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Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima
”Riposate in pace perché noi non ripeteremo il male” (Asurakani nemutte kudasai. Ayamachi wa kurikaeshimasenkara). Questa frase è incisa sul Memoriale della Bomba di Hiroshima, luogo di ritrovo ogni anno per migliaia di giapponesi per non dimenticare. È significativo ricordare che il sito è patrimonio dell’UNESCO solo dal 1996 per una decisione presa con opposizione degli USA e l’astensione della Cina. Al suo interno è racchiuso un registro con i nomi di tutte le vittime dell’esplosione atomica. Quest’anno cade un triste anniversario, sono infatti trascorsi ottant’anni dallo sgancio delle due bombe atomiche ma facciamo un ripasso di storia.  Sono le 8.15 del 6 agosto 1945 e gli Stati Uniti sganciano la prima bomba atomica su Hiroshima, la seconda esplosione avverrà solo qualche giorno dopo, il 9 agosto e la città prescelta stavolta sarà Nagasaki. La seconda guerra mondiale è agli sgoccioli e il Giappone è al collasso. Le conseguenze sono devastanti: esseri che un tempo erano persone camminano come ombre mentre la loro pelle si scioglie letteralmente a causa del fallout radioattivo e una sete folle li coglie. Con una potenza di sedici chilotoni Little Boy, il primo ordigno nucleare, spazza via in pochi minuti oltre ottantamila giapponesi lasciando sconvolta nel profondo l’intera nazione.  Tra i pochi sopravvissuti c’è Keiji Nakazawa che all’epoca ha sei anni e che nell’esplosione perde parte della famiglia. Da questa terribile esperienza nasce la sua opera principale Gen di Hiroshima (Hadashi no Gen letteralmente Gen a piedi nudi). Il protagonista è un bambino di sei anni nato e cresciuto a Hiroshima che nell’esplosione perde gran parte della famiglia. Decisamente autobiografico non trovate? Ma la sua rabbia per quanto successo e per le conseguenze della bomba – le radiazioni colpiranno intere generazioni negli anni a seguire provocando malformazioni, tumori e leucemie – è presente e caratterizza tutti i suoi manga, incluso Colpiti da una pioggia nera.  Gli A-bomb manga, così vengono definiti, raggiungono il loro apice quantitativo negli anni che vanno dal 1954 al 1973, anche in relazione ad un incidente del marzo del ’54 in cui una nave da pesca giapponese fu contaminata dalle ricadute radioattive di un test nucleare statunitense sull’atollo Bikini (un episodio espressamente richiamato anche nel primo Godzilla di Ishirō Honda, dello stesso anno).  La bomba atomica viene esplicitamente rappresentata e raccontata nei fumetti come una sovrastante minaccia per la specie umana:  oltre settanta opere pubblicate in questo arco di tempo definiscono l’età dell’oro degli A-bomb.  La figura dell’hibakusha – come vengono chiamati i sopravvissuti alla duplice esplosione nucleare – diventa lo spunto narrativo anche di questa antologia di Nakazawa. Al centro di tutti i racconti, come “non persone” sono disprezzati dagli altri giapponesi e spinti ai margini della società senza un sostegno economico per le malformazioni con cui sono costretti a vivere. Rifiutati perché persino i loro figli generano bambini malati, gli hibakusha sono sfruttati e maltrattati anche dagli americani,  arrivati dopo l’esplosione per studiare in loco gli effetti delle radiazioni sui loro corpi, e dimenticati dall’imperatore a cui hanno dato tutto.  In queste storie, ambientate alla fine degli anni Sessanta, Nakazawa sottolinea però oltre all’indicibile sofferenza provata, anche la forza di un popolo che, nonostante tutto, ha voglia di vivere e andare avanti. Se è palese l’odio nei confronti di coloro che hanno organizzato questa crudele ecatombe, gli americani, l’autore evidenzia anche l’insensatezza di una guerra che ha portato solo povertà ad un popolo ora in ginocchio. Una guerra che ha cambiato per sempre il volto e il modo di pensare del Giappone, mischiando due culture opposte, quella occidentale e quella orientale, portando quest’ultima sulla rotta del capitalismo.  “Noi che avevamo assistito e avevamo subito il bombardamento  sulla nostra pelle non trovavamo le parole. Ascoltandoci a vicenda, scoprimmo che ciascuna delle nostre esperienze personali non era che un frammento minuscolo di un affresco dell’enorme catastrofe. Se il racconto orale fosse rimasto l’unica comunicazione, nel tempo quei fatti reali sarebbero stati persi o distorti. Per le generazioni future, volevo un resoconto fatto di parole scritte dagli hibakusha.” Un’interessante postfazione completa il volume approfondendo l’argomento della bomba e arricchendolo con notizie e nozioni storiche, come ad esempio il discorso sopra citato del sindaco di Hiroshima Hamai Shinzò (in carica dal 1947 al 1955 e poi dal 1959 fino al 1967) che si fa promotore di un archivio di shuki,  ovvero di appunti e di memorie e di kiroku,  le cronache dei sopravvissuti della sua città. Paolo La Marca ci racconta invece un po’ nel dettaglio la storia della letteratura giapponese sull’atomica. Keiji Nakazawa è un sopravvissuto. La bomba cade a 1,2 km da dove si trova e si salva per miracolo ma il prezzo da pagare per lui è molto alto. Perde il padre, il fratello minore e la sorella maggiore. Nel 1955 lavora presso la bottega di un artigiano di insegne e disegna fumetti da autodidatta, ma è nel 1961 quando si trasferisce a Tokyo, dove lavora come assistente di un mangaka, che la sua vita professionale vive una svolta. Colpiti da una pioggia nera vede la luce nel 1968 suscitando reazioni fortissime mentre nel 1973 comincia la serializzazione di Gen di Hiroshima sulla rivista settimanale “Shukan Shonen Jump” che riscuote enorme successo sia tra i ragazzi che tra gli adulti, diventando un best e un long seller tradotto in tutto il mondo oltre a ispirare un film animato e una serie televisiva live action. Nakazawa ci ha lasciato nel dicembre del 2012. L'articolo Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima proviene da Pulp Magazine.
