Fanno il tifo per i ragazzi, ridono della goffaggine della polizia. Inizio a sentirmi meno sconvolto dalla scena, recupero in parte il senso del rito, della comunità che osserva i giovani maschi esibire il proprio coraggio intorno alle fiamme. C’è qualcosa di radicalmente diverso però: il gioco è diventato più pericoloso, le fiamme fanno solo da contorno, la prova di iniziazione è molto più violenta. Sento che non c’è controllo collettivo, gli adulti commentano spaesati: “Ai tempi i nuatri un c’era tuttu stu finimunnu! Chisti parunu scene i guierra”. Qualcuno prende le distanze, un esercente dice ai ragazzini di spostarsi dai tavolini del suo locale. I poliziotti si schierano su due fronti ai lati del furgone, gli scudi compatti uno sull’altro. Gli assembramenti si sciolgono, si riformano rapidamente poco lontano, al riparo da eventuali cariche. I ragazzi continuano a tirare bottiglie, si muovono in continuazione tra i capannelli di persone, attraversano la strada, girano intorno all’isolato, si confondono tra gli spettatori, poi scattano di corsa, lanciano quello che trovano e tornano indietro. I poliziotti rientrano dentro il mezzo che parte a sirene spiegate, sfonda la barricata di cassonetti ancora in fiamme. Il fronte dei ragazzini si disperde veloce, alcuni retrocedono su via Giuseppe Basile e dal centro della strada continuano a lanciare bottiglie. La polizia spara due lacrimogeni sui ragazzi, nel frattempo i vigili del fuoco azionano la pompa sui cassonetti, mentre volano ancora bottiglie. È buio ormai. Le fiamme si spengono, il rito si è consumato. Le macchine e i motorini riprendono a circolare tra i resti carbonizzati, le persone si allontanano. Pian piano, i ragazzini sciolgono i fazzoletti e tolgono i passamontagna. L’elicottero della polizia si sposta finalmente, ci sono altri fuochi accesi in altre periferie. La città continua altrove la sua guerra alle vampe e ai bambini che le accendono. QUINDICI ANNI DOPO Quindici anni fa, quando lavoravo come operatore di un centro sociale allo Zen 2, avevo seguito i bambini del quartiere nella preparazione della vampa di San Giuseppe. I preparativi erano iniziati a fine febbraio, ogni pomeriggio i ragazzini giravano per le case, le botteghe e le officine, raccogliendo mobili vecchi, persiane e porte dismesse, che accatastavano in una piramide al centro dello sterrato davanti all’insula dove abitavano molti di loro. C’erano anche ragazzine a raccogliere la legna e a giocare, a comporre insieme la piramide di legno, ogni giorno più alta, ad arrampicarsi e a saltare giù dalla vetta a turno, atterrando su un vecchio materasso. Dall’altro lato della strada, altri facevano un’altra vampa. I due gruppi rivaleggiavano, si contendevano il legno portato dagli Ape degli sbarazzi e dai furgoni dei giardinieri, che di solito scaricavano vicino a quelli che gridavano più forte, o che erano più svelti a vederli arrivare dallo stradone e a chiamarli. Poi, la sera del 18 marzo, gli adulti accendevano le vampe, il quartiere scendeva in strada, o si affacciava al balcone a guardarle. Arrivava la polizia, gli agenti scendevano dalle volanti, controllavano, poi risalivano e se ne andavano. La vampa continuava a bruciare fino a mezzanotte passata, con i bambini che giocavano tra i tizzoni semi-consumati. Alla fine, avevano vinto entrambi i gruppi: ogni ragazzino del quartiere, nei giorni seguenti, avrebbe detto che la sua vampa era più grande dell’altra, oppure che squagghiò pi ultima, si è spenta dopo. La stridente differenza tra i resoconti di due vampe a quindici anni di distanza mostra quanto Palermo sia cambiata in questo lasso di tempo. Nei due piazzali dello Zen dove i ragazzini facevano le vampe, ora ci sono un campo di calcetto e un piccolo parco giochi progettato da Renzo Piano. A Ballarò, facciate diroccate che venivano lambite dalle fiamme di San Giuseppe ora sono coperte da murales d’artista alti quindici metri, meta di passeggiate artistiche e turismo “alternativo”. A largo Gerbasi, dove i ragazzini dell’Albergheria montavano la vampa nello slargo della strada non ancora asfaltata davanti all’Ex Karcere (centro sociale occupato nel 2001, oggi in via San Basilio), ora c’è una ricca residenza universitaria. La turistificazione, il