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Nicole Claveloux & Édith Zha / Il femminismo che ridisegnò Métal Hurlant
Ci sono almeno due motivi per essere grati alla casa editrice Eris che pubblica La mano verde e altri racconti di Nicole Claveloux e Édith Zha. Il primo è l’aver riportato all’attenzione un’autrice che in Italia era pressoché sconosciuta: la maggior parte dei lettori – se la ricordava – la associava soltanto ai libri illustrati per bambini usciti ormai quasi 50 anni fa. Il secondo motivo riguarda la riproduzione straordinaria delle sue tavole, un lavoro non facile perché Claveloux disegnava direttamente sul ridotto della rivista Métal Hurlant, applicando colore e aerografo sulla pagina finale. Riprodurre fedelmente quei passaggi cromatici, quei segni fittissimi, quelle velature acide e irreali è un lavoro che richiede una cura rara, e qui pienamente riconoscibile. Il volume raduna materiali pubblicati tra il 1976 e il 1978 su Métal Hurlant e Ah! Nana, il suo effimero supplemento femminista. Métal Hurlant non era certo la prima rivista di fumetti francese – esistevano già Pilote, L’Écho des Savanes, Pif Gadget e molte altre – ma fu la prima a incarnare un progetto estetico radicale: un fumetto adulto, visionario, apertamente sperimentale, dove la fantascienza diventava laboratorio formale e la linea di Moebius (uno dei fondatori della rivista) dettava una nuova grammatica del possibile. Dentro questo contesto così marcato, Ah! Nana rappresentò un gesto ulteriore, femminista e libertario, subito osteggiato e rapidamente censurato. È un femminismo tipico degli anni Settanta, lontano dalla codificazione identitaria odierna: satirico, antagonista, in conflitto con ruoli sociali rigidi. Lo mostrano bene le storie di “Panka Neve”, corrosiva parodia di Biancaneve, o il racconto della donna cresciuta e morta nel mito del principe azzurro. Il bersaglio, naturalmente, non è la donna, ma il dispositivo narrativo che la imprigiona; e lo smontaggio passa attraverso grottesco, ironia, deviazione. Il centro del libro è La mano verde, unico racconto a colori. La storia uscì su più numeri di Métal Hurlant, ognuno intitolato secondo una tonalità dominante: La mano verde, L’erba nera, La notte bianca, La paura blu, Le baracche viola. Il colore struttura gli episodi come una sequenza di stati sensoriali. Claveloux costruisce la pagina attraverso contrasti violenti: gialli acidi che si impongono sui blu, arancioni velenosi contro azzurri innaturali, porpora che assorbono il verde. La luce si comporta come una forza che devia, altera, spinge le figure ai margini della loro forma. La casa percorsa da gialli inquieti, da domestica diventa un luogo instabile; il giardino si trasforma in un campo di tensioni; la sala da pranzo vibra di rosa e verdi tossici; la foresta rossa esplode come un delirio cromatico; il finale, immerso in un blu assoluto, chiude tutto in una sospensione emotiva. In La mano verde il colore non solo accompagna ma produce la scena e la storia.  È interessante a proposito del titolo della storia leggere la nota sulle difficoltà incontrate dalla traduttrice per rendere in italiano il senso e le intenzioni ‘coloristiche’ dell’autrice. Un’altra parte essenziale di questa costruzione visiva nasce dall’incontro con Édith Zha. La sua scrittura introduce un ritmo che l’illustrazione pura non prevede: una successione di passaggi, uno scarto temporale, una metamorfosi. La fantasia di Claveloux trova così una direzione senza perdere libertà. Il rapporto tra le due autrici dà forma a una narrazione che si estende, si contrae, si trasforma, seguendo un principio più atmosferico che lineare. Accanto al racconto a colori, il volume presenta un nucleo di storie in bianco e nero che rivelano un registro diverso, fondato sull’incisione del segno. Qui la trasformazione passa attraverso il tratteggio, le ombre fitte, le prospettive che scivolano. Le architetture sembrano respirare, i volti si deformano, nel numero speciale dedicato dalla rivista a H.P. Lovecraft i gatti riempiono la scena come presenze enigmatiche. L’immaginazione non si espande come nel colore: si addensa. Le superfici inchiostrate pulsano di dettagli barocchi e suggeriscono mondi interi attraverso minime variazioni. In filigrana affiora una genealogia surrealista. Le forme che si sciolgono e ricompongono altrove richiamano Jean Arp; le texture ambigue, le stratificazioni e gli scarti di superficie rimandano a Max Ernst; l’ironia feroce e la deformazione morbida dialogano con Roland Topor allora figura imprescindibile in Francia. Non si tratta di citazioni, ma di un clima: una postura visiva che tratta la pagina come luogo di instabilità. Lo spazio di Métal Hurlant, dominato dalla star e matita di punta Moebius – autore che per molti versi prosegue, in chiave contemporanea, la tradizione delle forme biomorfiche e dell’automatismo surrealista – era un ambiente visivo fortissimo, ma anche un contesto in cui la voce di Claveloux riuscì a