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Zuzu / Anatomia di una sparizione
La prima cosa che colpisce leggendo un fumetto di Zuzu sono i nasi. Grandi, sporgenti, sbilenchi: non caricaturali, non grotteschi, ma dichiarazioni di esistenza. Sono lì a dire che ogni volto ha diritto alla sua forma, anche se non corrisponde ad alcun canone. Nel mondo di Zuzu i corpi sono imperfetti, diversi, autentici come si conferma in Ragazzo. Ambientato a Salerno nel 2013 – quando i social non erano ancora pervasivi come oggi – Ragazzo ruota attorno a una scomparsa: Andrea, adolescente “strano”, esce di casa senza cellulare né documenti e non torna. Ma questo non è un giallo. È un racconto di risonanze emotive: cosa provoca la sua assenza in chi resta? Cosa significa scomparire o restare quando si è ragazzi, amici, figli o genitori? Attorno ad Andrea si muovono Alice, che forse è l’ultima ad averlo visto, e Francesco, adolescente spaesato e fragile, attraversato da un dolore sordo, da un’identità incerta, da un desiderio che sa dove andare – verso Alice che ama tantissimo – ma non sa come andare. È lui a tentare il gesto più radicale: non solo sparire, ma provare a morire. I due ragazzi del titolo sono uno che manca per quasi tutta la storia e uno che vorrebbe mancare per sempre. Del primo sappiamo poco: che era generoso, gentile, che aveva un rapporto speciale con sua madre. Del secondo sappiamo tutto: il corpo che non risponde, l’ansia, la fatica di stare al mondo, l’amore per Alice che si trasforma in impotenza. In questa ambivalenza si gioca il titolo Ragazzo: è singolare, ma evoca una pluralità. Due assenze, due dolori, due modi di dire “non ce la faccio”. Ma anche due modi di rimanere. Zuzu, che in Giorni felici aveva saputo raccontare con profondità la protagonista durante le sue crisi di coppia e di senso, qui sposta lo sguardo sui maschi. Racconta la vulnerabilità dei ragazzi, l’incertezza, la paura di non essere all’altezza che però non diventa misoginia. La sessualità, presente e forte in tutte le sue opere, non è mai pruriginosa né pornografica: è parte della vita, qualcosa che si impara, che si sperimenta, che può fare paura o male, ma che è sempre legata al desiderio di essere visti, toccati, amati. Questo vale anche per i personaggi adulti. Alle due figure di ragazzo corrispondono infatti due madri, anche loro complesse e tridimensionali. Rita, la madre di Andrea, lo ha cresciuto da sola. È una donna che ama, che ha amato: ha avuto una relazione con il padre di Francesco, e questo dettaglio – che potrebbe sembrare accessorio – diventa invece una chiave narrativa sottile e potente. Anche la madre di Francesco ha una sua storia affettiva: vive una relazione omosessuale che la sorprende. Nessuna delle due è soltanto “madre”. Sono donne con desideri, corpi, relazioni. E, nei momenti più bui, sono proprio i genitori – anche quelli feriti, contraddittori – a sapere stare accanto ai ragazzi. Zuzu racconta con grande empatia questa forma imperfetta ma vitale di prossimità adulta. Ragazzo è dunque un romanzo del “noi”. Se i primi libri erano centrati sull’io, qui Zuzu allarga lo sguardo: racconta le generazioni, la trasmissione del dolore, la possibilità dell’ascolto. Ogni personaggio, anche il più marginale, come l’uomo sulla panchina ha diritto a esserci. Ogni voce è un pezzo di quel noi fragile e intermittente che chiamiamo comunità. Dal punto di vista grafico, Zuzu continua a reinventarsi. Dopo il bianco e nero di Cheese e i pastelli e matite di Giorni felici, in Ragazzo usa pennarelli volutamente scoloriti, infantili, imperfetti. Il colore incompleto diventa metafora della vita che non si sa dire tutta. Anche l’uso dello spazio è libero: tavole fitte alternate a vuoti, silenzi, dettagli che restano sospesi. Il ritmo è quello delle emozioni, dei respiri, degli inciampi. Zuzu ha dichiarato in un’intervista che ci ha messo due anni per terminare questo fumetto, e noi lo leggiamo in mezz’ora. Ma Ragazzo ci prende, ci aggancia, ci invita a tornare indietro. La prima lettura è spesso in continuità con i libri precedenti: mettiamo le opere in relazione, seguiamo l’evoluzione grafica, riconosciamo la voce. Poi rileggiamo Ragazzo per la storia. E quel bisogno di ritornarci dice molto: vuol dire che il lavoro grafico e narrativo sono profondamente intrecciati, che ciò che può sembrare una sospensione o una mancanza di trama si compensa nel modo in cui Zuzu colora, struttura, riempie le sue storie. E ci fa restare. Ma ciò che rende unica l’opera di Zuzu è la sua etica dello sguardo. Non c’è mai giudizio, mai una semplificazione, mai la tentazione di trovare colpe. C’è dolore che si trasmette, desiderio che cambia forma, e una profonda compassione. Non nel senso pietistico, ma in quello più autentico: la capacità di sentire con, di restare accanto, anche nel disordine, anche nella vergogna, anche quando non ci sono risposte.   L'articolo Zuzu / Anatomia di una sparizione proviene da Pulp Magazine.
Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird
D Dave Mckean è uno dei disegnatori più famosi del mondo. Raptor è un libro del 2021, che segue il suo capolavoro Black Dog e ne continua a modo suo i virtuosismi grafici. È stato di recente pubblicato dalle edizioni Comicon e presentato a Napoli durante l’omonimo festival. Ma prima di parlare di questo libro, una lunga premessa. Era interessante ascoltare a Napoli la sua conferenza e le sue conversazioni, perché nel 2022 McKean ha pubblicato un libro sperimentale, il primo libro con immagini completamente generate dall’Intelligenza Artificiale, dal titolo molto diretto: Prompt. Il libro ha infatti come sottotitolo Conversations with Artificial Intelligence. L’autore descrive tre conversazioni sulla creatività con l’Intelligenza Artificiale, e ne estrae qualcosa che… assomiglia alle illustrazioni di Dave McKean, ma proprio di brutto. In effetti lo stile di Dave si prestava molto, dato che da sempre è un mix di schizzi, disegno realistico, pittura, collage fotografico, e Photoshop (del cui uso è stato pioniere). In più, essendo molto famoso, il web è pieno della sue immagini, per cui è bastato chiedere alla IA: “ fai questa immagine nello stile di Dave McKean”, e la IA aveva tutte le informazioni a cui attingere per fare i suoi remix. Il risultato era abbastanza grezzo, e saltavano agli occhi tutte le allucinazioni create dalla piattaforma, ma in questo caso l’autore le aveva usate in maniera molto consapevole. Dopodiché cosa è successo lo sappiamo tutti: le IA hanno fatto passi da gigante, e non abbiamo ancora visto niente, ogni giorno acquisiscono la capacità di svolgere compiti complessi con sempre maggiore efficienza. Un articolo oggi diceva che l’IA forse pensa, forse no, ma se lo fa è in un modo che noi non possiamo capire… Cosa è successo dopo a Dave? Lui dice che la sua prima tentazione è stata quella di chiudersi in camera e di rannicchiarsi nel letto in posizione fetale. Di non fare più niente, sentendosi ormai inutile. Poi gli è passata, e ha dichiarato che la IA per produrre immagini è qualcosa che non va: azzera ogni soddisfazione, toglie l’esperienza e la riflessione che si producono quando cerchi di sforzarti di inventare delle immagini nuove. Che per carità, non è mica così ingenuo da non sapere che ogni artista è il mix della propria cultura grafica e della cultura precedente, ma così no. Non è post-umano, è disumano. L’intelligenza artificiale sta ridefinendo confini e obbligando a porci degli interrogativi fondamentali: cosa ci rende umani? E adesso torniamo a Raptor: com’è? Raptor  è un graphic novel che si muove su due piani: la vita reale, dove Arthur, uno scrittore inglese all’inizio del 900, cerca di mettersi in contatto con lo spirito della moglie morta, e, contemporaneamente,  un altro piano dimensionale, in un universo medievale-fantastico, dove un falconiere presta il suo servizio per combattere mostri lovecraftiani. I due piani sono destinati a convivere  e a fondersi. Arthur è personaggio storico realmente esistito, perché si tratta nientemeno che di Arthur Machen, lo scrittore che in  epoca vittoriana ci ha consegnato il classico horror Il grande Dio Pan, seguito da I tre Impostori, un romanzo a episodi dove alcuni racconti fantastici si intrecciano tra loro attraverso la testimonianza di tre diversi narratori. A I tre impostori, un opera considerata fondamentale per la letteratura weird, si lega la stella “decadente” del giovane Machen, oscurata tra i contemporanei dal talento e dalla fama del  più noto  Oscar Wilde. E’ curioso oggi il ritorno di  interesse per un autore come Machen,   scrittore e membro delle Golden Dawn (società magico-letteraria),  che fa capolino in maniera abbastanza sostanziale anche nel nuovo romanzo di un altro pilastro del mondo del fumetto, Alan Moore. Il Grande Quando – the Big When – questo il titolo – è il primo di una serie di romanzi fantasy-esoterici che ci terrà compagnia nei prossimi anni. Ma questa è un’altra storia. Raptor non è un libro labirintico come potrebbe esserlo una graphic novel di autori contemporanei come Chris Ware o Daniel Clowes, ma potremmo comunque definirlo un libro senza una vera direttiva, privo di una trama lineare, fatto più di suggestioni che di storie avventurose. Il lettore può divertirsi con i costanti cambi di segno e di registro visivo di MacKean, cosa che poi fa parte del suo DNA. Con il tempo il suo modo di disegnare si è fatto ancora meno realistico, debitore delle avanguardie del novecento, con improvvisi squarci astratti, per poi  magari deviare a sorpresa verso stilemi espressionisti. MacKean costruisce un libro non facile, e a un certo punto consiglierei di abbandonare l’ansia e l’affanno di capire ad ogni costo tutte le simbologie contenute nell’opera,  per lasciarsi  catturare dai suoi mondi fantastici, dove non è poi neppure così terribile perdersi. Presto forse anche virtualmente nella realtà digitale, visto che dopo l’esperienza di Prompt l’autore non ha rinunciato all’idea di utilizzare tecnologie di alto livello per portare i lettori a immergersi nei suoi universi. In un modo nuovo, che – parole sue – la tecnica  sta preparando, ma che al momento non è ancora alla portata di tutti.   L'articolo Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird proviene da Pulp Magazine.
