Didattica a Distanza, seconda ondata
A quanto pare, come nella prima ondata della pandemia di Covid-19, il MIUR e,
quindi la scuola, si è fatto trovare impreparato da diversi punti di vista. Da
quello della progettazione didattica: il blended learning ha la stessa necessità
di progettare le attività didattiche della DaD o della didattica in presenza,
anzi forse di più; dal punto di vista dell’utilizzo dei dati: per la verità la
questione si è aggravata, perché nel frattempo la Corte di Giustizia Europea ha
invalidato l’accordo, detto “Privacy Shield”, tra l’Unione Europea e gli Usa;
infine anche dal punto di vista del software libero.
> questo articolo è pubblicato in "Formare... a distanza?", II edizione,
> C.I.R.C.E. novembre 2020
Progettazione didattica Il blended learning in una situazione “normale” prevede
una buona dose di didattica in presenza e una dose di e-learning durante la
quale gli studenti possono approfondire i contenuti che sono stati trattati
durante le lezioni in presenza, opportunamente caricati e categorizzati nella
piattaforma, oppure possono utilizzare gli strumenti di collaborazione per
produrre in maniera condivisa nuovi contenuti, o ancora: potrebbero utilizzare
gli strumenti di comunicazioni dedicati alle chat, videochat, forum (per quanto
il termine sia un po’ fuori moda, lo strumento forum non è stato sostituito da
altre novità tecnologiche per poter discutere su argomenti strutturati) per
momenti di confronto con gli altri studenti e/o con i docenti. Nella situazione
attuale la didattica mista è intesa principalmente in due modi: metà studenti
sono in classe con il professore e metà a casa ad assistere alla lezione tenuta
dal docente; oppure tutti a casa (studenti e docenti) e il docente fa lezione
attraverso una piattaforma di video conferenza. Quest’ultima situazione è nella
sostanza ciò che è accaduto durante il lockdown di marzo e aprile del 2020. In
entrambi i casi la progettazione didattica dovrebbe tener conto della situazione
in cui avviene il processo di apprendimento.
Nel primo caso, metà a casa e metà in classe, l’indicazione del Ministero sembra
essere di inviare il video della lezione dell’insegnante, ripreso da una webcam
posizionata in classe, dove sono anche una parte di studenti, in una
videoconferenza alla quale si collegano coloro che si trovano a casa. Le
limitazioni per tutti sono molto chiare: in classe non ci si può muovere molto,
pena uscire dall’inquadratura o dal cono del microfono; da casa bisogna stare
concentrati e in silenzio cercando di seguire ciò che avviene in classe. Non si
tratta di una situazione adeguata a mantenere la concentrazione, né a costruire
le condizioni per una didattica non dico collaborativa, ma almeno che non crei
problemi di comprensione quando il docente parla. Sarebbe interessante
rovesciare la prospettiva: da casa gli studenti potrebbero tenere la lezione
alternandosi negli interventi, ovviamente coadiuvati dall’insegnante, mentre in
classe potrebbero attivare una regia audio-video e produrre in questo modo
contenuti che andrebbero ad arricchire l’impianto didattico della classe.
Naturalmente è solo un’idea che va progettata per bene, ma l’ambiente
tecnologico, allo stesso modo di quello fisico, è qualcosa che condiziona
fortemente la didattica. Non tenerne conto significa non sfruttare le
opportunità e soprattutto accettare i limiti del caso.
Del secondo caso (quello del tutti a casa), abbiamo lungamente scritto negli
articoli raccolti nella prima edizione di “Formare a Distanza?”. Purtroppo non
sembra essere cambiato molto: nella videochat viene riproposta la lezione
frontale, probabilmente peggiorata dall’assenza dei corpi, invece che progettare
attività che cambino l’assetto didattico: far preparare le lezioni ai ragazzi,
che a turno da casa potrebbero presentare la lezione ai propri pari, chiedere di
collaborare a distanza agli studenti, organizzare il lavoro in gruppi, costruire
una casa digitale comune che sia gradevole, inclusiva, accogliente (vedi: "II.