mantenere una piena autonomia poetica. Come osserva Paolo Interdonato nella  postfazione del libro, Nicole Claveloux percorre traiettorie laterali del fumetto: non cerca uno stile uniforme e non si appoggia a generi riconoscibili. Questa libertà oggi risulta particolarmente evidente. Il successo della graphic novel ha introdotto nel fumetto un modello narrativo più vicino alla forma-romanzo, con un forte investimento psicologico e una linearità spesso rassicurante. Il lettore contemporaneo tende dunque a cercare riconoscibilità, coerenza, continuità. Di fronte a Claveloux questo automatismo si interrompe: la pagina chiede di essere guardata, non seguita; i passaggi non si dispongono in ordine, ma aprono spazi inattesi. I racconti raccolti nel volume ricordano che il fumetto può anche essere un territorio aperto, capace di interrogare e di spostare il lettore. Claveloux :invita a lasciarsi attraversare da colori che non appartengono alla natura, da forme che mutano sotto gli occhi, da ambienti che sfuggono alla logica. In un momento in cui il fumetto rischia di essere percepito soprattutto come romanzo illustrato, La mano verde restituisce una possibilità più antica e più viva: fare della pagina un campo di libertà, un luogo dove forma e senso si generano a vicenda senza gerarchie.   L'articolo Nicole Claveloux & Édith Zha / Il femminismo che ridisegnò Métal Hurlant proviene da Pulp Magazine.
David B. / Il grande male di vivere
P arliamo nuovamente di David B, ma questa volta provando a entrare nel mondo del fumettista francese attraverso l’adito del suo capolavoro più famoso.  Se ci sono infatti libri che con la loro apparizione segnano un prima e un dopo, non c’è dubbio che il nostro modo di intendere le graphic novel è cambiato per sempre dopo “Il grande male”, di cui Coconino propone ora una ristampa in edizione economica. La sua pubblicazione in Francia, in sei volumi a partire dal lontano 1999,  ci consegna infatti per la prima volta un autore di fumetti che prova, riuscendoci,  a mettersi completamente a nudo nell’autonarrazione della propria problematica adolescenza e della crescita come giovane adulto. Certo, il punto di vista autobiografico non è mai stato completamente estraneo al fumetto, e già artisti del calibro di Art Spiegelman e Robert Crunch, per fare due esempi illustri presi a caso,  non si erano tirati indietro quando si è trattato di “metterci la faccia”, comparendo all’interno di una propria opera.  Il caso di David B. è però sostanzialmente diverso, confrontabile, almeno in Europa, forse soltanto con Persepolis, l’autobiografia disegnata di Marjane Satrapi che vedrà la luce di lì a pochissimo. Se la durata è già di per sé un sintomo eloquente del processo creativo, va sottolineato che L’Ascension du Haut Mal è stato scritto nell’ arco di 20 anni, come una forma di interminabile autoterapia che vede Pierre-François crescere in conflitto con la grave malattia del fratello Jean-Christophe, un evento destinato a  sconvolgere  i Beauchard e a mutare radicalmente le loro vite. Si tratta di una strategia terapeutica che, ironicamente,  fa da contrappunto proprio alle varie terapie “alternative” e ai rispettivi guru, di volta in volta entusiasticamente appoggiati dalla madre, nell’incedere di una storia crudamente grottesca nei suoi risvolti umani. Siamo del resto nei primi anni ‘70 e la scia della cultura hippy, ormai riciclata come folklore mainstream, approda ora per disperazione anche nella borghese e acculturata famiglia Beauchard. La malattia,  il “grande male” del titolo, è infatti l’epilessia, un “male oscuro” che in forma grave è a fatica riconoscibile e, al tempo, incurabile per la medicina ufficiale. Anche il fumetto, tuttavia,  si rivela ben difficilmente prescrivibile come terapia di gruppo, e nessuno dei familiari di Pierre-François infatti si riconoscerà nella versione offerta dal libro (tanto meno la sorella, praticamente espunta dalla ricostruzione).  Qui David è un bambino combattivo e violento, che impara a crescere con i suoi mostri e a tradurre il suo furore nell’impeto della creatività. Perché Il grande male è,  soprattutto, questo:  l’evoluzione del suo sguardo sulla malattia del fratello.  E il conflitto tra i due esplode filtrato anche attraverso il grandangolo delle rispettive aspirazioni adolescenziali: quelle di  Pierre-François che alla fine assume il nom del plume di David B. per simpatia  con le vittime della Shoah, e quelle di un risentito Jean-Christophe che, privato di un infanzia,  si identifica con i peggiori autocrati del secolo scorso come Hitler e Stalin. Se si trattasse solo di questo,  faremmo però fatica a intendere la grandezza e l’originalità di quest’opera, oggi che quasi ogni graphic novel alza in pratica il sipario sui traumi giovanili del suo autore o della sua autrice,  riaffermando la regola fumettistica della autofiction.  