mercato, la politica hanno profondamente modificato alcuni spazi urbani, specialmente nel centro storico. Le voragini lasciate dallo spopolamento del secondo dopoguerra, dalla speculazione edilizia in periferia, dai crolli dovuti all’abbandono, sono state in parte riempite, in parte camuffate da qualcos’altro. Il controllo istituzionale sul territorio è aumentato, quello mafioso è meno visibile, si è trasformato. Le narrative dei luoghi sono cambiate drasticamente – basti pensare a Ballarò. Per molte persone che ci abitano, la trasformazione è preferibile. Giovani adulti cresciuti facendo le vampe dicono che ormai è tutto cambiato, che negli ultimi anni le cataste di legna si fanno troppo alte, troppo vicine alle case e alle macchine posteggiate, che si brucia troppa plastica, che i ragazzini di oggi sono troppo esagerati, troppo violenti, troppo scafazzati, maleducati. Meglio non farle più le vampe, ormai sono solo degrado. Il discorso sulla trasformazione dei quartieri è delicato. Questo articolo non è certamente un’ode nostalgica a un’antica tradizione. Le preoccupazioni e i desideri degli abitanti che sperano nella riqualificazione urbana del centro sono certamente legittimi, e se il rito delle vampe dovesse in futuro estinguersi autonomamente, non ci sarebbe niente da aggiungere. Il punto è che sta avvenendo l’esatto contrario: il fenomeno delle vampe a Palermo continua a crescere, sebbene stia diventando qualcosa di molto diverso dalla festa tradizionale, con significati rituali stravolti, inediti attori e nuovi scenari urbani e digitali, modificate percezioni da parte degli spettatori. Le violente trasformazioni del rito raccontano gli altrettanto violenti cambiamenti della città, la disgregazione dei quartieri, l’indebolimento della solidarietà e dei tradizionali strumenti di coesione delle classi popolari, l’aumento del conflitto e della rabbia sociale e l’esponenziale aumento della repressione istituzionale. Protagonisti di questa storia sono i ragazzini dei quartieri popolari, nati negli anni della crisi, cresciuti nella dissoluzione del welfare pubblico e di quello mafioso, in famiglie sempre più precarie. La maggiore presenza dello stato nei loro territori non ha determinato per loro maggiore protezione, ma ulteriore destabilizzazione. La famiglia, la scuola, la chiesa cattolica, i servizi sociali, le reti clientelari, il lavoro informale… tutte le istituzioni preposte alla cura, alla riproduzione sociale, alla produzione, stanno vivendo un periodo di forte crisi e di conseguente perdita di autorità. D’altra parte, questi ragazzini hanno subito negli ultimi anni nuove e pesanti forme di controllo, rafforzate dalle restrizioni pandemiche, che hanno determinato una crescente e attiva presenza delle forze dell’ordine in quartieri come lo Zen e Ballarò, in cui fino a dieci anni fa la polizia in genere neanche entrava e dove invece adesso interrompe falò con gli elicotteri. Le vampe di San Giuseppe sono esemplificative della nuova politica dello spazio pubblico a Palermo: espressione di forte identità culturale delle classi popolari, pratica di gestione autonoma dello spazio pubblico attraversata da conflitti tra le diverse componenti sociali dei quartieri, non esente da violenza e prevaricazioni, le vampe sono continuate attraverso i decenni nella sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine, in zone marginali della città, nel centro storico abbandonato e nelle periferie di edilizia popolare. Oggi, la tolleranza è finita. Le vampe sono diventate oggetto di una vera e propria guerra, che mobilita ingenti risorse e dispiega forze di polizia, vigili del fuoco e tribunali per cercare di scongiurare la preparazione delle cataste di legna, per spegnere i fuochi una volta accesi, e per indagare i responsabili dopo. I ragazzini resistono, sentono ancora forte il valore della prova del fuoco, della manifestazione pubblica di coraggio, per strada e su TikTok. La repressione esaspera il conflitto, lo scontro è inevitabile e, in quanto tale, diventa il centro del rito; i ragazzini lo cercano, lo pianificano, lo gestiscono; la polizia ne diventa coprotagonista in negativo, pupazzo di carnevale in carne e ossa. Una forma tradizionale di appropriazione dello spazio