Massimo Carnevale / L’incubo di un tempo di mezzo
In una metropoli futura dove la pioggia martella costantemente l’asfalto dei palazzi che chiudono il cielo in una presa asfissiante, il senzatetto Thomas Frears viene investito da due criminali in fuga. Un’ambulanza lo raccoglie in tempo ma ciò non significa per lui buone notizie. Non è il pronto soccorso la sua destinazione, ma un laboratorio in cui il suo corpo sarà impiegato per ospitare il dottor Saroyan, uno degli scienziati più brillanti al mondo, attualmente in fin di vita. Peccato che il dottore, per rimandare la sua morte fino a quel momento, si iniettasse un composto a base di DNA di topo. Ciò fa sì che il corpo di Frears, che contiene la sua coscienza insieme a quella di Saroyan, si trasformi in un ibrido umano-animale che si lancia in una fuga disperata inseguito da vigilantes e polizia. I due dovranno sopravvivere nonostante tutto in un mondo dove per loro sembra non esserci posto. Massimo Carnevale e Lorenzo Bartoli sono due nomi illustri del fumetto italiano. Il primo, dopo una carriera su riviste storiche come Skorpio, Lanciostory e Martin Hel, si è fatto un nome oltre oceano lavorando per marchi come Vertigo e Darkhorse disegnando per Y: L’ultimo uomo, Northlanders e tanto altro. Il compianto Lorenzo Bartoli, dal canto suo, ha creato serie di successo come Arthur King, Detective Dante e John Doe. L’arte di Massimo Carnevale vol.1 – Uomini e Topi, è un corposo volume che raccoglie, insieme alla serie che gli dà il titolo, la miniserie Il dono di Eric, la storia di un homeless (e qui cominciamo a vedere una certa ricorsività) con un dono che lui chiama shining, una forma di psicometria che gli permette di vedere il passato e talvolta il futuro delle persone collegate agli oggetti che tocca. Chiudono il volume un gruppo di racconti autoconclusivi. Le due miniserie presentano una forte unità in termini sia tematici sia stilistici. Entrambe hanno come protagonisti persone emarginate, in qualche modo rifiutate dalla società che viene rappresentata con una critica tagliente, frontale e senza sconti. La città futuribile di Uomini e Topi è il classico incubo cyberpunk costantemente annegato dalla pioggia e dal cemento in cui gli interessi dei più forti vengono perseguiti con ogni mezzo a disposizione e il solo fatto di manifestare un minimo di umanità è un atto di ribellione. La scrittura di Bartoli è struggente senza esser mai melodrammatica, restituisce al lettore tutto il dolore della vita senza perdersi in esagerazioni teatrali di cui non ce n’è bisogno perché basta mescolare un po’ di lucidità all’immaginario per rendere perfettamente tutta la crudeltà di cui la vita è capace. Anche l’amore, la cura e l’umanità come forma di resistenza vengono raccontate senza nulla di smielato, solo come il rifiuto che tutto possa essere semplicemente freddo e senza pietà, come unica plausibile via se non di salvezza quanto meno di sopravvivenza insieme. Visivamente il volume è impressionante e non si fa fatica a capire perché Massimo Carnevale ora lavori negli USA. Le sue tavole prendono le mosse da grandi maestri e ne mettono a frutto le lezioni. Ricordano il tratto graffiato di Bill Sienkiewicz, la tridimensionalità materica di Dave McKean e l’uso della luce violento e realistico di John J. Muth. Il risultato è il contraltare visuale dei testi di Bartoli, un mondo narrativo cupo in cui la vita prova a trovare la sua strada e lo fa con un vigore violento, fatto di strappi rappresentati dai tagli netti di luce che rischiarano di colpo gli ambienti bui dipinti da Carnevale che utilizza il colore in maniera complementare alla sceneggiatura, in ottemperanza a una concezione di fumetto come arte sinergica e totale in cui diverse discipline concorrono alla realizzazione di una fusione che è maggiore della semplice somma delle parti. Uomini e Topi è il fumetto di un tempo di mezzo, che aveva già cassato le speranze in una società futura giusta ma ancora aveva gli strumenti per esprimere quella rabbia nichilista tutta cyberpunk che piano piano, nel presente, sembra scemare ogni giorno che passa. L'articolo Massimo Carnevale / L’incubo di un tempo di mezzo proviene da Pulp Magazine.