La sua unicità consiste invece nel documentare, in parallelo al subbuglio esistenziale di  Pierre-François, l’avanzamento del mondo visionario di David B. Mentre assistiamo alla maturazione della sua vicenda umana, non possiamo infatti fare a meno di osservare come spettatori incantati un universo grafico in gestazione che sembra germinare direttamente dal quel composto di inquietudini e di esplorazioni giovanili che rendono Il grande male un grande romanzo di formazione. Un orizzonte artistico che,  tra demoni e fantasmi più o meno amichevoli, fonda la propria cosmologia attingendo da un crogiolo pressoché inestinguibile di stili, di culture e di epoche. Un mondo perturbante e notturno, ma non per questo meno familiare, impastato della stessa sostanza dei sogni o degli incubi,  dove le ombre delle figure che si allungano verso Pierre-François non rispettano  le leggi della prospettiva ma solo le proporzioni del suo inconscio.  Un mondo in bianco e nero che ad ogni tavola paga fino in fondo il  suo debito –  largamente riconosciuto dall’autore – con Hugo Pratt, Will Eisner, José Muñoz.     L'articolo David B. / Il grande male di vivere proviene da Pulp Magazine.
Frank Miller / Il maestro è stanco
Dario il re di Persia appartiene a una casata destinata alla grandezza, alla testa di una grande nazione guerriera che si estende a perdita d’occhio. C’è tuttavia un osso troppo duro anche per lui, un popolo fiero e orgoglioso che dà del filo da torcere a tutta la sua casata, dal figlio Serse al discendente suo omonimo: i greci. I cittadini delle poleis, capitanati da generali del calibro di Temistocle, Milziade e Leonida, si oppongono ai persiani ingaggiandoli in una lotta che negli anni innaffia l’albero della gloria con fiumi di sangue. Ed è proprio dalla Grecia, per la precisione dalla Macedonia, che giunge il sovrano destinato a mettere tutti gli altri in ombra: Alessandro il Grande, le cui gesta echeggiano nei secoli nonostante la sua vita sia terminata anzitempo in giovane età.  Frank Miller è uno di quegli autori che, nella Storia del fumetto, segna un prima e un dopo la sua venuta. La sua opera è letteralmente imprescindibile e, soprattutto per quanto riguarda i comics, ha cambiato la poetica con una profondità che non è possibile ignorare. Già la sua prima run su Daredevil, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, ha avvicinato il linguaggio dei fumetti a quello del cinema con un ciclo noir metropolitano di un’intensità e di una classe che in pochi altri casi si erano viste e che hanno cambiato la percezione di un personaggio, Daredevil, fino a quel momento un po’ in cerca di un’identità sua in grado di lasciare un segno, quell’identità che sarebbe esplosa con il ciclo Born Again, un racconto titanico, febbrile e doloroso da cui non è possibile prescindere per chi si approccia oggi alla scrittura delle storie del diavolo rosso. Ma è con Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro che il lavoro di Miller raggiunge la sua espressione più alta. La storia di questo Bruce Wayne futuribile, anziano e ferito, che ritorna in sella in una Gotham che il caos e la ferocia non hanno mai abbandonato, è la sintesi della visione milleriana del fumetto e della vita, un western di frontiera dal taglio anarchico di destra, in cui un eroe solitario cala sui banditi che spadroneggiano su un villaggio portando loro una giustizia feroce e primitiva in difesa di un ordine naturale che precede la legge e le istituzioni, rappresentate da un Superman tenuto al guinzaglio dal governo americano, contro cui Batman non esita a scontrarsi.  Se l’uomo pipistrello e il diavolo rosso sono stati personaggi con cui Miller si è ripetutamente misurato dando vita a opere di qualità stellare – incredibili Batman Anno Uno ed Elektra vive ancora – le sue opere creator owned hanno prodotto classici altrettanto importanti: da Sin City, l’universo narrativo noir nichilista il cui adattamento cinematografico lo ha visto debuttare alla regia, a 300 il successo planetario in cui Frank racconta la sua versione della battaglia delle Termopili, un’opera che reinterpreta liberamente la storia per creare un manifesto artistico e politico che racconta la maturazione piena di un artista e la sua presa di posizione in un mondo che di lì a poco sarebbe stato segnato dal concetto di scontro di civiltà. Successivamente è arrivato il declino: se All Star Batman and Robin, the boy wonder non funzionava e DK2, seguito di Il ritorno del cavaliere oscuro, funzionava ancora meno, Holy Terror è uno scivolone tremendo, di qualità altalenante dal punto di vista visivo, tirato via nella scrittura a voler essere generosi e becero nelle prese di posizione politiche, letteralmente una reazione scomposta agli attentati dell’11 settembre 2001. Successivamente Miller ha mitigato i toni delle proprie dichiarazioni, esagerati anche per via di una situazione personale non sempre semplice e di una risposta dura dei fan a una fase creativa non certo felice, ma dal declino non si è mai ripreso. Ed è qui che Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro si colloca