pubblico attraverso il rito si trasforma in tattica di guerriglia, irrisione del potere attraverso la provocazione fisica, sovversione violenta dei divieti. E come ogni rito, anche le vampe riescono nell’impresa di imporre l’ordine al mondo, di dare agli esseri umani la parvenza del controllo sulle grandi forze che regolano l’universo intorno a loro: ogni anno, i ragazzini, da soli riescono ad accendere i fuochi, nonostante i divieti e gli elicotteri, gli idranti e i mezzi blindati, le telecamere e i lacrimogeni. Per un fugace momento, il buio della sera di fine inverno viene illuminato dalle fiamme. Anche se a bruciare è più plastica che legno. Anche se il coraggio va mostrato a volto coperto. Anche se comporterà denunce, arresti e processi. La festa del santo compie il prodigio di coordinare il malcontento, di dare ai ragazzi le energie per sfidare il potere e per tenere testa alla polizia; ma il meccanismo rituale intrappola il conflitto sociale, gli impedisce di entrare nella storia, di formularsi politicamente. Spentosi il fuoco delle vampe, si spegne la protesta. La persistenza delle vampe di San Giuseppe è certamente una forma di resistenza al controllo da parte dei ragazzi di quartiere, ma l’esercizio di tale resistenza produce effetti disgreganti. Le comunità si spaccano, il pubblico si allontana dagli attori, ne prende le distanze. Gli adulti partecipano meno. I ragazzini sperimentano uno spazio di totale autonomia, ma perdono la protezione dei grandi, che si divertono a guardarli far la guerra con la polizia, ma li lasciano soli a giocare. La festa di passaggio non celebra nessun passaggio: saltato il fuoco delle vampe non si diventa grandi. Il rito urbano di San Giuseppe, sempre più legato alla marginalità, turba gli spettatori, anche coloro che ne sono stati attori qualche anno fa, quando andavano in scena copioni rituali meno violenti. La comunità degli adulti consuma lo spettacolo dei ragazzini ribelli, ma non vi si rispecchia, non approva. La repressione esacerba la violenza rituale, scaricandone la responsabilità sui ragazzini. È un gioco troppo pericoloso, troppo crudele. Come nel film I miserabili di Ladj Ly, la violenza collettiva dei ragazzini esprime la loro estrema vulnerabilità sociale, la perdita del controllo da parte degli adulti, la deresponsabilizzazione delle istituzioni di riferimento, che esercitano coercizione e controllo senza assumersi alcuna responsabilità di cura. UN PUGNO DI VANDALI Una città in guerra con i ragazzini è una città malata. La guerra non si svolge solo nelle piazze dei quartieri la sera del 18 marzo, continua nei social, sui giornali e in televisione, si nutre di narrazioni che colpevolizzano i ragazzi e invitano all’intervento deciso delle forze dell’ordine, circoscrivendo la questione a un problema di ordine pubblico, di volgare vandalismo. Sulle pagine online dei quotidiani locali, i commenti sono pressoché unanimi: si tratta di delinquenti che meritano la galera, o forse sarebbe meglio prenderli a pietrate, come fanno loro con poliziotti e vigili del fuoco. Sono ragazzi, quasi bambini, ma questo elemento la stampa lo menziona di passaggio. Le vampe sono un uso barbaro, inconcepibile in una città “moderna”, che solo l’arretratezza e l’ignoranza di un pugno di vandali mantiene viva. La condanna delle vampe è una delle contraddizioni amare di una città che per alimentare il mercato turistico cavalca il mito della convivenza pacifica tra arabi e normanni, patrimonializza le tradizioni folkloriche di un secolo fa, ma disconosce ogni forma di cultura popolare contemporanea che manifesti conflitto sociale anche in forma indiretta, bollandola come rozza, incivile, retrograda. Pelle meridionale, maschere europee. Le vampe, per San Giuseppe o per altri santi in altri momenti dell’anno, sono una tradizione millenaria che continua in molti centri siciliani senza richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli elementi sono gli stessi: cataste di legna in spazi urbani, fuoco, ragazzini protagonisti, comunità in festa. L’antropologia l’ha già raccontato. I lavori di Ignazio Buttitta (Le fiamme dei santi, Meltemi, 1999), Orietta Sorgi e Nara Bernardi (Le vampe di Palermo, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 