Alejandro Jodorowsky, Moebius / Cronache picaresche del prossimo messia
Smontare la razionalità occidentale pezzo per pezzo, costruendo un culto visivo dove religione, desiderio e delirio si fondono senza pudore: con una coppia come Jodorowsky e Moebius non ci si può aspettare nulla di meno e la riedizione di La pazza del Sacro Cuore segna un’esplosione della nona arte che sfida ogni ortodossia, narrativa e morale. Edizioni BD raccoglie in un volume unico i tre capitoli che compongono questa avventura onirica e fuor di sesto, senza dubbio una delle opere più sorprendenti del sodalizio tra i due artisti, già consacrato con la celebrata collaborazione su L’Incal, Gli occhi del gatto e Artigli d’angelo. Inizialmente pubblicato in Francia tra il 1992 e il 1998, questo fumetto segna un allontanamento dai generi per cui erano già celebri – in primis la fantascienza – per avventurarsi in una commedia grottesca e surreale ambientata nella contemporaneità. La vicenda ha per protagonista Alain Mangel, eminente professore di filosofia razionalista alla Sorbona, che alla soglia dei sessant’anni vede la sua vita andare in pezzi e si imbatte nell’estasi mistica della giovane Elisabeth. Combattuto fra desiderio fisico e repressione dei propri istinti, Alain si trova in perenne squilibrio tra un convinto razionalismo occidentale e il forte richiamo del proprio inconscio, che trova antropomorfizzazione nel suo doppelgänger più giovane, visibile solo al confuso professore. Da qui Elisabeth trascina Mangel in un’avventura picaresca verso la venuta di un Messia e la fondazione di una nuova Chiesa, mentre il protagonista (alter ego di Jodorowsky) compie una ricerca della propria identità confrontandosi costantemente con un profondo nichilismo. A metà strada fra road-movie spirituale e commedia degli equivoci, puntellato di situazioni sempre più strampalate e folli, la trilogia segna un nuovo incontro creativo fra il regista e drammaturgo cileno e il fumettista francese, per una collaborazione in cui l’equilibrio tra queste due forti personalità segna prepotentemente l’opera. Da una parte Jodorowsky attinge alla sua autobiografia per scrivere una sceneggiatura dai tratti originalissimi, dall’altra Moebius sposta l’asse del proprio stile spaziando fra riferimenti orientali e occidentali. Nei primi capitoli, ambientati a Parigi, predominano i toni da commedia realistica, mentre un tratto chiaro e pulito ammorbidisce la rappresentazione di scene piccanti e situazioni assurde. Man mano che la narrazione procede e gli eventi si fanno più deliranti, il disegno di Giraud si fa più rapido e istintivo, trasferendo su carta l’esplosione di caos e irrazionalità che coinvolge i personaggi. Cuore pulsante dell’opera è però la dissacrante riflessione sul fanatismo religioso e sul bisogno umano di “credere”. La Pazza del Sacro Cuore mescola senza paura elementi del simbolismo biblico con un’ironia profana e pungente, ma anche con un linguaggio che viaggia fra il forbito e il volgare. La vicenda richiama esplicitamente l’iconografia cristiana (Giovanni Battista, la Vergine, il Messia), stravolgendola in chiave grottesca e sollevando interrogativi sulla tensione fra istituzione e rivelazione. Il desiderio viene declinato sia come pulsione sessuale sia come ricerca di completezza interiore e la componente erotica, spinta fino al limite del pornografico e del grottesco, diventa diretta contrapposizione all’ossessione della ragione che affligge il protagonista. La Pazza del Sacro Cuore è una riflessione sull’ipocrisia del mondo intellettuale, sulla decadenza di certa cultura “alta” e sulla necessità di trovare una dimensione di equilibrio. Una cavalcata folle fra streghe mistiche e viaggi psichedelici, foreste vergini e grigie metropoli, trafficanti colombiani e politici francesi, il tutto per poi capire che la vita deve essere una lunga festa, possibilmente in famiglia.   L'articolo Alejandro Jodorowsky, Moebius / Cronache picaresche del prossimo messia proviene da Pulp Magazine.
Richard Blake / Quando la fantascienza è meraviglia ed esplorazione
Anno 4040. Adley, una ragazza con poteri extrasensoriali, intraprende la ricerca dei suoi genitori scomparsi, una coppia di cartografi che si sono persi anni prima in un’altra dimensione. Questa è la grande scoperta dell’umanità futura, il Ponte, un portale che conduce a una realtà parallela estremamente complessa e cangiante in cui orientarsi è estremamente difficile e perdersi è quasi inevitabile. La funzione di Adley sarà di fungere da bussola a Staden, un’intelligenza artificiale estremamente evoluta nel corpo di un androide che attraversa il Ponte per trovare la coppia di cartografi. Sul suo cammino incontrerà pericolosissime AI datesi alla violenza a differenza di altre che, molto più riflessive, sembrano abitare la dimensione parallela con tutt’altri intenti. Non passerà molto, tuttavia, prima che la stessa Adley decida di attraversare il ponte in prima persona. Richard Blake è un artista eclettico con titoli accademici conseguiti in ambito internazionale. Pittore, scrittore e storyboard artist, Blake è un artista di vasta cultura e ciò si vede perfettamente in un debutto fumettistico – non a caso notato e proposto a Image Comics da una personalità del calibro di Jonathan Hickman – che non può venire se non da chi ha letto tantissimo, sia fumetti che letteratura tradizionale, facendo delle proprie letture l’ossatura della propria creazione. Ma Hexagon Bridge – Orizzonti Obliqui non è soltanto un debutto ricco di citazioni e referenti di livello, si tratta anche di un’opera incredibilmente matura, specie se si considera che è un’opera prima. Sì, perché a citare Borges e Calvino è capace anche un esordiente che ha fatto i compiti, ma prendere gli stilemi del fumetto francese, dalla cura nel dettaglio al ritmo, più ponderato e meno frenetico rispetto ai comics ma non per questo meno scorrevole, prendere l’immaginario di “Metal Hurlant” e tradurli in un fumetto in tutto e per tutto americano amalgamando ciò che è stato preso dalle fonti in modo che non si senta il peso del citazionismo creando un pastiche in cui non si vedono le saldature beh, tutto questo richiede una padronanza fuori dal normale di un mezzo espressivo mai approcciato prima. Hexagon Bridge – Orizzonti Obliqui è sci-fi high concept, un fumetto ad alta densità concettuale, una di quelle opere costruite con un immaginario sì sfrenato ma disciplinato al tempo stesso. C’è molto nell’opera di Richard Blake. Intelligenze artificiali, dimensioni parallele, una riflessione sullo spazio e sull’esplorazione che non è solo teorica ma va a costituire l’ossatura stessa della storia, così come l’utilizzo delle IA che non è didascalico ma estremamente pratico: le domande non vengono sbattute in faccia al lettore con un cartello luminoso ma si fanno carne, diventano personaggi che agiscono e danno vita alla trama. Pare scontato ma non lo è affatto e lo testimoniano le troppe opere in cui l’interiorità dei personaggi soffre di un’ipertrofia che comprime tutti gli altri aspetti niente affatto ancillari di una narrazione che, se poco curati, trasformano una storia in un pastone,  magari digeribile ma privo d’interesse. Di quelli che ti fan sentire colto perché lo capisci ma non ti stanno realmente sfidando in termini di pensiero.  Ecco, possiamo dire che Blake ridimensiona parecchio il ruolo dei personaggi all’interno di un costrutto fatto di world building, trama e di componente visuale che, nella fattispecie, è incredibile. Se, infatti, i personaggi sono approfonditi quanto basta, caratterizzati in modo funzionale e in equilibrio con gli altri elementi, l’impatto visivo delle tavole è meraviglioso. Alla ricchezza dei dettagli si aggiunge un sense of wonder che la costruzione vertiginosa di una dimensione sfumata, tendente all’infinito, in grado di disorientare il lettore che si perde in un ambiente alieno e inesplorato ma selvaggiamente bello nel suo essere così strano. Hexagon Bridge – Orizzonti Obliqui è un’opera completa, che fa pensare ma suscita anche emozioni pur non fossilizzandosi sul parlare a tutti i costi di esse, una storia di fantascienza che ne riprende l’intento originario di meraviglia ed esplorazione. L'articolo Richard Blake / Quando la fantascienza è meraviglia ed esplorazione proviene da Pulp Magazine.