nel percorso milleriano: un tentativo di exploitation del successo di 300 poco riuscito come tutte le sue ultime opere. Azzeccato nella logica – una forma di esplorazione metafisica di un’idea molto personale dell’antica Grecia – si percepisce in ogni pagina la stanchezza di un maestro un tempo grande. Miller vorrebbe portare avanti l’evoluzione dell’estetica della sua epopea spartana ma finisce per fare l’imitazione di sé stesso. Il suo tratto è l’ombra di quel che era, ha perso il dettaglio e la plasticità delle figure, nelle scene di lotta manca il dinamismo di un tempo e il maestoso groviglio di gioielli che fu il Serse di 300 qui diventa una figura piatta, una macchia nera su cui si affastellano pezzi d’oro senza un progetto estetico solido alla base. L’essenzialità maestosa degli sfondi rocciosi ha lasciato il posto a una messa in scena scarna e vuota. La volontà sarebbe quella di inserire una dimensione mistica e psichedelica al racconto, ma il risultato è povero. La scrittura, vorrebbe sfruttare le possibilità di una narrazione sincopata, non del tutto lineare, che salta nel tempo, ma la lettura risulta sconnessa, i vari momenti stanno poco insieme e gli stacchi di continuità sono più fastidiosi che altro. Una logica dietro a certe scelte c’è, ed è pure ambiziosa, ma l’esecuzione non è all’altezza. Frank Miller ha ancora la mente di un maestro ma ha perso la mano, ha in testa una storia grande ma non ha più i mezzi per raccontarla e questo fa male. Umanamente  si perdona lo scivolone a uno che ha formato lo sguardo di milioni di lettori di fumetti, che ha elevato il medium intero, trasformandolo in una forma di narrazione a tratti più vitale delle sorelle più blasonate, ma le opere, perché lo stato di un artista si valuta anzitutto da quelle, gridano la sua stanchezza. E questo è inequivocabile: Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro è il segmento di una striscia negativa che si spera finisca presto ma che presa da sola non riesce a non apparire per quello che è: un tentativo di correre nella scia di un capolavoro passato con il fiato drammaticamente corto. L'articolo Frank Miller / Il maestro è stanco proviene da Pulp Magazine.
Štěpánka Jislová / L’amore è facile ?
Scordatevi la classica graphic novel sull’amore, che se fosse un romanzo verrebbe subito categorizzata nei romance, tanto di moda oggi. Questo per il lettore è invece un viaggio introspettivo che scava nel profondo di ognuno partendo dall’esperienza personale dell’autrice, la ceca Štěpánka Jislová, considerata una delle voci più interessanti della nuova scena fumettistica internazionale. “Stretta al cuore” è infatti un’opera già tradotta in oltre dieci Paesi tra cui Francia, Germania, Stati Uniti e Brasile e arriva in Italia grazie alla lungimirante casa editrice Eris che ha fatto un ottimo lavoro di scouting.  Il contenuto è pesante, per nulla superficiale.  Inevitabilmente tocca  corde sensibili perché, diciamocelo, parlare d’amore non è mai facile, soprattutto se, come in questo caso, la protagonista confessa un abuso subito in età adolescenziale. Il trauma si ripercuoterà con un effetto a catena sulle sue relazioni, sessuali e affettive. Il percorso a ritroso nei ricordi che compiamo attraverso di lei fa nascere riflessioni anche dentro di noi, obbligandoci a soffermarci, a nostra volta, sul nostro vissuto. Al mancato supporto psicologico dopo l’abuso corrisponde l’autoanalisi che la ragazza si costringe a compiere su se stessa, per trovare  risposte alle domande che l’hanno finora allontanata dagli altri. Fondamentalmente le stesse sollevate con perplessità dai suoi coetanei. La generazione di riferimento è infatti una e ben precisa: quella dei ragazzi degli anni ’00, definiti millennial, con pochi strumenti a disposizione e uno spirito di ribellione forte almeno quanto la spinta a omologarsi agli altri. Una generazione che voleva essere vista e ascoltata ma che non sapeva nulla di grooming o gaslighting pur vivendoli sulla propria pelle.  Ora, la narrazione ci accoglie nel mondo di Štěpánka un passo alla volta, ce ne descrive l’ infanzia in cui cercava in tutti i modi di attirare l’attenzione dei genitori senza riuscirci,  circostanza con cui prova a spiegarsi in seguito perché non sia stata in grado di costruire una relazione sana e duratura, non sia dotata di un’autostima particolarmente vibrante o perché non abbia molti amici. A questo si aggiungono il disagio di parlare dell’abuso subito e ad alta voce a qualcuno. E l’istinto che la porterebbe a giustificare il suo carnefice. Durante questo viaggio incontreremo anche Michalhe che con lei inizierà una frequentazione di natura in apparenza solo sessuale. Come Štěpánka ha un passato difficile alle spalle perché le parole dette dai padri sono dure da digerire e creano crepe già in giovane età. I cliché sono i soliti: un uomo non deve piangere, un maschio deve essere virile e forte, non può avere i capelli lunghi e deve andare a letto con molte ragazze. Forse