David e William Genchi / Ludopatie black fantasy
David e William Genchi – lasciatemelo dire – sono due fottuti geni. Mi dispiace solo esserci arrivato con tanto ritardo. Esordire nel settore dei libri-gioco non è facile, perché si è sempre costretti a confrontarsi con i mostri sacri del genere, con una profonda tradizione underground, con una lunga serie di cavilli tecnici e con esigenze di originalità ed efficacia che rischiano di remare contro questa stessa tradizione e questi stessi cavilli. In breve, si deve scegliere tra l’ennesima riproposizione di Lupo Solitario e un salto nel buio; è questo il bivio primordiale, il meta-bivio di tutti i giochi a bivi. I fratelli Genchi, dal canto loro, hanno deciso di lanciare una testata nucleare sul problema e ripartire da un’apocalisse tanto narrativa quanto strutturale.  A cominciare dal titolo, Analwizards proietta il giocatore in un contesto provocatorio e di rottura, a metà strada tra il grottesco, il weird e lo splatter. Questo anche grazie al contesto offerto dalla casa editrice marchigiana Hollow Press, una delle realtà più felici e di successo del nostro panorama editoriale indipendente. Non è un caso che questo stesso editore sia anche dietro a uno di quei libri che non solo si prefigurano come futuri classici ma che, al contempo, hanno contribuito alla nascita di un vero e proprio genere fumettistico-letterario: Vermis (due volumi), il lorebook ideato e realizzato dal misterioso illustratore conosciuto come Plastiboo. Per questo la decisione di produrre un libro-game venduto a un prezzo concorrenziale (che purtroppo ci priva di una copertina rigida), ma dall’alto profilo qualitativo (avete idea di quanto diavolo costi stampare tutte queste pagine a colori?) la dice lunga sulla mentalità dell’editore. Ancor più perché Analwizards si propone al lettore in modo sfacciato, riversandogli addosso ettolitri di assurdità, humour nero e nichilismo incendiario. Un coraggio che deriva da una forte cornice editoriale e da un altrettanto forte fanbase. Un ovvio plauso va al sistema di gioco, così chiaro e semplice da evidenziare ancor di più l’intento estetico dei due autori: chiunque può dare inizio a una run di Analwizards, a patto di riuscire a sopportarne il contenuto. Il formato è lo stesso delle vecchie riviste anni ’80, quelle che negli Stati Uniti (ma anche in Italia) pubblicavano moduli non ufficiali per GDR, dungeoncrawler, racconti e miniserie giocabili; una fucina di intuizioni e sperimentazioni alle quali Analwizards rende tributo solo per congedarsene con più convinzione. Ok, è vero, in Analzwizards ci sono pur sempre i bivi, ma non si tratta della classica soluzione logico-strutturale – ossia di una scelta dettata dalla fruibilità. Anzi. È evidente come i fratelli Genchi si siano calati appieno in una mentalità “dungeon”, più vicina a una sensibilità estetica o musicale, che a semplici questioni di design. Se dovessimo parlare di progettazione, infatti, si potrebbe addirittura dire che l’obiettivo del gioco sia quello di disorientare e scoraggiare il lettore, più che assecondarlo. La stessa struttura narrativa induce a pensare che non si riuscirà mai a percorrere tutti i percorsi contenuti nel libro – a meno di non dedicargli la medesima attenzione che si potrebbe riservare a un cosiddetto “videogioco hardcore”. Il modello, insomma, è quello della proliferazione e della dispersione; qualcosa di estremamente simile a quel che si può trovare in un libro ergodico quale Casa di Foglie, o in un album grindcore o harsh noise. L’esperimento è riuscito in maniera esaltante, complice l’impiego del fumetto anziché del semplice testo narrativo. Decisamente esaltante il disegno, che riesce a fondere e ibridare caratteristiche e palette che riportano alla mente la seconda generazione di serie animate Cartoon Network e Nickelodeon; i classici del fumetto beat, psichedelico e underground; Hieronymus Bosch; lo splatter; il manga e l’eroguro giapponese. Una combinazione all’insegna del bizzarro, che tanto più la si frequenta tanto più convince. Altrettanto straordinaria la caratterizzazione dei personaggi, tenuta sempre in bilico tra l’esilarante e l’estremamente perturbante; impossibile non ridere, non schifarsi, non restare vagamente allibiti – in breve, non farsi coinvolgere nelle dinamiche di questo folle universo. Analwizards è, a mio parere, destinato a diventare un punto di riferimento per chiunque, in Italia, l’estremo in tutte le sue forme e sia fermamente convinto che possa avere anche una funzione ludica e felicemente perversa. Lo stesso vale per il mondo dei libri-game, che con questa pubblicazione vede rompersi diverse barriere e aprirsi un bel po’ di sentieri. A Cesare quel che di Cesare; ai Genchi, si spera, fama internazionale. L'articolo David e William Genchi / Ludopatie black fantasy proviene da Pulp Magazine.
Kotteri! / Il lato scontroso dell’amore
“Il cielo era ricoperto di nuvole grigie, / l’intera città fredda e silenziosa, come una fotografia. / Due occhi che non conoscevano il mondo danzavano, / e i suoni tingevano un giovane d’arancione”. Lei, lui e il colore: nel breve capitolo di prologo di Veil c’è già tutto il necessario per lasciarsi trasportare all’interno della storia e del mondo di questo manga finalmente portato da J-Pop in Italia. Attraverso l’etichetta J-Pop la casa editrice milanese Edizioni BD fa conoscere al pubblico italiano Veil, una tra le opere recenti (è giunta in Giappone al sesto volume) più apprezzate  nel mondo dai lettori di Kotteri!, lo pseudonimo dietro il quale si cela l’esperta mangaka Ikumi Fukuda. Veil è un manga di stampo romantico che racconta dei momenti di vita dei due protagonisti, Emma e Alexander: lei ereditiera non vedente, fuggita dall’agiata vita di casa per conoscere il mondo; lui poliziotto dal cuore d’oro, subito pronto ad aiutarla a trovare un lavoro come centralinista presso la propria stazione di polizia. Questa la premessa da cui parte un’opera che si può definire, come genere, slice of life. Ogni capitolo ci accompagna attraverso dei momenti della frequentazione tra i due giovani, frequentazione che pur non assumendo i contorni “comuni” di una storia d’amore si può considerare sin da subito dolce e intima; anche solo sedersi l’uno accanto all’altra diventa subito un momento per avvicinarsi, parlarsi sottovoce, aiutarsi, scherzare o essere, più semplicemente, complici. Lo svolgersi degli eventi si trova dunque all’interno di una certa atemporalità che crea atmosfere da sogno; l’ambientazione è quella di una immaginaria città chiamata Sashenka, nella Repubblica di Sasha, dagli espliciti richiami russi, e l’estetica dell’uniforme di Alexander suggerisce che sia il pieno