Zuzu / Anatomia di una sparizione
La prima cosa che colpisce leggendo un fumetto di Zuzu sono i nasi. Grandi, sporgenti, sbilenchi: non caricaturali, non grotteschi, ma dichiarazioni di esistenza. Sono lì a dire che ogni volto ha diritto alla sua forma, anche se non corrisponde ad alcun canone. Nel mondo di Zuzu i corpi sono imperfetti, diversi, autentici come si conferma in Ragazzo. Ambientato a Salerno nel 2013 – quando i social non erano ancora pervasivi come oggi – Ragazzo ruota attorno a una scomparsa: Andrea, adolescente “strano”, esce di casa senza cellulare né documenti e non torna. Ma questo non è un giallo. È un racconto di risonanze emotive: cosa provoca la sua assenza in chi resta? Cosa significa scomparire o restare quando si è ragazzi, amici, figli o genitori? Attorno ad Andrea si muovono Alice, che forse è l’ultima ad averlo visto, e Francesco, adolescente spaesato e fragile, attraversato da un dolore sordo, da un’identità incerta, da un desiderio che sa dove andare – verso Alice che ama tantissimo – ma non sa come andare. È lui a tentare il gesto più radicale: non solo sparire, ma provare a morire. I due ragazzi del titolo sono uno che manca per quasi tutta la storia e uno che vorrebbe mancare per sempre. Del primo sappiamo poco: che era generoso, gentile, che aveva un rapporto speciale con sua madre. Del secondo sappiamo tutto: il corpo che non risponde, l’ansia, la fatica di stare al mondo, l’amore per Alice che si trasforma in impotenza. In questa ambivalenza si gioca il titolo Ragazzo: è singolare, ma evoca una pluralità. Due assenze, due dolori, due modi di dire “non ce la faccio”. Ma anche due modi di rimanere. Zuzu, che in Giorni felici aveva saputo raccontare con profondità la protagonista durante le sue crisi di coppia e di senso, qui sposta lo sguardo sui maschi. Racconta la vulnerabilità dei ragazzi, l’incertezza, la paura di non essere all’altezza che però non diventa misoginia. La sessualità, presente e forte in tutte le sue opere, non è mai pruriginosa né pornografica: è parte della vita, qualcosa che si impara, che si sperimenta, che può fare paura o male, ma che è sempre legata al desiderio di essere visti, toccati, amati. Questo vale anche per i personaggi adulti. Alle due figure di ragazzo corrispondono infatti due madri, anche loro complesse e tridimensionali. Rita, la madre di Andrea, lo ha cresciuto da sola. È una donna che ama, che ha amato: ha avuto una relazione con il padre di Francesco, e questo dettaglio – che potrebbe sembrare accessorio – diventa invece una chiave narrativa sottile e potente. Anche la madre di Francesco ha una sua storia affettiva: vive una relazione omosessuale che la sorprende. Nessuna delle due è soltanto “madre”. Sono donne con desideri, corpi, relazioni. E, nei momenti più bui, sono proprio i genitori – anche quelli feriti, contraddittori – a sapere stare accanto ai ragazzi. Zuzu racconta con grande empatia questa forma imperfetta ma vitale di prossimità adulta. Ragazzo è dunque un romanzo del “noi”. Se i primi libri erano centrati sull’io, qui Zuzu allarga lo sguardo: racconta le generazioni, la trasmissione del dolore, la possibilità dell’ascolto. Ogni personaggio, anche il più marginale, come l’uomo sulla panchina ha diritto a esserci. Ogni voce è un pezzo di quel noi fragile e intermittente che chiamiamo comunità. Dal punto di vista grafico, Zuzu continua a reinventarsi. Dopo il bianco e nero di Cheese e i pastelli e matite di Giorni felici, in Ragazzo usa pennarelli volutamente scoloriti, infantili, imperfetti. Il colore incompleto diventa metafora della vita che non si sa dire tutta. Anche l’uso dello spazio è libero: tavole fitte alternate a vuoti, silenzi, dettagli che restano sospesi. Il ritmo è quello delle emozioni, dei respiri, degli inciampi. Zuzu ha dichiarato in un’intervista che ci ha messo due anni per terminare questo fumetto, e noi lo leggiamo in mezz’ora. Ma Ragazzo ci prende, ci aggancia, ci invita a tornare indietro. La prima lettura è spesso in continuità con i libri precedenti: mettiamo le opere in relazione, seguiamo l’evoluzione grafica, riconosciamo la voce. Poi rileggiamo Ragazzo per la storia. E quel bisogno di ritornarci dice molto: vuol dire che il lavoro grafico e narrativo sono profondamente intrecciati, che ciò che può sembrare una sospensione o una mancanza di trama si compensa nel modo in cui Zuzu colora, struttura, riempie le sue storie. E ci fa restare. Ma ciò che rende unica l’opera di Zuzu è la sua etica dello sguardo. Non c’è mai giudizio, mai una semplificazione, mai la tentazione di trovare colpe. C’è dolore che si trasmette, desiderio che cambia forma, e una profonda compassione. Non nel senso pietistico, ma in quello più autentico: la capacità di sentire con, di restare accanto, anche nel disordine, anche nella vergogna, anche quando non ci sono risposte.   L'articolo Zuzu / Anatomia di una sparizione proviene da Pulp Magazine.
Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird
D Dave Mckean è uno dei disegnatori più famosi del mondo. Raptor è un libro del 2021, che segue il suo capolavoro Black Dog e ne continua a modo suo i virtuosismi grafici. È stato di recente pubblicato dalle edizioni Comicon e presentato a Napoli durante l’omonimo festival. Ma prima di parlare di questo libro, una lunga premessa. Era interessante ascoltare a Napoli la sua conferenza e le sue conversazioni, perché nel 2022 McKean ha pubblicato un libro sperimentale, il primo libro con immagini completamente generate dall’Intelligenza Artificiale, dal titolo molto diretto: Prompt. Il libro ha infatti come sottotitolo Conversations with Artificial Intelligence. L’autore descrive tre conversazioni sulla creatività con l’Intelligenza Artificiale, e ne estrae qualcosa che… assomiglia alle illustrazioni di Dave McKean, ma proprio di brutto. In effetti lo stile di Dave si prestava molto, dato che da sempre è un mix di schizzi, disegno realistico, pittura, collage fotografico, e Photoshop (del cui uso è stato pioniere). In più, essendo molto famoso, il web è pieno della sue immagini, per cui è bastato chiedere alla IA: “ fai questa immagine nello stile di Dave McKean”, e la IA aveva tutte le informazioni a cui attingere per fare i suoi remix. Il risultato era abbastanza grezzo, e saltavano agli occhi tutte le allucinazioni create dalla piattaforma, ma in questo caso l’autore le aveva usate in maniera molto consapevole. Dopodiché cosa è successo lo sappiamo tutti: le IA hanno fatto passi da gigante, e non abbiamo ancora visto niente, ogni giorno acquisiscono la capacità di svolgere compiti complessi con sempre maggiore efficienza. Un articolo oggi diceva che l’IA forse pensa, forse no, ma se lo fa è in un modo che noi non possiamo capire… Cosa è successo dopo a Dave? Lui dice che la sua prima tentazione è stata quella di chiudersi in camera e di rannicchiarsi nel letto in posizione fetale. Di non fare più niente, sentendosi ormai inutile. Poi gli è passata, e ha dichiarato che la IA per produrre immagini è qualcosa che non va: azzera ogni soddisfazione, toglie l’esperienza e la riflessione che si producono quando cerchi di sforzarti di inventare delle immagini nuove. Che per carità, non è mica così ingenuo da non sapere che ogni artista è il mix della propria cultura grafica e della cultura precedente, ma così no. Non è post-umano, è disumano. L’intelligenza artificiale sta ridefinendo confini e obbligando a porci degli interrogativi fondamentali: cosa ci rende umani? E adesso torniamo a Raptor: com’è? Raptor  è un graphic novel che si muove su due piani: la vita reale, dove Arthur, uno scrittore inglese all’inizio del 900, cerca di mettersi in contatto con lo spirito della moglie morta, e, contemporaneamente,  un altro piano dimensionale, in un universo medievale-fantastico, dove un falconiere presta il suo servizio per combattere mostri lovecraftiani. I due piani sono destinati a convivere  e a fondersi. Arthur è personaggio storico realmente esistito, perché si tratta nientemeno che di Arthur Machen, lo scrittore che in  epoca vittoriana ci ha consegnato il classico horror Il grande Dio Pan, seguito da I tre Impostori, un romanzo a episodi dove alcuni racconti fantastici si intrecciano tra loro attraverso la testimonianza di tre diversi narratori. A I tre impostori, un opera considerata fondamentale per la letteratura weird, si lega la stella “decadente” del giovane Machen, oscurata tra i contemporanei dal talento e dalla fama del  più noto  Oscar Wilde. E’ curioso oggi il ritorno di  interesse per un autore come Machen,   scrittore e membro delle Golden Dawn (società magico-letteraria),  che fa capolino in maniera abbastanza sostanziale anche nel nuovo romanzo di un altro pilastro del mondo del fumetto, Alan Moore. Il Grande Quando – the Big When – questo il titolo – è il primo di una serie di romanzi fantasy-esoterici che ci terrà compagnia nei prossimi anni. Ma questa è un’altra storia. Raptor non è un libro labirintico come potrebbe esserlo una graphic novel di autori contemporanei come Chris Ware o Daniel Clowes, ma potremmo comunque definirlo un libro senza una vera direttiva, privo di una trama lineare, fatto più di suggestioni che di storie avventurose. Il lettore può divertirsi con i costanti cambi di segno e di registro visivo di MacKean, cosa che poi fa parte del suo DNA. Con il tempo il suo modo di disegnare si è fatto ancora meno realistico, debitore delle avanguardie del novecento, con improvvisi squarci astratti, per poi  magari deviare a sorpresa verso stilemi espressionisti. MacKean costruisce un libro non facile, e a un certo punto consiglierei di abbandonare l’ansia e l’affanno di capire ad ogni costo tutte le simbologie contenute nell’opera,  per lasciarsi  catturare dai suoi mondi fantastici, dove non è poi neppure così terribile perdersi. Presto forse anche virtualmente nella realtà digitale, visto che dopo l’esperienza di Prompt l’autore non ha rinunciato all’idea di utilizzare tecnologie di alto livello per portare i lettori a immergersi nei suoi universi. In un modo nuovo, che – parole sue – la tecnica  sta preparando, ma che al momento non è ancora alla portata di tutti.   L'articolo Dave Mckean / Tra IA e l’incubi weird proviene da Pulp Magazine.