Per un setting nel digitale inclusivo e accogliente" Da: “Formare a Distanza?”,
Davide Fant ~ Inventare formazione con adolescenti distanti ~ CC 4.0
(BY-NC-SA)), comprendere i problemi e le possibili opportunità del digitale.
In entrambi i casi, la progettazione didattica non si dovrebbe avvalere
esclusivamente della videochat, che spesso è considerata essa stessa la
piattaforma per la didattica a distanza. In realtà non è così: la videochat è
una parte dei tools tecnologici necessari all’e-learning. Non è un caso che
persino nel sito del Ministero dell’Istruzione le tre piattaforme consigliate
siano delle suite. Lo è la suite di Google, quella di Microsoft (Office 365) e
lo è Weschool. Evidentemente scambiare la videochat/videoconferenza per
piattaforma di Didattica a Distanza è il sintomo chiaro della malattia: non c’è
progettazione didattica che tenga conto delle potenzialità e dei limiti delle
tecnologie per la didattica a distanza (vedi: “Piattaforme queste sconosciute”
di Stefano Penge). L’esperienza ci insegna che per un percorso di apprendimento
proficuo, pur se a distanza, oltre allo strumento della videochat, saranno
necessari gli strumenti per la collaborazione, per la comunicazione asincrona
(la posta, la bacheca condivisa, il forum), per l’archiviazione condivisa di
documenti.
Dal punto di vista dei contenuti didattici, inoltre, abbiamo assistito alla
caccia a contenuti utilizzabili per la Didattica a Distanza. Non tutti i docenti
hanno la possibilità/capacità di realizzare dei contenuti ad hoc per le proprie
lezioni a distanza, ed ecco in soccorso il learning object. L’oggetto di
apprendimento (Learning Object), considerato come un piccolo frammento di
contenuto didattico autoconsistente e utilizzabile in più contesti, da una parte
aiuta gli insegnanti nella progettazione di interventi didattici che non siano
la riproduzione della lezione frontale attraverso le videochat, ma dall’altra
rappresenta un ulteriore mattoncino verso la valutazione dell’apprendimento
misurabile numericamente in funzione dell’analisi dei dati sulla fruizione dei
contenuti degli studenti. Un Learning Object è concepito come una unità
informativa che può essere comunicata allo studente più e più volte, al di fuori
del contesto di apprendimento e spesso anche di dominio. L’utilizzo di LO
identifica il processo di apprendimento come somministrazione di porzioni di
informazione decontestualizzati, somministrati agli studenti che metteranno
insieme le informazioni fornite loro per formare le loro competenze. E’ una
concezione dell’apprendimento molto vicina all’addestramento. Certamente i LO
sono utili quando si deve addestrare un gruppo di persone ad utilizzare una
macchina industriale o un software per produrre siti. Sono molto meno utili se
si intende l’apprendimento come processo che forma l’interezza della persona
umana attraverso l’interazione con l’ambiente, attraverso la relazione con altre
presone, attraverso la creazione condivisa di nuove conoscenze. Infine sgancia
il percorso di apprendimento di un o una discente da quel complesso processo che
è molto di più che il calcolo algoritmico dei contenuti fruiti.