1985) ricostruiscono la storia millenaria della tradizione, il senso rituale del ciclo delle stagioni della natura, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, del cosmo e della società che si rinnova. Eppure, dire tutto questo oggi non basta a sovvertire i discorsi dominanti. Le narrazioni ufficiali, nei rari casi in cui viene riconosciuta la profondità storica e la ricchezza culturale del rito delle vampe, leggono i fenomeni violenti degli ultimi anni come perdita dei valori, secolarizzazione del rito, pretesto per fare casino. Esemplare, in tal senso, l’immancabile servizio di Striscia la notizia sulle vampe, raccontate come vandalismo “in nome della tradizione, ormai trasformata in distruzione”. L’auspicio formulato dall’inviata nel 2022 è “più controllo” per evitare devastazioni. La cronaca degli ultimi anni l’ha smentita: aumenta il dispiegamento di polizia ma anche la violenza degli scontri, il volume delle inchieste e i Daspo emanati ai ragazzini nei giorni successivi. Le narrazioni ufficiali fanno eco alle azioni istituzionali, mirate a reprimere i comportamenti illeciti senza farsi carico della responsabilità politica della violenza. Due anni fa, il questore Laricchia, parlando alla festa della polizia qualche settimana dopo San Giuseppe, fece “il punto sul crimine nel capoluogo siciliano” denunciando la connessione tra traffico mafioso di stupefacenti, diffusione del crack tra i giovanissimi, “atti di violenza inconsulta e fine a sé stessa” e “azioni criminali” in occasione delle vampe, “branchi selvaggi” di adolescenti e baby gang arabe. La droga non c’entra. La violenza delle vampe sarà anche fine a sé stessa, ma non è inconsulta. È effetto della campagna di criminalizzazione, legata al quadro più generale della nuova politica degli spazi pubblici a Palermo, segnata dal crescente esercizio di controllo e da una sempre maggiore intolleranza per le forme di socialità autonoma e popolare. A farne le spese sono principalmente i ragazzini, dipinti come vandali irredimibili e sempre più esposti alla violenza, con sempre minori protezioni. (eugenio giorgianni)
Sullo Stretto il ponte non lo vogliono. Cronaca di un corteo a Messina
(fotografia di nm) Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e soprattutto a fine degli espropri. Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si teneva l’evento. La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo. Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato dedicato il corteo. Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto. Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo, membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio a Gaza. Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in alcuni tratti della manifestazione. Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi politici. Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e Webuild, che alimentano la macchina ponte. In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023. Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città. (fotografia di nm) Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere, tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità di cantierizzazione per fasi. Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna consultazione con le popolazioni locali. Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico. Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali, e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati. (fotografia di nm) Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di truppe militari nel Mediterraneo. Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila euro di spese legali. Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da più di venti anni. Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per l’esproprio. Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)
Proteste e ricorsi. La battaglia per l’assistenza scolastica ai disabili in provincia di Caserta