David e William Genchi / Ludopatie black fantasy
David e William Genchi – lasciatemelo dire – sono due fottuti geni. Mi dispiace solo esserci arrivato con tanto ritardo. Esordire nel settore dei libri-gioco non è facile, perché si è sempre costretti a confrontarsi con i mostri sacri del genere, con una profonda tradizione underground, con una lunga serie di cavilli tecnici e con esigenze di originalità ed efficacia che rischiano di remare contro questa stessa tradizione e questi stessi cavilli. In breve, si deve scegliere tra l’ennesima riproposizione di Lupo Solitario e un salto nel buio; è questo il bivio primordiale, il meta-bivio di tutti i giochi a bivi. I fratelli Genchi, dal canto loro, hanno deciso di lanciare una testata nucleare sul problema e ripartire da un’apocalisse tanto narrativa quanto strutturale.  A cominciare dal titolo, Analwizards proietta il giocatore in un contesto provocatorio e di rottura, a metà strada tra il grottesco, il weird e lo splatter. Questo anche grazie al contesto offerto dalla casa editrice marchigiana Hollow Press, una delle realtà più felici e di successo del nostro panorama editoriale indipendente. Non è un caso che questo stesso editore sia anche dietro a uno di quei libri che non solo si prefigurano come futuri classici ma che, al contempo, hanno contribuito alla nascita di un vero e proprio genere fumettistico-letterario: Vermis (due volumi), il lorebook ideato e realizzato dal misterioso illustratore conosciuto come Plastiboo. Per questo la decisione di produrre un libro-game venduto a un prezzo concorrenziale (che purtroppo ci priva di una copertina rigida), ma dall’alto profilo qualitativo (avete idea di quanto diavolo costi stampare tutte queste pagine a colori?) la dice lunga sulla mentalità dell’editore. Ancor più perché Analwizards si propone al lettore in modo sfacciato, riversandogli addosso ettolitri di assurdità, humour nero e nichilismo incendiario. Un coraggio che deriva da una forte cornice editoriale e da un altrettanto forte fanbase. Un ovvio plauso va al sistema di gioco, così chiaro e semplice da evidenziare ancor di più l’intento estetico dei due autori: chiunque può dare inizio a una run di Analwizards, a patto di riuscire a sopportarne il contenuto. Il formato è lo stesso delle vecchie riviste anni ’80, quelle che negli Stati Uniti (ma anche in Italia) pubblicavano moduli non ufficiali per GDR, dungeoncrawler, racconti e miniserie giocabili; una fucina di intuizioni e sperimentazioni alle quali Analwizards rende tributo solo per congedarsene con più convinzione. Ok, è vero, in Analzwizards ci sono pur sempre i bivi, ma non si tratta della classica soluzione logico-strutturale – ossia di una scelta dettata dalla fruibilità. Anzi. È evidente come i fratelli Genchi si siano calati appieno in una mentalità “dungeon”, più vicina a una sensibilità estetica o musicale, che a semplici questioni di design. Se dovessimo parlare di progettazione, infatti, si potrebbe addirittura dire che l’obiettivo del gioco sia quello di disorientare e scoraggiare il lettore, più che assecondarlo. La stessa struttura narrativa induce a pensare che non si riuscirà mai a percorrere tutti i percorsi contenuti nel libro – a meno di non dedicargli la medesima attenzione che si potrebbe riservare a un cosiddetto “videogioco hardcore”. Il modello, insomma, è quello della proliferazione e della dispersione; qualcosa di estremamente simile a quel che si può trovare in un libro ergodico quale Casa di Foglie, o in un album grindcore o harsh noise. L’esperimento è riuscito in maniera esaltante, complice l’impiego del fumetto anziché del semplice testo narrativo. Decisamente esaltante il disegno, che riesce a fondere e ibridare caratteristiche e palette che riportano alla mente la seconda generazione di serie animate Cartoon Network e Nickelodeon; i classici del fumetto beat, psichedelico e underground; Hieronymus Bosch; lo splatter; il manga e l’eroguro giapponese. Una combinazione all’insegna del bizzarro, che tanto più la si frequenta tanto più convince. Altrettanto straordinaria la caratterizzazione dei personaggi, tenuta sempre in bilico tra l’esilarante e l’estremamente perturbante; impossibile non ridere, non schifarsi, non restare vagamente allibiti – in breve, non farsi coinvolgere nelle dinamiche di questo folle universo. Analwizards è, a mio parere, destinato a diventare un punto di riferimento per chiunque, in Italia, l’estremo in tutte le sue forme e sia fermamente convinto che possa avere anche una funzione ludica e felicemente perversa. Lo stesso vale per il mondo dei libri-game, che con questa pubblicazione vede rompersi diverse barriere e aprirsi un bel po’ di sentieri. A Cesare quel che di Cesare; ai Genchi, si spera, fama internazionale. L'articolo David e William Genchi / Ludopatie black fantasy proviene da Pulp Magazine.