periodo sovietico. Ma non si parlerà mai di politica in senso stretto, o si vedrà lui intento a svolgere il suo lavoro di poliziotto: ciò che l’autrice vuole mostrarci è solo il rapporto tra questi due giovani. L’estetica è sicuramente il primo aspetto di questo manga che conquisterà il lettore, un’estetica che trova espressione nei disegni meravigliosi di Kotteri!, il cui amore per la moda e per le uniformi militari si rivela ancora una volta nella cura maniacale con cui tratteggia look, vestiti e accessori dei personaggi dell’opera. Il suo tratto, che ricorda molto quello del grande artista illustratore di moda Tony Viramontes, è insieme delicato e pieno di dettagli, in grado di tenere incollati alla pagina per ammirarlo. A ciò si accompagna un magistrale uso del colore che a lettori e lettrici richiamerà quello di Ai Yazawa, la famosa autrice del manga Nana. Kotteri!, se così ci passate il lirismo, dimostra ancora una volta a quale bellezza può giungere la mano umana quando disegna. Non si pensi, però, a un manga che vuole risultare soltanto epidermicamente piacevole per l’occhio: Veil è scritto in maniera sapiente per portare un punto di vista femminile dolce e passionale su di un rapporto indescrivibile nella sua serendipità, quale quello tra due persone che, conoscendosi per la prima volta, da subito sentono un legame, un’attrazione che però non è semplicemente fisica o sfuggevole; tutto nasce quando Alexander si preoccupa per Emma in quanto ragazza non vedente, e lei è lieta di aver incontrato un ragazzo tanto gentile e premuroso come lui, finto burbero dal tipico carattere – come si dice in gergo – tsundere, ovverosia apparentemente scontroso e aggressivo, ma che cela un lato più dolce e amorevole. La cecità di Emma, in particolare, è usata per rendere partecipe il lettore di alcuni dei momenti più intensi e intimi del rapporto dei protagonisti, e tutto ciò attraverso un altro importante senso, il tatto: le mani di Emma cercano sempre i vestiti, la faccia, i capelli di Alexander, che sia per tenersi a lui, che sia per prenderlo in giro, che sia semplicemente per sentire il calore dei suo corpo. Non ci sono baci, non ci sono labbra che si sfiorano, eppure momenti come questi risultano molto più potenti e coinvolgenti di tante opere che provano a comunicare l’amore in maniera più esplicita o crassa.  Chi sono, dunque, Alexander ed Emma? Sono già una coppia innamorata? Amici che vorrebbero essere di più? Conoscenti da subito legati attraverso un qualcosa che nemmeno loro riescono a spiegare? Forse tutto, forse niente. Spetterà al lettore, quando si immergerà nel meraviglioso mondo di Kotteri!, fare la propria decisione. L'articolo Kotteri! / Il lato scontroso dell’amore proviene da Pulp Magazine.
Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989
Dopo aver rivoluzionato l’universo superomistico con Watchmen (1987) e Batman: The Killing Joke (1988), l’ultima cosa che ci si poteva aspettare da Alan Moore era probabilmente un horror esistenziale come Un piccolo omicidio (1989), obliquamente calato nello memoria e nello spirito del suo tempo: i ruggenti anni ’80 e la fine della Guerra Fredda. Malgrado le numerose ristampe, si tratta infatti di un’opera relativamente poco conosciuta nel corpus dell’autore inglese, almeno rispetto a saghe come In Hell, La lega degli straordinari gentlemen, V per Vendetta.  A riprova dell’anomalia di quest’opera, c’è anche il fatto che l’idea della storia non è sua ma del disegnatore Oscar Zarate, illustratore e fumettista argentino emigrato nel Regno Unito e ritrovatosi in mezzo alla new wave britannica di Neil Gaiman, Grant Morrison, Mark Millar, Garth Ennis, Dave Gibbons e appunto, Alan Moore, ritagliandosi per lo più un ruolo relativamente umile con biopic a fumetti di Lenin, Freud, Thomas Girtin, ecc. Da notare che Oscar Zárate vanta anche trascorsi nel mondo della pubblicità come il protagonista di Un piccolo omicidio.  Qui Timothy, uno yuppi quarantenne, sul punto finalmente di svoltare, ha infatti appena ricevuto da una importante agenzia di New York l’incarico della sua vita per il lancio di un brand beverage tipo Pepsi Cola nella Russia di Gorbačëv che si sta timidamente aprendo alla cultura e al consumismo occidentali. Ma nel suo viaggio verso l’Europa, Timothy è perseguitato da un ragazzino, apparentemente inafferrabile, che sembra fare di tutto per ucciderlo mentre ripercorre a ritroso le città e i luoghi mentali che, anche simbolicamente, hanno segnato la sua esistenza, tra il thatcherismo rampante di Londra e il plumbeo laburismo di Sheffield, la sua small town.  Nella prima parte Moore fa un vero capolavoro nel rappresentare una comunità individualistica che si nega come società per riconoscersi nell’idea di mobilità e di frammentazione sociale, attraverso le conversazioni e i dialoghi captati a mezz’aria nel gossip delle feste, nelle chiacchiere dell’ufficio, in business class o in metropolitana. Ma è solo tornando a Sheffield, tra le case popolari dell’età Macmillan, che Timothy scoprirà la persistenza di una certa  cultura working class che ritrova in primo luogo nei gesti e nelle abitudini dei genitori assieme alle reliquie imbarazzanti e fin troppo ben conservate della sua gioventù: dalla prima, e da sempre vetusta, automobile, dal colore improponibile e con l’adesivo di Rock against the racism ancora incollato sul parabrezza – che il padre con la coppola alla Andy Capp non usa, restando fedele alla bicicletta – alla ex moglie dei vent’anni, ora appesantita dal secondo matrimonio, a differenza del nostro yuppie che non si è mai sentito pronto per gli impegni genitoriali. Proprio tra le rovine operaie di Sheffield Timothy affronterà  i falsi ricordi della sua infanzia e nel contempo la resa dei conti finale  con la sua nemesi bambina, sempre più pestifera e risentita, approdando alla fine, inaspettatamente, anche alla sospirata idea per la campagna pubblicitaria,  destinata a troneggiare trionfalmente sulla Piazza Rossa. Oscar Zarate, che cita Hugo Pratt e Milton Caniff tra i suoi ispiratori giovanili, sembra qui aver metabolizzato anche la lezione cromatica della scuola italiana del tempo e in particolare del gruppo Valvoline. Un Moore forse mai così libero e sperimentale si intesta l’altro 50% di questo graphic novel – tra le altre cose, vincitore dell’Eisner Award (1994), oggi meritoriamente riedito da Mondadori con un’intervista agli autori di Jaime Rodriguez come postfazione. “Penso che Un piccolo omicidio sia uno dei fumetti migliori che abbia mai scritto, di certo uno dei più belli a vedersi”. Riletto oggi ci sta tutto.     L'articolo Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989 proviene da Pulp Magazine.