(archivio disegni napolimonitor) Ho conosciuto S. in un pomeriggio di novembre a un evento in un centro sportivo della provincia casertana in occasione della presentazione di un progetto per l’autonomia di persone disabili. S. è una bambina, con fattezze già di adolescente, con disturbi dello spettro autistico. In quel pomeriggio, circondata da tanti ragazzi e ragazze, era in compagnia della mamma, che scoprii successivamente di una determinazione ed energia ineguagliabili, e di un’altra mamma, con il proprio figliolo disabile, che si rivelò molto legata alla famiglia di S. per le comuni battaglie che le avevano viste impegnate per il futuro dei piccoli. A quell’evento era intervenuta anche il ministro della disabilità Alessandra Locatelli, spegnendo con un nulla di fatto le speranze riposte dalla mamma di S. per un impegno concreto nel risolvere la situazione di tanti ragazzi disabili privati dell’assistenza scolastica con personale specializzato. Salutai S. e la mamma, che la portava verso l’uscita della manifestazione dove le aspettava il padre e conservai a lungo la sensazione di una fatica quotidiana sperimentata dai genitori di un soggetto autistico che non ha pause e chiama a una responsabilità poderosa, senza sconti. L’organizzazione carente delle politiche sociali nella città di Caserta ha garantito un’assistenza scolastica a S. e agli studenti come lei ad anno scolastico inoltrato, nel mese di febbraio. Le motivazioni addotte sono state il ritardo dei bandi per il conferimento del servizio a cooperative di operatori qualificati. Come ha stabilito una recente sentenza del Tar, le esigenze di bilancio non possono però considerarsi prevalenti rispetto al diritto all’istruzione e all’integrazione scolastica degli studenti con disabilità: l’eventuale diminuzione delle ore di assistenza determina il risarcimento del danno. La figura dell’assistente alla comunicazione è importante per agevolare la frequenza e la permanenza dello studente, facilitarne la partecipazione alle attività didattiche in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Nel 2024 i genitori di S., come quelli di tanti altri alunni disabili dell’Ambito Sociale C01 di cui Caserta è l’ente capofila (gli altri comuni sono San Nicola La Strada, Casagiove e Castel Morrone), non hanno potuto che aspettare il ripristino del servizio, senza ricevere riscontri dall’amministrazione. Nel 2025 si assiste a una replica. Gli operatori delle cooperative non vengono pagati. Di proroga in proroga il servizio, iniziato a dicembre 2024, subisce due interruzioni per più di quindici giorni, una a gennaio e una a fine febbraio. Dal 14 marzo riprende con una proroga di venti giorni. Vincenzo Mataluna, direttore dell’Azienda speciale consortile, la cui creazione fu a suo tempo annunciata con grande clamore mediatico, dichiara che si sta provvedendo alla transizione delle risorse economiche dal Comune alla nuova azienda, che gestisce i servizi alla persona nell’ambito delle politiche sociali. “In realtà, l’Azienda non è operativa sul piano finanziario – dice Mataluna – e fino al 30 giugno è il Comune a svolgere la gestione dei servizi”. Il bando per assegnare il servizio non viene espletato e lunedì 7 aprile si registra un’altra interruzione. L’11 aprile, al termine di un presidio, la segreteria provinciale della Confederazione sindacati autonomi federati italiani incontra i funzionari competenti sulla questione, in presenza di una delegazione dei genitori. I funzionari mostrano una nuova determina con una proroga di dieci giorni del servizio. Questa proroga, però, non sarà accolta dalla cooperativa a causa di un numero già esorbitante di contratti temporanei che andrebbero convertiti a tempo indeterminato. Allo stesso tempo l’incontro fortuito dei familiari dei disabili, fuori al Comune, con l’assessore alle politiche sociali e vicesindaco rivela l’inerzia e l’inefficienza della macchina amministrativa. I genitori di S. ricorrono così a Osservatorio 182, un’associazione nata su iniziativa di diverse associazioni di familiari attive a livello nazionale con l’obiettivo di fornire assistenza legale a costo zero sui temi dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Con l’assistenza degli avvocati di Osservatorio 182 i genitori di S. ottengono un’ultima ordinanza del Tribunale amministrativo regionale che ordina al comune di Caserta “di provvedere al ripristino del servizio di assistenza specialistica, in favore della minore nel più breve tempo possibile”. Il 18 aprile, alla fine, il colpo di