è per questo che a modo loro i due giovani si riconoscono nelle rispettive fragilità anche se ammetterlo vorrebbe dire abbattere i muri che li hanno protetti fin qui. Attraverso i loro diari e le loro parole scopriremo quanto i due hanno in comune,  si completano con i loro punti deboli e si intersecano come i pezzi di un puzzle chiamato amore. La verità è che le risposte non stanno in nessun libro, che la vita non si studia ma si vive, appunto, caduta dopo caduta. Un passaggio importante della graphic è però quella dedicata ad un interessantissimo approfondimento della teoria dell’attaccamento, basata sugli studi di John Bowlby e Mary Ainsworth e su esperimenti condotti negli anni ’60 e ’70 che hanno analizzato e classificato i diversi tipi di interazione tra il bambino e il caregiver. In sostanza, osservando il comportamento del bambino in presenza di un genitore e come esplora il suo ambiente, si può già intuire che tipo di impronta l’adulto stia trasmettendo al figlio. Questa interazione avrà provatamene anche un impatto sulle sue relazioni in età adulta. L’epilogo commovente conclude non una storia “d’amore” ma semmai una storia che tratta di amore, con un linguaggio semplice che parla a tutti a cuore aperto, rivoltando questo sentimento vitale in ogni aspetto. L'articolo Štěpánka Jislová / L’amore è facile ? proviene da Pulp Magazine.
G.Monde, M. Burniat / Una nera favola arturiana
Un portale si apre nei cieli del regno di Pendragon, e da esso sgorgano demoni infernali, intenzionati a portare morte e distruzione sull’umanità. Re Artù, sempre valoroso, si fa forgiare una spada magica dal Mago Merlino per distruggere questi demoni e rispedirli da dove sono venuti,  dopo una lunga battaglia. Il regno è salvo, Artù lodato e venerato come il grande eroe che è. È con queste immagini intrise d’epica, tipica del Ciclo Arturiano, che si apre uno dei nuovi fumetti portati in Italia da Tunué: Furiosa, fumetto di due autori, francese il primo, Geoffroy Monde, pittore e artista visivo, qui ai testi, e belga il secondo, Mathieu Burnat, alle matite e ai colori. Ma basta girare una pagina per entrare presto in un mondo che è tutt’altro che mitico: anni dopo Re Artù è diventato vecchio, grasso e perennemente ubriaco, addirittura ha i pantaloni costantemente sporchi di urina, parla sbavando e non riesce più a comunicare civilmente con le persone intorno a lui, in preda a quella che sembra una forma di demenza che non lo fa comunque schiodare dal trono; sua moglie Ginevra è morta anni addietro, e la sua figlia maggiore Maxine è fuggita dal regno per non finire in sposa al contemporaneamente ridicolo e crudele barone di Cumbria. Ora è la seconda figlia di Artù, l’ancor più piccola Ysabella, a dover occupare il posto inteso per la sorella maggiore e sposare il barone. Ma Ysabella non vuole sottostare a questo fato crudele e impostole contro la propria volontà, alla ricerca di Maxine e di una via di fuga da questa situazione. È questa la vera premessa del fumetto di Monde e Mathieu, autori di grandi esperienza nel mondo delle arti visive e fumettistiche, attraverso la quale il lettore viene accompagnato in una vera e propria “favola nera” che dietro dei bellissimi disegni stilizzati e che ricordano molto fumetti per bambini nasconde un regno di Pendragon oramai rovinato dalla demenza del Re, un regno povero e degradato dove Ysabella incontri personaggi sempre più strani eppure mai amici, ostili se non addirittura intenzionati a farle violenze tremende. Eppure, in questo scenario di miseria e crudeltà sembra esserci un alleato: la Spada magica di Re Artù. Stanca di essere manovrata dal senile re per compiti ridicoli, essa si accompagnerà alla ragazza per aiutarla nella sua missione – anche se, in questo mondo, niente è come sembra.  Questo fumetto portato in Italia da Tunuè ci regala una storia intrisa di cinismo e drammaticità, ma mai crudele o pesante per chi legge; grazie a un grande dinamismo, misto a una grande avventura e un po’ di sano humour nero che solo degli autori provenienti dai Paesi principi del fumetto d’autore mondiale possono darci, la storia scorre velocemente, appassionando il lettore con i suoi colpi di scena, alcuni forse prevedibili, altri decisamente no. I disegni di Burniat sono ricchi di personalità e riescono a dare grande vita a un mondo miserabile in cui vivono personaggi che sono alla costante ricerca di una speranza che sembra irraggiungibile.  