Kotteri! / Il lato scontroso dell’amore
“Il cielo era ricoperto di nuvole grigie, / l’intera città fredda e silenziosa, come una fotografia. / Due occhi che non conoscevano il mondo danzavano, / e i suoni tingevano un giovane d’arancione”. Lei, lui e il colore: nel breve capitolo di prologo di Veil c’è già tutto il necessario per lasciarsi trasportare all’interno della storia e del mondo di questo manga finalmente portato da J-Pop in Italia. Attraverso l’etichetta J-Pop la casa editrice milanese Edizioni BD fa conoscere al pubblico italiano Veil, una tra le opere recenti (è giunta in Giappone al sesto volume) più apprezzate  nel mondo dai lettori di Kotteri!, lo pseudonimo dietro il quale si cela l’esperta mangaka Ikumi Fukuda. Veil è un manga di stampo romantico che racconta dei momenti di vita dei due protagonisti, Emma e Alexander: lei ereditiera non vedente, fuggita dall’agiata vita di casa per conoscere il mondo; lui poliziotto dal cuore d’oro, subito pronto ad aiutarla a trovare un lavoro come centralinista presso la propria stazione di polizia. Questa la premessa da cui parte un’opera che si può definire, come genere, slice of life. Ogni capitolo ci accompagna attraverso dei momenti della frequentazione tra i due giovani, frequentazione che pur non assumendo i contorni “comuni” di una storia d’amore si può considerare sin da subito dolce e intima; anche solo sedersi l’uno accanto all’altra diventa subito un momento per avvicinarsi, parlarsi sottovoce, aiutarsi, scherzare o essere, più semplicemente, complici. Lo svolgersi degli eventi si trova dunque all’interno di una certa atemporalità che crea atmosfere da sogno; l’ambientazione è quella di una immaginaria città chiamata Sashenka, nella Repubblica di Sasha, dagli espliciti richiami russi, e l’estetica dell’uniforme di Alexander suggerisce che sia il pieno periodo sovietico. Ma non si parlerà mai di politica in senso stretto, o si vedrà lui intento a svolgere il suo lavoro di poliziotto: ciò che l’autrice vuole mostrarci è solo il rapporto tra questi due giovani. L’estetica è sicuramente il primo aspetto di questo manga che conquisterà il lettore, un’estetica che trova espressione nei disegni meravigliosi di Kotteri!, il cui amore per la moda e per le uniformi militari si rivela ancora una volta nella cura maniacale con cui tratteggia look, vestiti e accessori dei personaggi dell’opera. Il suo tratto, che ricorda molto quello del grande artista illustratore di moda Tony Viramontes, è insieme delicato e pieno di dettagli, in grado di tenere incollati alla pagina per ammirarlo. A ciò si accompagna un magistrale uso del colore che a lettori e lettrici richiamerà quello di Ai Yazawa, la famosa autrice del manga Nana. Kotteri!, se così ci passate il lirismo, dimostra ancora una volta a quale bellezza può giungere la mano umana quando disegna. Non si pensi, però, a un manga che vuole risultare soltanto epidermicamente piacevole per l’occhio: Veil è scritto in maniera sapiente per portare un punto di vista femminile dolce e passionale su di un rapporto indescrivibile nella sua serendipità, quale quello tra due persone che, conoscendosi per la prima volta, da subito sentono un legame, un’attrazione che però non è semplicemente fisica o sfuggevole; tutto nasce quando Alexander si preoccupa per Emma in quanto ragazza non vedente, e lei è lieta di aver incontrato un ragazzo tanto gentile e premuroso come lui, finto burbero dal tipico carattere – come si dice in gergo – tsundere, ovverosia apparentemente scontroso e aggressivo, ma che cela un lato più dolce e amorevole. La cecità di Emma, in particolare, è usata per rendere partecipe il lettore di alcuni dei momenti più intensi e intimi del rapporto dei protagonisti, e tutto ciò attraverso un altro importante senso, il tatto: le mani di Emma cercano sempre i vestiti, la faccia, i capelli di Alexander, che sia per tenersi a lui, che sia per prenderlo in giro, che sia semplicemente per sentire il calore dei suo corpo. Non ci sono baci, non ci sono labbra che si sfiorano, eppure momenti come questi risultano molto più potenti e coinvolgenti di tante opere che provano a comunicare l’amore in maniera più esplicita o crassa.  Chi sono, dunque, Alexander ed Emma? Sono già una coppia innamorata? Amici che vorrebbero essere di più? Conoscenti da subito legati attraverso un qualcosa che nemmeno loro riescono a spiegare? Forse tutto, forse niente. Spetterà al lettore, quando si immergerà nel meraviglioso mondo di Kotteri!, fare la propria decisione. L'articolo Kotteri! / Il lato scontroso dell’amore proviene da Pulp Magazine.
Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989
Dopo aver rivoluzionato l’universo superomistico con Watchmen (1987) e Batman: The Killing Joke (1988), l’ultima cosa che ci si poteva aspettare da Alan Moore era probabilmente un horror esistenziale come Un piccolo omicidio (1989), obliquamente calato nello memoria e nello spirito del suo tempo: i ruggenti anni ’80 e la fine della Guerra Fredda. Malgrado le numerose ristampe, si tratta infatti di un’opera relativamente poco conosciuta nel corpus dell’autore inglese, almeno rispetto a saghe come In Hell, La lega degli straordinari gentlemen, V per Vendetta.  A riprova dell’anomalia di quest’opera, c’è anche il fatto che l’idea della storia non è sua ma del disegnatore Oscar Zarate, illustratore e fumettista argentino emigrato nel Regno Unito e ritrovatosi in mezzo alla new wave britannica di Neil Gaiman, Grant Morrison, Mark Millar, Garth Ennis, Dave Gibbons e appunto, Alan Moore, ritagliandosi per lo più un ruolo relativamente umile con biopic a fumetti di Lenin, Freud, Thomas Girtin, ecc. Da notare che Oscar Zárate vanta anche trascorsi nel mondo della pubblicità come il protagonista di Un piccolo omicidio.  Qui Timothy, uno yuppi quarantenne, sul punto finalmente di svoltare, ha infatti appena ricevuto da una importante agenzia di New York l’incarico della sua vita per il lancio di un brand beverage tipo Pepsi Cola nella Russia di Gorbačëv che si sta timidamente aprendo alla cultura e al consumismo occidentali. Ma nel suo viaggio verso l’Europa, Timothy è perseguitato da un ragazzino, apparentemente inafferrabile, che sembra fare di tutto per ucciderlo mentre ripercorre a ritroso le città e i luoghi mentali che, anche simbolicamente, hanno segnato la sua esistenza, tra il thatcherismo rampante di Londra e il plumbeo laburismo di Sheffield, la sua small town.  Nella prima parte Moore fa un vero capolavoro nel rappresentare una comunità individualistica che si nega come società per riconoscersi nell’idea di mobilità e di frammentazione sociale, attraverso le conversazioni e i dialoghi captati a mezz’aria nel gossip delle feste, nelle chiacchiere dell’ufficio, in business class o in metropolitana. Ma è solo tornando a Sheffield, tra le case popolari dell’età Macmillan, che Timothy scoprirà la persistenza di una certa  cultura working class che ritrova in primo luogo nei gesti e nelle abitudini dei genitori assieme alle reliquie imbarazzanti e fin troppo ben conservate della sua gioventù: dalla prima, e da sempre vetusta, automobile, dal colore improponibile e con l’adesivo di Rock against the racism ancora incollato sul parabrezza – che il padre con la coppola alla Andy Capp non usa, restando fedele alla bicicletta – alla ex moglie dei vent’anni, ora appesantita dal secondo matrimonio, a differenza del nostro yuppie che non si è mai sentito pronto per gli impegni genitoriali. Proprio tra le rovine operaie di Sheffield Timothy affronterà  i falsi ricordi della sua infanzia e nel contempo la resa dei conti finale  con la sua nemesi bambina, sempre più pestifera e risentita, approdando alla fine, inaspettatamente, anche alla sospirata idea per la campagna pubblicitaria,  destinata a troneggiare trionfalmente sulla Piazza Rossa. Oscar Zarate, che cita Hugo Pratt e Milton Caniff tra i suoi ispiratori giovanili, sembra qui aver metabolizzato anche la lezione cromatica della scuola italiana del tempo e in particolare del gruppo Valvoline. Un Moore forse mai così libero e sperimentale si intesta l’altro 50% di questo graphic novel – tra le altre cose, vincitore dell’Eisner Award (1994), oggi meritoriamente riedito da Mondadori con un’intervista agli autori di Jaime Rodriguez come postfazione. “Penso che Un piccolo omicidio sia uno dei fumetti migliori che abbia mai scritto, di certo uno dei più belli a vedersi”. Riletto oggi ci sta tutto.     L'articolo Alan Moore, Oscar Zarate / Accadde nel 1989 proviene da Pulp Magazine.