scena: il consiglio dei ministri “in considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata che compromettono il buon andamento dell’azione amministrativa” delibera “lo scioglimento del consiglio comunale di Caserta e l’affidamento della gestione, per diciotto mesi, a una commissione straordinaria”. La decisione segue a un’indagine sui rapporti tra esponenti della giunta e dirigenti del Comune accusati di aver concorso ad affidare appalti comunali in cambio di favori, soldi e voti a imprenditori ritenuti vicini al clan Belforte di Marcianise. La commissione straordinaria che dovrà gestire il Comune nei prossimi mesi non sarà decisiva nel risolvere i problemi nell’ambito delle politiche sociali, che si sommano a tanti altri che hanno decretato la prematura fine del governo cittadino. Se è vero che il corrente anno scolastico volge alla fine, si è rivelato fondamentale allora chiedere il risarcimento del danno all’ente e così provare a scoraggiare il ripetersi di una insufficiente gestione del servizio anche nel prossimo anno. Di recente, infatti, il Tar della Campania ha condannato il comune di Caserta al risarcimento di un danno subito da D., un bambino con disabilità, per la mancata assistenza prevista dal Piano educativo individualizzato. Il ricorso era stato presentato dagli avvocati di Osservatorio 182 in collaborazione con l’associazione Vorrei prendere il treno, entrambe attive in tutta Italia per la tutela dei diritti degli studenti con disabilità. Il Comune è stato quindi condannato a risarcire l’alunno con mille euro per ogni mese in cui l’assistenza è stata assente e con quattrocento euro per ogni mese in cui è stata erogata solo parzialmente. Una sentenza che riafferma un principio essenziale: il diritto all’inclusione scolastica non può essere ignorato, ritardato o ridotto. Ora la mamma di S. aspetta con fiducia la sentenza del Tar anche per il suo analogo ricorso. (mena moretta)
Come nei manicomi. Nuova udienza del processo per i maltrattamenti alla Stella Maris di Pisa
(disegno di cyop&kaf) Soltanto nel 2022, donne e uomini sono stati contenuti immobilizzati a letto 7534 volte, in dodici regioni italiane. Il numero è certamente molto più alto, visto che le altre otto non hanno inviato dati utilizzabili o affermano di non averli. Tra queste la Regione Toscana: “I dati richiesti non sono detenuti dalla scrivente amministrazione”, è la sorprendente risposta ricevuta dall’amministrazione, i cui funzionari – forse ignari dell’impegno preso dall’intesa Stato-Regioni dell’aprile 2022 sul monitoraggio delle contenzioni entro luglio 2024 – hanno invitato a rivolgersi direttamente a ciascuna delle aziende sanitarie locali, oppure ai singoli reparti psichiatrici ospedalieri. Tra le varie strutture, anche in quella di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris, veniva praticata la contenzione meccanica. Per i maltrattamenti avvenuti in questo luogo è attualmente in corso un processo presso il tribunale di Pisa e domani, martedì 6 maggio, in piazza della Repubblica, in occasione della ripresa del processo – durante la quale verrà ascoltato il nuovo consulente tecnico della difesa – si terrà un presidio in solidarietà alle vittime degli abusi.   Pubblichiamo a seguire alcuni estratti del comunicato scritto dal Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud al termine dell’ultima udienza (febbraio 2025).  *     *     * Cinque testimoni della difesa sono stati ascoltati: il medico di base, due assistenti, un infermiere e uno psichiatra. Il canovaccio usato dalla difesa è stato lo stesso delle altre volte: i testimoni chiamati in aula hanno sostenuto che i violenti erano in realtà i ragazzi con autismo; nessuno di loro, hanno dichiarato, ha mai visto i colleghi maltrattare gli ospiti. Non c’è stato alcun riscontro alle riprese delle telecamere installate in sala mensa, che hanno immortalato più di duecentottanta episodi di violenza in meno di tre mesi. Una violenza non episodica ma strutturale. Eppure sia le due assistenti che l’infermiere hanno dovuto ammettere di aver ricevuto delle sanzioni disciplinari dalla direzione della Stella Maris per essere stati ripresi dalla telecamere mentre assistevano, senza intervenire, ad atti violenti contro i