USO DEI DATI: PRIVACY, CONTROLLO E VALUTAZIONE
Dal punto di vista dell’uso dei dati, e della relativa utilità, prodotti da
studenti e docenti, va tenuto conto che, rispetto alla fase del lockdown, c’è
stato un pronunciamento delle Corte di Giustizia Europea che dovrebbe cambiare
totalmente il modo in cui le nostre istituzioni affrontano la questione delle
piattaforme e del cloud. La Corte di Giustizia Europea ha invalidato l’accordo,
detto “Privacy Shield”, tra l’Unione Europea e gli Usa (Sentenza del 16 luglio
2020 nella causa C-311/18 promossa dall'attivista Maximiliam Schrems). Che vuol
dire? Significa che secondo l'Unione Europea le norme per tutelare la protezione
dei dati personali in vigore negli USA e applicate dalle imprese statunitensi
non sono adeguate a quelle che la UE garantisce ai propri cittadini. In pratica,
con questo pronunciamento i dati dei cittadini italiani non possono essere
inviati e archiviati negli USA. Ovvero tutte le aziende che utilizzano servizi
cloud basati perlopiù in territorio statunitense (Amazon, Microsoft Azure)
dovrebbero spostarli in Europa. Inoltre Facebook, Google, Tik Tok e via dicendo
non possono più usare i dati degli utenti elaborandoli e archiviandoli negli
USA, il che significherebbe che quei servizi non potrebbero più funzionare. Lo
testimoniano le dichiarazioni di Yvonne Cunnane, responsabile protezione dati di
Facebook Irlanda, che dichiara: ‘Con lo stop al trasferimento dati degli utenti
europei negli Usa non è chiaro come Facebook ed Instagram potrebbero ancora
funzionare nella UE’. Il pronunciamento impatta anche le piattaforme di
Didattica a Distanza e le videochat che memorizzano i dati degli utenti fuori
dall’Europa: Google, Office 365, Zoom, etc. In teoria non essendoci più un
accordo con gli USA che tuteli la privacy degli utenti europei, queste
piattaforme non dovrebbe più essere accessibili dall’Europa. Al momento non è
così, ma ci si domanda se il Ministero dell’Istruzione sia a conoscenza del
pronunciamento della Corte Europea. Probabilmente no, non si spiega altrimenti
l’indicazione di utilizzare piattaforme proprietarie che, da quello che è dato
saperne, inviano i dati di studenti e insegnanti negli USA.
Peraltro la questione dell’utilizzo dei dati ha a che fare con due altre
importanti questioni. La prima è relativa al controllo del lavoro dei docenti.
Siamo certi che la presenza di una webcam in classe che riprende tutte le
attività dei docenti non leda i diritti degli insegnanti in quanto lavoratori?
Siamo certi che non si caratterizzi come un elemento di controllo del lavoro dei
docenti e quindi possa essere considerata una pratica anti-sindacale? Qualche
dubbio se lo pone anche Francesco Sinopoli, segretario generale della
Federazione dei Lavoratori della Conoscenza – CGIL, in una lettera ai rettori
universitari.
La seconda è altrettanto importante ed è relativa alla valutazione degli
studenti. Gli studenti della DaD possono essere oggetto di forte controllo ed
analisi dei dati prodotti attraverso le tecniche definite di “learning
analytics”. Si tratta di tecnologie che, analogamente con quanto avviene nelle
grandi piattaforme dei Big Tech che attraverso l’analisi dei dati profilano le
persone, hanno lo scopo di profilare gli studenti, valutarne lo stile e il grado
di apprendimento e addirittura in alcuni casi hanno anche la pretesa di predire
le possibilità di successo del percorso di apprendimento del singolo studente.
Sono pratiche diffuse soprattutto in ambito universitario, e in particolare
nelle piattaforme MOOC (Massive Open Online Courses) in cui l’attributo Open non
è tanto inteso come aperto alla possibilità di apprendimento per chiunque,
quanto come aperto alla misurazione, al confrontabile, all’analizzabile. D’altra
parte, da organizzazioni che danno sempre meno peso alla relazione umana nel
processo di insegnamento/apprendimento, queste tecniche sono manna dal cielo. Se
poi ai learning analytics si aggiunge la didattica gamificata, che prevede premi
al completamento della lettura o visione di contenuti, o alla corretta soluzione
di esercizi, i dati numerici di ogni studente diventano sempre di più. La
valutazione dello studente attraverso i dati numerici memorizzati dalle
piattaforme diventa sempre maggiore a discapito della “gioia” di apprendere.
Sappiamo che i processi di apprendimento sono processi che hanno bisogno di
tempo, di relazioni umane, di pazienza, di condivisione, di tempo per poter
sbagliare. Se è fatta a distanza poi ha bisogno di accortezze e disponibilità
alla sperimentazione.
Piattaforme e software libero In Italia esiste una legge (legge 7 agosto 2012,
n. 134) e due articoli (il 69 e il 69) del Codice dell’Amministrazione Digitale
(CAD) che a vario titolo invitano le Pubbliche Amministrazioni ad utilizzare
software Libero o Open Source (F/LOSS: Free/Libre Oper Source Software) a parità
di funzionalità.