Qualcuno potrebbe comprare questo fumetto pensando sia un qualcosa per bambini a giudicare dallo stile grafico, e potrebbe addirittura indignarsi ai contenuti al suo interno, ma non deve avere di che stupirsi. Anzi, nelle favole è sempre importante vi sia un orco per insegnare ai bambini che cosa è il male e come si può combatterlo e sconfiggerlo, anche quando esso appare insormontabile o asfissiante. Ysabella, in compagnia di una Spada e della propria testardaggine, dovrà fare fronte a minacce sempre maggiori e via via più grandi, ma affrontate con un solo scopo in mente: vivere una vita libera e felice, senza dover essere prigioniera dei capricci altrui. In tutto ciò la secondogenita di Re Artù questo dovrà guardarsi dal perfido Barone di Cumbria e dal di lui servo Claude, il quale appare più vicino a un homunculus che un essere umano, sulle sue tracce per motivi che la giovane non può nemmeno immaginare; dovrà guardarsi da un regno misero che lei non conosce e che non conosce lei, pronta a trattarla nei modi peggiori in quanto giovane ragazza; dovrà capire se fidarsi o meno di questa Spada che sembra tanto amichevole; e dovrà ritrovare la sorella maggiore Maxine, la quale potrebbe anch’ella non rivelarsi come Ysabella se l’era immaginata. E infine compiere una scelta drastica e radicale, che altererà non solo il proprio destino, ma quello del regno stesso e di tutti i suoi abitanti. Monde e Burniat, forse con lo stesso spirito con il quale Chrétien de Troyes creò il mito di Lancillotto amante di Ginevra, prima vera grande “macchia” francese all’interno del britannico Ciclo Arturiano, mettono su carta una rilettura del più famoso dei mondi cavallereschi dissacrante e spinta, che sorprende, inorridisce e appassionata sempre più con ogni pagina girata. Un mondo dove forse nessuno dei personaggi che seguiremo ha dei classici ideali eroici, ma ha comunque speranze che non lascerà schiacciare, a qualunque costo, dalla immonda crudeltà di chi vuole privarglieli con la violenza, impedendogli di vivere la vita che desiderano veramente.   L'articolo G.Monde, M. Burniat / Una nera favola arturiana proviene da Pulp Magazine.
David B. – Éric Lambé / Agli Antipodi
il colonialismo come evidenza del paradosso umano, dell’incomunicabilità sostanziale fra culture e individui, delle false certezze – concrete e mistiche – basate sul fraintendimento e sul preconcetto. Antipodi, il romanzo grafico di David B. e Éric Lambé arrivato in Italia per Coconino Press, racconta il perenne conflitto fra familiarità culturale e comprensione del diverso. Lo fa attraverso dialoghi brillanti, disegni dai toni piatti a pastello e una chiara nota di ironia diffusa, che pervade l’intero racconto ambientato nel Brasile del XVI secolo. La storia segue lo scontro-incontro tra i coloni europei e la tribù Tupinamba, in particolare attraverso le avventure di Nicolas, francese cattolico inviato a vivere tra gli “indigeni” per impararne la lingua. Salvato da una morte per cannibalismo grazie alle sue capacità canore, il giovane si integra fra i nativi e impara a connettersi con quel mondo di usanze e credenze così distanti, soprattutto per un europeo di fede cattolica. Il ritmo è vivace e si segmenta fra discussioni concitate e momenti di riflessione, lotte all’arma bianca e rituali di danza, fughe in barca al chiaro di luna e quotidianità del villaggio. Antipodi è un libro abbastanza bizzarro e fuori dall’ordinario, non solo per la tematica al centro della narrazione – il colonialismo nel Sud America di cinque secoli fa – ma anche per la reinvenzione del segno grafico, che attinge al contemporaneo come alle incisioni del Cinquecento, alla xilografia come all’estetica delle miniature medievali. Le linee sono nette, le campiture sono piatte, creando spesso degli splendidi contrasti fra eleganza formale e aspetto naïf. La satira e il tono ai limiti del grottesco caratterizzano l’impostazione generale del volume, ma a colpire sono proprio i volti caricaturali dei personaggi, quasi maschere teatrali, che si stagliano in primo piano su tinte terrose e verdi smaglianti. Le tavole più belle restano però quelle di ambientazione notturna, dove la profonda intensità dei blu incornicia sia i momenti più romantici sia quelli più spirituali. Le violenze, sebbene presenti e addirittura ricorrenti, sono edulcorate dall’uso dei retini e delle texture, che vanno a sovrapporsi alle campiture e in qualche modo avvicinano il lettore alla comprensione del concetto di vita e di lotta per gli indigeni Una favola amara, dunque, ma soprattutto straniante, che segue le tendenze più interessanti del fumetto francofono contemporaneo per creare racconti a cavallo fra presente e passato. Un’opera ibrida che narra eventi realmente accaduti (la spedizione di Villegagnon in Brasile del 1555, documentata dai resoconti di Jean de Léry) ma li filtra attraverso il proprio interesse per il fantastico e il surreale. Per David B. e Éric Lambé si tratta soprattutto di una prova d’antitesi rispetto al loro passato autoriale, un’unione che dimostra la versatilità espressiva dell’illustratore belga e le capacità di esploratore storico del fumettista francese. Sfuggendo agli schemi commerciali – dato che Antipodi non può certo dirsi un fumetto dal potenziale pop – questa storia si apre tanto ai toni leggeri che alle questioni di drammatica importanza, creando un prodotto editoriale originale ma anche radicato nella tradizione della bande dessinée d’autore. L'articolo David B. – Éric Lambé / Agli Antipodi proviene da Pulp Magazine.