Jioke / L’abisso che è in noi
Dopo l’esordio con l’antologia di Pazzia, i thriller psicologici La casa dei pulcini e Voglio il tuo cuore,  arriva ora in fumetteria la nuova raccolta di racconti dell’orrore di Giovanni Dell’Oro,  in arte JiokE. Presentata in anteprima al Comicon di Napoli, è disponibile anche in una speciale versione variant,  in esclusiva solo nei Funside.    Il volume Abisso raccoglie dodici pillole di puro terrore che trascinano il lettore in un vortice dal quale è impossibile fuggire, e in cui JiokE scandaglia l’animo umano portando all’estremo il male che alberga in ciascuno di noi, con plot twist incisivi che shoccano e sconvolgono, lasciando un profondo malessere interiore al lettore. Qui si scardinano tabù, si abbattono i muri del banale e le barriere delle paure più profonde, queste sono storie che mettono a disagio, che disturbano, che scuotono e rompono le regole narrative classiche dei manga di genere. Qui non si risparmia nessuno, non si fanno prigionieri. Il politically correct non è di casa e di sicuro ne è sconsigliata la lettura agli stomaci deboli.  La narrazione sfrutta l’espediente di una normale situazione di quotidianità, all’apparenza innocua per poi stritolare l’evolversi della trama e chiudere il lettore all’angolo con angoscia e sgomento. Vi assicuriamo che mai vorreste trovarvi anche in una sola delle situazioni qui raccontate. Le tavole in bianco e nero sono poche per ogni racconto ma colonna portante della narrazione, che grazie ad esse è resa più vivida per il caratteristico tratto a matita che appare sfumato in alcuni punti e maggiormente calcato in altri, ricreando così un’atmosfera di pura tensione, spietata e personaggi più delineati e inquietanti. La struttura verticale sottolinea la rapida ascesa verso il culmine del dark side che ognuno di noi reprime in fondo al cuore, una corsa contro il tempo per fuggire dall’incubo.  JiokE sceglie con Abisso di tornare alle sue origini artistiche: anche il suo esordio Pazzia  nasce infatti come raccolta di strisce arricchite e pubblicate online in prima battuta).  Dopo un cambio di rotta con i successivi due romanzi, torna a riutilizzare la forma dell’antologia che gli aveva portato tanta fortuna e seguito da renderlo un successo virale. I temi trattati e il filo conduttore del volume sono senz’altro il disagio psicologico, alcune patologie psichiatriche e la distruzione dell’infanzia, che ben ricordano – seppur estremizzati – alcuni fatti di cronaca. Ed ecco il merito dell’autore nel costruire un percorso devastante che insinui il dubbio terrificante nel lettore: a volte la realtà supera la fantasia ma se fossero questi incubi a dare spunto alla realtà? Se la mente corre a Junji Ito come firma di riferimento del genere horror, non si può evitare di porre l’accento sulle evidenti differenze. Mentre il giapponese subisce l’influenza dei classici Lovecraft e Poe, raccontando un orrore impalpabile, inspiegabile, con un elemento sovrannaturale e un tratto morbido e pulito, JiokE parla un linguaggio più materiale, fisico, e cinico attraverso un disegno spigoloso e ruvido, caratterizzato dal naso a triangolo tipico dei sui profili.  Nessuna storia di Ito raggiunge l’orrore dei racconti di JiokE per cui se siete amanti del genere non potete assolutamente perdervi le sue tavole, in particolare Ripetizione, basato su una storia realmente accaduta in Inghilterra. Una piccola curiosità riguardo alla scelta del nome d’arte: inizialmente era Jio, con un suono nipponico e di facile associazione (Giovanni – Giò – Jio) ma sui social apparteneva già ad un servizio telefonico indiano.  Per i primi tempi dunque Giovanni fu sommerso di messaggi provenienti dall’India con l’invio di CV in allegato. A quel punto era doverosa una modifica e corse ai ripari arrivando quindi alla conclusione che utilizzando JiokE non avrebbe avuto problemi. Così non fu perché i messaggi continuavano ad arrivare. La soluzione? Bannare l’India, quindi se al momento vi trovate lì e cercate Giovanni / JiokE, beh, non lo troverete affatto. In compenso  potete  approfondire il suo lavoro con un’intervista all’autore disponibile tra i LIVE del  canale Pulp Magazine su YouTube e  Spotify. L'articolo Jioke / L’abisso che è in noi proviene da Pulp Magazine.
Usamaru Furuya / Della morte, dell’amore
«Perché pensare alla morte dovrebbe considerarsi alla stregua di una malattia mentale? Siamo venuti al mondo senza poter scegliere la vita… Che male c’è, allora, a scegliere liberamente la morte come “salvezza”? […] In rappresentanza di tutti gli adolescenti, noi… Faremo del nostro meglio per morire!» È con queste parole, e la conseguente dichiarazione dei protagonisti – i giovani studenti Noel Kusonoki e Tôyama Eishin – che si apre Shinjü. Una storia d’amore,  nuova opera di Usamaru Furuya, apparsa per i tipi di Coconino Press. Furuya è un autore che si sposa perfettamente con il catalogo della maggiore casa editrice italiana di fumetto d’autore mondiale, e torna a dimostrarlo in questo nuovo manga provocatorio, dall’argomento indubbiamente controverso e forte, eppure capace di far attraversare al lettore, così come ai suoi protagonisti, momenti d’improvvisa tenerezza e persino di speranza.  La trama, di per sé, ci offre una vicenda adolescenziale dalle tinte melodrammatiche: Noel e Eishin sono due studenti di diciassette anni con situazioni familiari disastrate: la madre di Noel, di origine straniera, viene molestata e violentata regolarmente dal patrigno, al punto da sviluppare una totale apatia nei riguardi della vita; Eishin sogna invece, dietro parole di disprezzo per la categoria, di diventare uno scrittore, e spia attraverso un buco nel muro la propria madre costretta a prostituirsi per guadagnarsi da vivere,  dopo la scomparsa del padre del ragazzo. Entrambi i protagonisti di questo manga vivono dunque in partenza un rapporto complicato e malsano con il sesso – mostruoso, repellente e magnetico al tempo stesso – che permea le loro vite. Dal loro incontro, dopo che Noel si emoziona a leggere un racconto di Eishin, i due iniziano a sviluppare una relazione sessuale prima morbosa e tossica, fatta di sfoghi e crescente perversione, che lentamente, però, incomincerà ad assumere sempre di più le forme di una relazione “normale”, e porterà entrambi a vedere diversamente il proprio rapporto non solo con l’erotismo, ma anche con i propri sentimenti nei