Jioke / L’abisso che è in noi
Dopo l’esordio con l’antologia di Pazzia, i thriller psicologici La casa dei pulcini e Voglio il tuo cuore,  arriva ora in fumetteria la nuova raccolta di racconti dell’orrore di Giovanni Dell’Oro,  in arte JiokE. Presentata in anteprima al Comicon di Napoli, è disponibile anche in una speciale versione variant,  in esclusiva solo nei Funside.    Il volume Abisso raccoglie dodici pillole di puro terrore che trascinano il lettore in un vortice dal quale è impossibile fuggire, e in cui JiokE scandaglia l’animo umano portando all’estremo il male che alberga in ciascuno di noi, con plot twist incisivi che shoccano e sconvolgono, lasciando un profondo malessere interiore al lettore. Qui si scardinano tabù, si abbattono i muri del banale e le barriere delle paure più profonde, queste sono storie che mettono a disagio, che disturbano, che scuotono e rompono le regole narrative classiche dei manga di genere. Qui non si risparmia nessuno, non si fanno prigionieri. Il politically correct non è di casa e di sicuro ne è sconsigliata la lettura agli stomaci deboli.  La narrazione sfrutta l’espediente di una normale situazione di quotidianità, all’apparenza innocua per poi stritolare l’evolversi della trama e chiudere il lettore all’angolo con angoscia e sgomento. Vi assicuriamo che mai vorreste trovarvi anche in una sola delle situazioni qui raccontate. Le tavole in bianco e nero sono poche per ogni racconto ma colonna portante della narrazione, che grazie ad esse è resa più vivida per il caratteristico tratto a matita che appare sfumato in alcuni punti e maggiormente calcato in altri, ricreando così un’atmosfera di pura tensione, spietata e personaggi più delineati e inquietanti. La struttura verticale sottolinea la rapida ascesa verso il culmine del dark side che ognuno di noi reprime in fondo al cuore, una corsa contro il tempo per fuggire dall’incubo.  JiokE sceglie con Abisso di tornare alle sue origini artistiche: anche il suo esordio Pazzia  nasce infatti come raccolta di strisce arricchite e pubblicate online in prima battuta).  Dopo un cambio di rotta con i successivi due romanzi, torna a riutilizzare la forma dell’antologia che gli aveva portato tanta fortuna e seguito da renderlo un successo virale. I temi trattati e il filo conduttore del volume sono senz’altro il disagio psicologico, alcune patologie psichiatriche e la distruzione dell’infanzia, che ben ricordano – seppur estremizzati – alcuni fatti di cronaca. Ed ecco il merito dell’autore nel costruire un percorso devastante che insinui il dubbio terrificante nel lettore: a volte la realtà supera la fantasia ma se fossero questi incubi a dare spunto alla realtà? Se la mente corre a Junji Ito come firma di riferimento del genere horror, non si può evitare di porre l’accento sulle evidenti differenze. Mentre il giapponese subisce l’influenza dei classici Lovecraft e Poe, raccontando un orrore impalpabile, inspiegabile, con un elemento sovrannaturale e un tratto morbido e pulito, JiokE parla un linguaggio più materiale, fisico, e cinico attraverso un disegno spigoloso e ruvido, caratterizzato dal naso a triangolo tipico dei sui profili.  Nessuna storia di Ito raggiunge l’orrore dei racconti di JiokE per cui se siete amanti del genere non potete assolutamente perdervi le sue tavole, in particolare Ripetizione, basato su una storia realmente accaduta in Inghilterra. Una piccola curiosità riguardo alla scelta del nome d’arte: inizialmente era Jio, con un suono nipponico e di facile associazione (Giovanni – Giò – Jio) ma sui social apparteneva già ad un servizio telefonico indiano.  Per i primi tempi dunque Giovanni fu sommerso di messaggi provenienti dall’India con l’invio di CV in allegato. A quel punto era doverosa una modifica e corse ai ripari arrivando quindi alla conclusione che utilizzando JiokE non avrebbe avuto problemi. Così non fu perché i messaggi continuavano ad arrivare. La soluzione? Bannare l’India, quindi se al momento vi trovate lì e cercate Giovanni / JiokE, beh, non lo troverete affatto. In compenso  potete  approfondire il suo lavoro con un’intervista all’autore disponibile tra i LIVE del  canale Pulp Magazine su YouTube e  Spotify. L'articolo Jioke / L’abisso che è in noi proviene da Pulp Magazine.