Ana María Matute / L’infanzia inquietante
Ana Maria Matute nel risvolto di copertina racconta di non aver pensato all’inizio che I bambini tonti diventasse un vero libro: lo scriveva a frammenti, in luoghi diversi, su foglietti improvvisati, mentre attendeva il marito. Proprio lui raccolse quei pezzi sparsi, che altrimenti sarebbero andati perduti. Così, quasi per caso, nacque quello che Matute considera uno dei suoi libri più cari.  In effetti i ventitré racconti brevi di Ana María Matute sono delle pepite che risaltano nell’impaginazione inframezzata anche da qualche pagina bianca che sembra lasciata per sbaglio nella prima parte del libro edito da Canicola: piccoli lampi sull’infanzia, racconti scabri, inquietanti, refrattari a qualsiasi etichetta, che si collocano in una zona liminare, dove la crudeltà convive con la grazia e il mistero con la misera banalità quotidiana. A volte il racconto è solo un fermo immagine. La loro potenza sta proprio in questa indeterminatezza, in una scrittura che dice senza spiegare, che apre fenditure e slabbra ferite.  “E il giorno di Pasqua, quando il bambino dello straccivendolo si sedette alla tavola (…) vide, sopra la tavola, spellata, la testa del suo amico. Che lo guardava, per l’ultima volta, con quello sguardo che non aveva mai visto in nessun altro.” Con questo colpo di scena finisce L’agnellino di Pasqua una folgorazione che non viene spiegata né commentata ma che – ovviamente – confida nel lettore: chi legge deve saper cogliere da solo la crudeltà insita nella scena, deve intuire l’abisso che si apre tra la creatura bambino e il sadismo inconsapevole dei genitori. Fa venire in mente il povero bambino con le orecchie rosse maltrattato implacabilmente da Reiser nei suoi fumetti. Anche lì il lettore è messo di fronte a un meccanismo familiare spietato, dove l’infanzia diventa bersaglio della derisione, senza che l’autore si premuri di aggiungere spiegazioni.  È la stessa dinamica che troviamo nel celebre antecedente di Una modesta proposta di Jonathan Swift, dove l’autore suggeriva di cucinare i bambini irlandesi per sfamare i poveri.  Matute, Reiser, Swift – in modi diversi – si affidano alla complicità di chi legge. Non infantilizzano il lettore, non lo accompagnano con morali o spiegazioni rassicuranti. Lo pongono, piuttosto, davanti a un vuoto etico, scandaloso e rivelatore che obbliga a pensare, a provare disagio, a riconoscere la violenza implicita nelle strutture sociali e familiari – cosa che in media siamo abbastanza disponibili a fare – ma anche che esistono bambini tonti o addirittura bambini brutti e cattivi. L’infanzia non è solo una proiezione dei nostri pensieri e delle nostre cure, i bambini “Semplicemente non appartengono al mondo degli adulti”.  Parole di Ana Maria nell’intervista immaginaria che accompagna i racconti, costruita con frasi, interventi e scritti dell’autrice. È un’operazione che restituisce la voce dell’autrice, la sua visione dell’infanzia e della letteratura, e che dialoga: qui la finzione editoriale è uno strumento critico. Purtroppo, non altrettanto riuscita appare la seconda parte del volume, occupata dai contributi grafici prodotti in un laboratorio – fatto quando e dove non si sa – da vari autori. L’idea era quella di tradurre in fumetti l’universo dei racconti, ma il risultato delude: là dove Matute lascia in sospeso, evoca, disorienta, i fumetti tendono a spiegare, giustificare, addomesticare. Gli atti inspiegabili dei bambini diventano allegorie esplicite; l’infanzia, che per Matute è un mondo separato, ostile alle categorie adulte, viene ridotta a simbolo morale o pedagogico. È come se la radicale oscurità dei racconti fosse stata schiarita, smorzata, ricondotta a un senso condiviso. A questo si aggiunge una resa grafica che non aiuta: il tratto medio, la scelta quasi esclusiva di grigi spenti, l’assenza di segni davvero memorabili rendono i fumetti più simili a un esercizio scolastico che a un’opera compiuta. Viene da pensare che, se un laboratorio di narrazione produce un tale scarto rispetto alla forza originaria dei testi, la lezione