confronti del mondo e degli altri. Usamaru Furuya Di certo il tema è molto forte e non per tutti, e il tratto di Furuya, esperto nel disegno erotico, sottolinea con preciso realismo ogni attimo di sessualità che permea l’opera, da quelli più  “scabrosi” a quelli improntati a una maggiore tenerezza. L’erotismo, soprattutto adolescenziale, è un argomento comune nella sua produzione artistica, caratterizzata da uno sguardo disincantato e non giudicante su rapporti sentimentali intensi tra adolescenti,  con coetanei o con persone più adulte, che attraversa generi come il racconto romantico, la fiaba, o addirittura l’horror, con semplicità e grazia. Altro motivo dell’opera è quello del suicidio. Nel graphic novel ci troviamo di fronte a due diciassettenni cinici e stanchi, resi tali da un mondo che, dalla loro prospettiva, sembra divertirsi a volerli morti. Noel, per fuggire dalla propria realtà, si rifugia in scrittori come Osamu Dazai, Ryūnosuke Akutagawa, Yukio Mishima, Yasunari Kawabata, di cui vuole leggere le “opere più sconvolgenti”. Scrittori fondativi della letteratura giapponese, caratterizzati tutti e quattro, non casualmente, dall’essersi tolti volontariamente la vita. “Mi sento a mio agio solo quando sono circondato da cose non necessarie. Mi ricordano che vivere non ha alcun significato”, dice Eishin a Noel, la quale vede nella profonda disillusione  del ragazzo nei confronti della vita l’anima gemella che tanto stava cercando, con la quale potersi togliere la vita in un “romantico” doppio sudicio.  Nonostante le premesse, i due protagonisti non resteranno perennemente bloccati  nel loro assoluto nichilismo. Nel corso della storia, attraverso il rapporto di amore che svilupperanno, ma anche la capacità di saper guardare oltre la  convinzione che la vita non riservi niente di bello – e che, anzi, si nasca per soffrire in un mondo che non potrà mai capirti –  Noel ed Eishin saranno in grado finalmente di aprirsi: non solo l’uno con l’altra, ma anche con se stessi, trovando una nuova risposta al senso della propria esistenza. Usumaru Furuya e Coconino Press consegnano ai lettori una storia di non facile lettura per l’intensità e la crudezza dei temi rappresentati, ma non per questo crudele. Più di tanti altri manga, anzi,  questa storia ci consegna dei protagonisti adolescenti portati a maturare stupendamente, nel corso delle loro vicende. E con i quali si potrà scoprire insieme che l’amore è «camminare insieme su un sentiero fangoso e oscuro, dove non si scorge nulla all’orizzonte». L'articolo Usamaru Furuya / Della morte, dell’amore proviene da Pulp Magazine.
Wally Pain / 30 anni e sentirne tutto il peso
Ci azzardiamo ad affermare che il traguardo dei 30 anni è di notevole rilevanza affettiva quasi per chiunque, e quando arriva si organizzano grandi feste, viaggi, insomma si ricrea una situazione perché resti indelebile nella memoria. Bene, 30 anni non parla di questo. Sì, c’è il titolo che fa riferimento all’età ma qui l’autrice Luana Francesca Belsito in arte Wally Pain (Cosenza, classe 1992) racconta ben altro. Sotto la superficie di un numero c’è un mondo che viene riletto e criticato con pungente eleganza. Tre percorsi tutti al femminile che corrono alternandosi su binari temporali differenti per poi intersecarsi a un capolinea chiamato oggi. Negli anni ’60 incontriamo Giuditta, madre casalinga di due bambini, una passione per la lirica e il sogno nel cassetto di calcare i palchi dell’opera. Saltiamo sul binario degli anni ’90 per conoscere Anna che si destreggia tra il successo professionale e la scoperta di un figlio desiderato in arrivo. Torniamo al presente con Ginevra, anche lei trentenne,  la sua vita sentimentale ha subìto un brusco stop e quella professionale è ancora in fase allestimento.  Tre storie, tre vite che denunciano una società insensibile nei confronti delle donne costrette a subire pressioni sul lavoro e in famiglia, a fare scelte tanto difficili quanto coraggiose, a rinunciare ai propri sogni e desideri per prendersi cura degli altri e ancora lasciare un posto sicuro per lanciarsi a capofitto in un’avventura senza rete. L’orgoglio e la determinazione di Anna, Giuditta e Ginevra sono il fulcro del graphic novel che le vede protagoniste silenziose del mondo di ieri e oggi, ma va anche sottolineata l’incredibile forza che contraddistingue le donne in questa lettura toccante e attualissima.  Wally Pain racconta se stessa sul suo account Instagram, attraverso le sue tavole in gouache, acquerello e pennarelli. Ha un seguito di oltre 17000 followers e un canale seguitissimo in cui condivide lavori inediti. Dopo l’esordio di Corpi, sempre pubblicato da Feltrinelli nel 2023,  con cui si distingue  per la schiettezza quasi brutale, Wally torna in libreria per evidenziare quanta strada ancora ci sia da fare nella lotta per il riconoscimento dei diritti delle donne e per la parità di genere. Nonostante gli anni passino la donna fatica a ottenere soddisfazioni personali e professionali, comprensione e sostegno, a essere “vista” dalla società. Una nuova vita può essere un ostacolo alla carriera per Giuditta e motivo di rottura in famiglia, Anna invece non riesce a dialogare con la madre e i colleghi maschi la sfruttano accumulando pratiche sulla sua scrivania. Giuditta vive un fallimento nel fare marcia indietro tornando a vivere dai suoi dopo una delusione amorosa.  Con dialoghi precisi e puntuali, privi di fronzoli, l’autrice arriva al cuore della questione con  un tratto netto, sensibile e riconoscibile. L’epilogo potrebbe essere una pillola troppo amara da ingoiare perché  la verità fa male e spesso preferiamo non vederla. Ecco perché la lettura di questo graphic novel,  che tratta questioni sociali fondamentali, è consigliata a tutte le età e per tutte le generazioni.  Luana Francesca Belsito è  un’appassionata di filosofia, in particolare di Emil Cioran e di Kierkegaard, un’amante dell’opera lirica e una cinefila. A dissipare ogni dubbio – se mai ce ne fossero – sulla maturità e la profondità poliedrica di questa giovane illustratrice e fumettista, ci pensa lei stessa spiegando che la scelta del nome d’arte deriva da un connubio fra classico e moderno. “Wally” è infatti un omaggio all’opera del compositore Alfredo Catalani mentre Pain è un personaggio tratto dai manga di Naruto. L'articolo Wally Pain / 30 anni e sentirne tutto il peso proviene da Pulp Magazine.