ragazzi (una conferma indiretta della conoscenza dei maltrattamenti da parte dei vertici della struttura). È emersa inoltre, come era già stato messo in evidenza anche durante le udienze precedenti, la mancata formazione del personale da parte della Stella Maris. Una delle due assistenti ha infatti riferito di avere conseguito l’attestato di Oss (Operatrice Socio Sanitaria) solamente nel 2018, quindi dopo gli abusi che risalgono al 2016. Molto importanti in quest’ottica sono stati gli interrogatori del dottor Marinari e dell’infermiere Biagini. Lo psichiatra ha ammesso di avere svolto un doppio ruolo, cosa abbastanza inquietante già di per sé. Come primario della psichiatria territoriale partecipava alle riunioni semestrali con la Stella Maris per la stesura dei piani individualizzati dei ragazzi, mansione per la quale seguiva soprattutto i ragazzi con autismo (il settantacinque per cento dei ragazzi di Montalto). Dopo la pensione è stato poi assoldato dalla società come consulente a contratto e poi ancora come responsabile sanitario della struttura di Montalto fino a oggi. Marinari ha affermato che da primario territoriale della psichiatria proponeva i ricoveri per i ragazzi quando i costi, in caso di assistenza domiciliare oppure di ricovero in struttura al momento della crisi, erano considerati troppo alti dalla Società della salute (consorzio di diversi comuni e delle relative unità sanitarie locali per l’erogazione di servizi sociosanitari, ndr) Ha detto testualmente: «Inserire ragazzi a Montalto era spesso un risparmio economico per la Società della salute». L’infermiere Biagini ha raccontato in maniera molto asettica il funzionamento dell’infermeria, dove la contenzione era una pratica costante e quotidiana. Ha usato queste parole: «C’era un letto con le contenzioni di tipo meccanico, con cinghie ancorate ai quattro lati del letto, più altre cinghie che venivano usate sopra queste». Come nei manicomi. L’infermiere ha detto anche che questi contenimenti provocavano spesso lesioni e lividi e a volte fratture, citando il caso di un ragazzo con una gamba rotta. Ha poi continuato dicendo che a Montalto di Fauglia non c’erano corsi di formazione su come usare questo tipo di contenzione, ma molta improvvisazione. Testualmente: «Non c’è stato nessun corso sulla contenzione, veniva detto tutto a voce». Lo stesso infermiere ha confermato l’uso dei tappeti contenitivi, pratica che era già emersa durante le scorse udienze. L’utilizzo dei tappeti contenitivi non è stato mai autorizzato né dalla Regione Toscana, né dall’Asl, né dalla Società della salute. I tappeti contenitivi non risultano essere dei dispositivi approvati da utilizzare in caso di contenzione. L’infermiere, a precisa domanda da parte di un avvocato, ha risposto che a oggi nella struttura di Marina di Pisa non usano più questo dispositivo, che è stato sostituito da una non meglio qualificata “coperta di sabbia”. Su questo ulteriore dispositivo di contenzione non è stato possibile avere altre informazioni, dal momento che nessun avvocato si è sentito di chiederne. Ma in cosa consiste questa “coperta di sabbia”? Che tipo di dispositivo è? Chi l’ha autorizzato? Qualcuno prima o poi dovrà dare una spiegazione, soprattutto per i familiari delle persone ospitate nella struttura che meritano risposte chiare e trasparenti. In generale, la Stella Maris dovrebbe avere il coraggio di prendere una posizione chiara e definitiva contro ogni metodo coercitivo e degradante. Sarebbe importante che la fondazione abbandonasse per sempre qualsiasi pratica di contenzione o di trattamento inumano. Indipendentemente dall’esito del processo, le sofferenze vissute rimarranno impresse nelle coscienze di chi li ha subite e delle loro famiglie. Esprimiamo loro tutta la nostra solidarietà. La presunta eccellenza della Stella Maris è un grande bluff. A Fauglia non venivano fornite cure o trattamenti terapeutici, ma si perpetravano atti di violenza e trattamenti degradanti e umilianti. Tutte le pratiche di contenzione, tra cui anche i tappeti contenitivi o le “coperte di sabbia” rappresentano, oltre che inaccettabili forme di abuso, uno dei tanti simboli del fallimento dell’utopia psichiatrica. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)