Purtroppo la legge è largamente disattesa. Molto raramente gli acquisti di
software da parte delle PA privilegiano il software libero o Open Source.
Nessuna sorpresa quindi se il Ministero dell’Istruzione consigli delle suite per
la didattica a distanza proprietarie: lo sono tutte e tre quelle consigliate nel
sito del Ministero.
Lo stupore però arriva quando il fondo per l’innovazione di Cassa Depositi e
Prestiti finanzia parte di un aumento di capitale di 6,4 milioni di euro di
WeSchool, la piattaforma per la Formazione a Distanza di TIM il cui codice
sorgente non è aperto. Cassa Depositi e Prestiti è una società per azioni
controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in ultima analisi
utilizza e investe denaro pubblico. Certo la piattaforma è italiana, non ha
quindi, almeno formalmente, i problemi legati alla difesa della privacy che
hanno le azienda USA e farà contenti i sovranisti digitali italiani, ma è un
software proprietario. Non sarà possibile per nessuno utilizzarlo (a meno che
sia concesso in licenza dal proprietario), studiarlo, ridistribuirlo,
migliorarlo. Sono le 4 libertà fondamentali del Software Libero e Open Source
che, pur tra molte ipocrisie economiche e cavilli legali, sono le uniche
garanzie che un investimento pubblico non venga privatizzato da un’azienda che
farà profitti vendendo qualcosa che ha costruito con il contributo di tutti
coloro che pagano le tasse al governo italiano. Sin qui si potrebbe intendere
che si tratti di una mera questione di principio. Non è così, o per lo meno non
è solo questo il punto. Come ho già scritto nell’articolo presente in “Formare a
distanza?”, l’adozione del software libero in ambito didattico costituisce la
condizione per la libertà di insegnamento perché se “una piattaforma”
proprietaria “è disegnata per un certo tipo di interazione e relazione tra gli
umani invece che per un altro (collaborativa/gerarchica), sarà molto difficile
«forzarla» in modo da usarla diversamente da come è stata progettata”. Viceversa
se è una piattaforma F/LOSS è possibile modificarla secondo le proprie esigenze
didattiche.
Ancora più importante del finanziamento di Wescool è stato un’altra caso che mi
ha lasciato stupefatto. Il consorzio GARR è la rete nazionale a banda ultralarga
dedicata alla comunità dell’istruzione e della ricerca. Si tratta di
un’associazione senza fini di lucro fondata sotto l’egida del Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Gli enti soci sono CNR, ENEA,
INAF, INFN e tutte le università italiane rappresentate dalla Fondazione CRUI.
Durante il lockdown GARR ha messo a disposizione gratuitamente alcuni strumenti
per la DaD basati su software F/LOSS ma non è mai stato menzionato, né
consigliato dal Ministero dell’Istruzione che pure è tra coloro che hanno
contribuito a dar vita al consorzio. Eppure ha una policy per la protezione
della privacy in cui dichiara che non usa i dati degli utenti per scopi di
profilazione. Eppure GARR mette a disposizione un servizio di cloud computing
dedicato a scuole, università e centri di ricerche, che consente di installare
in maniera molto semplice, nei server messi a disposizione, piattaforme e
strumenti F/LOSS per la didattica. Anche in questo caso però l’indicazione alle
scuole e università da parte del Ministero è stato ed è tutt’ora quello di
servirsi dei cloud e delle piattaforme proprietarie delle grandi multinazionali
della tecnologia (Google, e Microsoft in primis).
Il cloud offerto dal GARR insieme alla scelta di utilizzare software libero per
la didattica potrebbe essere la base che consentirebbe alle scuole e alle
università di organizzarsi secondo le proprie esigenze, invece che secondo le
esigenze delle grandi multinazionali, e valorizzare le competenze territoriali
affidandosi a entità sociali ed economiche locali. Ne ho parlato in "La libertà
di insegnamento. Sottotitolo: il software deve essere libero" Da: Formare… a
distanza? ~ Didattica fuori dall'emergenza! ~ CC 4.0 (BY-NC-SA)
Il motivo per cui il MIUR non abbia segnalato e invitato le scuole e le
università ad utilizzare i servizi del GARR resta un Ministero tutt’ora
irrisolto.