Sadagari / Sporcarsi le mani con il mondo
Diritto al malessere è l’opera d’esordio di Sasha De Maria, in arte Sadagari, grafico, illustratore e attivista. Si tratta di un lavoro molto denso, a metà strada tra la graphic novel e il saggio autobiografico, contraddistinto da un uso ossessivo, quasi barocco, dell’estetica ASCII e 8 bit. Le ampie tavole che danno forma al libro, spesso riempite all’inverosimile, si susseguono tra loro in una sorta di clonazione soft dell’estetica noise, accompagnate da slogan, ricordi personali e riflessioni critiche. Ne risulta un testo in bianco e nero piuttosto voluminoso, dai toni tanto cupi quanto disperati, che rompe con la tradizione del testo illustrato per seguire un’originale ibridazione tra grafica e quella che è stata denominata “theory” (una versione minoritaria e ribelle della teoria critica accademica, sviluppatasi sulle riviste, prima cartacee poi online, tra la fine degli anni Novanta e i primi vent’anni del Duemila).   Come si può evincere dal titolo, il filo conduttore del libro è il diritto a esperire fino in fondo il proprio malessere psicofisico, a divenirne autocoscienti e a manifestarlo apertamente. Diritto negato dal sistema capitalista poiché non compatibile con l’attuale paradigma produttivo, fondato sulla competizione e sul miglioramento di sé. Questo il tema portante dell’opera, che prende le mosse dalla neurodivergenza per approdare alla sofferenza psichica in generale, in quanto prodotto dello sfruttamento sistemico. In breve, si tratta di una sorta di ricontestualizzazione delle considerazioni intimiste e delle bordate teoriche canonizzate da Mark Fisher – non a caso padre putativo della theory. Fin qui, Diritto al malessere rappresenta indubbiamente una novità dal punto di vista formale: una modalità espressiva che, per l’appunto, pesca a piene mani dall’attività di grafico del suo autore – anziché dal fumetto classico o dai libri illustrati; ma anche un dispositivo narratologico che prende spunto dal web. Si potrebbe dire che l’idea stessa di concepire il medium-libro alla stregua di una riproduzione tattile di un sito, incarni i limiti una generazione che non conosce altro che internet, che non abita altro che il nomadismo digitale e l’impermanenza, ma che desidera anche fissare in qualche modo questa stessa esistenza rizomatica ed effimera. Serve tempo per consumare e metabolizzare l’opera di Sadagari – e non poco. Questo tipo di testo, ancor più del romanzo o del saggio classici, sembra richiedere una particolare dose di attenzione, non essendo fondato su un solo meccanismo ma su una sovrapposizione di strategie narrative, toni e registri anche molto diversi tra loro. Dal punto di vista contenutistico, per quanto appassionata e radicale, l’opera dà mostra di tutti i limiti che (in modo piuttosto stereotipato) si possono attribuire alla giovane età dell’autore. Mi riservo questa considerazione dal retrogusto ageista in virtù del tempo trascorso assieme al mio, di malessere. La radicalità del testo, infatti, non ha mancato di riportarmi alla mente il mio stesso desiderio di “universalizzazione” (nel mio caso si è trattato addirittura di una “assolutizzazione”) della sofferenza. Negare ogni possibilità di sintesi dialettica tra sé stessi e il mondo è una strategia fallimentare nel momento stesso in cui rifiuta di confrontarsi non solo con il reale ma con quella stessa istanza che, all’altro capo della barricata, non manca mai di riconoscere il proprio autoproclamato nemico. Se, da un lato, infatti, non vi è istante in cui non siamo consapevoli di essere malati, dall’altro, siamo anche profondamente ripugnati dal dover trafficare con ciò che ci circonda. Un’etica e, forse, un’estetica della purezza che offre più problemi che soluzioni. Lo stesso autore, d’altro canto, attraverso la sua professione e la sua produzione artistica, è testimone della possibilità di una sintesi concreta tra autenticità, lotta e sofferenza. Non intendo scendere troppo nei particolari, ma mi pare che il libro – come molti altri testi recenti – vada incontro a una banalizzazione e, peggio ancora, a una riduzione a slogan dei temi trattati. La costruzione di un codice che non è più a misura di individuo ma che, al contrario, assoggetta gli individui a concetti e parole d’ordine. L’effetto è che molte delle idee espresse nel libro appaiono confuse e, a volte, contraddittorie, là dove la lucidità di visione è l’elemento più rilevante anche all’interno di una filosofia o critica del malessere.  Un esempio pratico. Ciò è particolarmente vero nel caso dei disturbi psichiatrici che confinano con la sfera antisociale e che, negli ultimi anni, sono divenuti oggetto di una vera e propria persecuzione da parte delle attiviste e degli attivisti digitali. Sto parlando, ovviamente, del disturbo borderline, del disturbo antisociale e del disturbo narcisistico. Come si configura questo asse “perverso” del malessere, rispetto alla proposta di Sadagari? Il diritto al malessere consentirebbe di rimuovere lo stigma sui disturbi del gruppo B, promuovendone l’espressione e la presa in carico collettiva. D’altra parte, tuttavia, senza un adeguato processo terapeutico (D.B.T. e Schema Therapy) non è neppure remotamente possibile approdare a un superamento del conflitto autodistruttivo al quale tali disturbi danno luogo.  Detto questo, trovo perfettamente comprensibile che le nuove generazioni siano in cerca di una via di fuga – tanto concreta quanto immaginaria – o di forme di vita sottrattive (come nel caso degli hikikomori), anziché di nuove strategie di conflitto. Si tratta, in fondo, di un lascito inscritto nel fallimento dell’attivismo stesso dinanzi ai nuovi media digitali, nonché all’egemonia del mediattivismo promosso da agenti economici quali case editrici e influencer. Da questo punto di vista, Diritto al malessere incarna, forse, il primo vagito di un nuovo modo di pensare e rappresentare il pensiero su carta, nonché il primo passo verso un percorso artistico e personale che ci si augura possa guadagnare in organicità e affilatezza senza perdere in radicalità. 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Robert Crumb / L’ inedito, le cover e altre storie
Siamo al cospetto di Robert Crumb, uno dei pochi autori viventi ad aver realmente segnato la cultura contemporanea attraverso una forma complessa di narrazione, che parte dalla forma-fumetto per espandersi oltre il tempo e lo spazio della tavola disegnata. L’occasione non poteva essere delle migliori: per la prima volta arriva in Italia Gnam Gnam, originariamente realizzato tra il 1962 e il 1963 da un Crumb diciannovenne e irragionevolmente rimasto inedito per i lettori italiani. A colmare la lacuna ci ha pensato Rizzoli Lizard, con un lavoro affascinato e meticoloso di Pasquale La Forgia, che lo ha curato, tradotto e riletterato a mano, per un’edizione che a tutti gli effetti possiamo considerare definitiva. A ciò va aggiunto che la copertina, approvata dallo stesso Crumb, è un mix di due tavole dell’autore statunitense, che Roberto La Forgia ha elaborato in maniera decisamente memorabile. Gnam Gnam è il primo libro scritto, disegnato e colorato dal creatore di Mr. Natural, un atto d’amore per la ragazza che poco dopo sarebbe diventata la sua prima moglie, Dana Morgan, ma soprattutto un’allegoria metropolitana in cui sono già presenti alcuni dei temi (e stilemi) che diverranno cari all’artista. Incrociando storie classiche (Jack e la pianta di fagioli e Il principe ranocchio) a un approccio già critico verso la società americana del tempo, Crumb struttura un’avventura a metà strada fra l’autoanalisi e la fiaba, l’ossessività umana e l’ironia più leggiadra, divertendo e appassionando anche grazie a un tratto sì acerbo, ma non per questo poco incisivo. Il volume, cartonato con sovraccoperta, piacevole perfino al tatto, è arricchito da una bella postfazione del curatore nonché da due introduzioni dello stesso Crumb, rispettivamente datate 1975 e 2005. Nella seconda, scrive: «[…] devo dire che a diciannove anni ero già un virtuoso del fumetto, ero in grado di costruire una storia con un preciso registro, di disegnarla e colorarla in maniera coerente». E in effetti, le cose stanno esattamente così. Prosegue anche la “Collezione Crumb” – la collana con cui Comicon Edizioni intende riproporre tutta la produzione del disegnatore di Filadelfia – arrivata al settimo volume e questa volta incentrata sugli anni a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Alla disillusione della rivoluzione giovanile, con il crollo della controcultura e del movimento hippy, Crumb oppone un sarcasmo pungente e sempre più marcato, in cui genio e critica sociale continuano a fondersi con il racconto in prima persona e privo di qualunque filtro. Ma è davvero arte il volume (Collezione Crumb 7,  19 x 26 cm, brossura, pp. 272, euro 24,00, Comicon) che raccoglie dozzine di storie provenienti da riviste e comic book leggendari come “Weirdo”, “Hup”, “Mystic Funnies” e “Zap”. Si parte con Mode O’Day, prototipo di donna della società reaganiana, perennemente combattuta fra cinismo snob e superficialità consumistica, per passare a storie visionarie e allucinate, ridicole e agghiaccianti, lucidissime o assolutamente fuori di testa. Attraverso un vortice destabilizzante di trovate ingegnose e potere affabulatorio, Crumb racconta l’America della più bieca restaurazione neoconservatrice, dalla quale si mostrerà sempre più distante e nauseato, eppure mai meramente sopraffatto. Rileggere oggi alcune storie come quelle di fine anni ’80, con protagonisti Donald Trump o i Ruff-Tuff Cream-puffs, desta un profondo turbamento, soprattutto per la lungimiranza con cui Crumb aveva compreso (o addirittura previsto) come una nuova ondata di violenza verbale e fisica si stava già impossessando del confronto mediatico e – dunque – sociale statunitense. Sempre Comicon porta inoltre in Italia Robert Crumb: Tutte le copertine (22 x 29 cm, cartonato, pp. 322, euro 59,00) un volume cartonato di grande formato prodotto in Francia da Editions Cornèlius. Oltre 200 cover realizzate tra il 1960 e il 2008 vi sono incluse, praticamente ogni copertina di fumetti a cui Crumb abbia preso parte, sia come autore che come semplice collaboratore. Il librone è frutto di circa quindici anni di ricerche in tutto il mondo, una vera manna per ogni appassionato della nona arte, per un lavoro che ha previsto anche il restauro e la colorazione delle opere, qui riprodotte in una qualità davvero fedele ai disegni originali. Sfogliare questo libro, infatti, significa non solo poter ammirare lo straordinario talento di un artista fuori dall’ordinario, ma anche comprendere come le copertine siano per Crumb una tipologia d’opera a sé stante, frutto di un’idea di layout del tutto autonoma dai fumetti stessi. Ogni cover è infatti una combinazione di illustrazione, lettering, composizione grafica e disposizione spaziale, perfino prezzo e nome dell’editore rientrano nel concept creativo alla base del progetto. Impossibile selezionare le copertine più significative, in un corpus che parte dagli esordi adolescenziali al fianco del fratello Charles per poi compiere un viaggio attraverso le decadi e i personaggi che sono diventati icone di storia. L’edizione italiana include un opuscolo con le traduzioni sia dell’introduzione che della lunga intervista realizzata a Crumb fra il 1991 e il 2021, a cui si aggiunge un dettagliatissimo indice dei titoli. L'articolo Robert Crumb / L’ inedito, le cover e altre storie proviene da Pulp Magazine.