sia proprio che non sempre la mediazione collettiva serve: i racconti di Matute parlano da soli, e con una potenza che nessuna illustrazione qui riesce a eguagliare. Scritti nel decennio dei Cinquanta, I bambini tonti mostrano un’infanzia che Matute libera da ogni cliché: non angeli né vittime, ma figure ambigue, crudeli, misteriose. È una libertà che rifletteva anche un sentire femminile in trasformazione, stanco di farsi carico dei bambini come destino inevitabile. Oggi, al contrario, la retorica dell’inclusività più superficiale e sciatta non sembra tollerare il “bambino cattivo” se non come vittima. Così si perde la possibilità di pensare l’infanzia come un mondo a sé, irriducibile all’innocenza o alla colpa. È questa libertà che i racconti di Matute illuminano con la loro forza scabra, e che i fumetti dell’edizione finiscono invece per addomesticare.  Ana María Matute (1925–2014) è stata una delle grandi narratrici spagnole del Novecento, considerata in Spagna una voce centrale della generazione dei “ragazzi della guerra” con riferimento alla guerra civile spagnola. I bambini tonti comparve in Italia per la prima volta nel 1964 per Lerici, in un’edizione accompagnata dalle tavole dell’artista e grafico Magdalo Mussio.  L'articolo Ana María Matute / L’infanzia inquietante proviene da Pulp Magazine.
Tom King / La nuova fattoria degli animali
Nel rifugio per animali Mansfield, la vita di Lucky è arrivata al capolinea. Tra pochi istanti uno dei guardiani verrà a prenderlo e lo porterà nella stanza denominata Abbattimento Animali. Il suo ultimo conforto è Fifi, una gattina che, tramite un buco fra le loro gabbie, riesce a parlargli. Proprio a lei Lucky affida il suo messaggio, le sue ultime parole che contengono il seme di una rivoluzione. Sull’onda emotiva del suo discorso, in parte motivazionale e in parte una sinistra profezia, Fifi coinvolge Titan, un altro cane impulsivo ma eroico in una rivoluzione che porta gli animali a cacciare gli umani e a prendere il controllo del rifugio. A quel punto cani, gatti e conigli fondano una nuova società in cui ognuno di loro dovrebbe essere libero. In teoria. Nella pratica i conflitti, le faziosità e i giochi di potere trasformano un’utopia in un sinistro regime autoritario capitanato da Piggy, un cane becero quanto carismatico, che trasforma il rifugio in un incubo febbrile che governa tramite un patto con quello che, fino al giorno prima, era il diavolo: gli esseri umani. Quando una storia diventa un classico, quando entra nel mito consegnandosi all’immaginario collettivo come patrimonio della cultura, una delle pratiche a cui si espone sono i retelling. Il mercato editoriale è pieno, per certi versi infestato, di opere che tornano sulle trame dei classici e le narrano di nuovo adattandole alla sensibilità contemporanea. Con risultati alterni, c’è da dirlo, perché per misurarsi con una storia che ha trasceso il tempo bisogna essere in grado di aggiungere qualcosa a una o più opere che potrebbero aver detto tutto. Una di queste storie è La fattoria degli animali, di George Orwell, rivisitata da Tom King con il suo Animal Pound. Certo l’impresa non è delle più semplici, la statura dell’autore di alcune opere imprescindibili del canone contemporaneo è immensa e questo suo libro, insieme a 1984, manipola archetipi profondi, forse contemporanei alla nascita della riflessione politica tout court. Ma King, forse il destino letterario è intuibile dal cognome, uno sprovveduto certo non è, sceneggiatore solido come pochi e caposaldo della scena fumettistica statunitense.  Per rendere l’idea del lento scivolamento verso un sinistro incubo di morte e oppressione, si potrebbe dire che nel rifugio Mansfield una rana abita insieme a cani, gatti e conigli. Non una rana vera, ma un anfibio metaforico, quello che fa il bagno nella pentola sui fornelli accesi e non si accorge che, poco per volta, sta bollendo viva. Certo, qualcuno tra i protagonisti sembra percepire che le cose poco a poco sfuggono di mano ma nessuno sembra voler agire, sono tutti troppo dubbiosi, troppo poco sicuri, troppo indecisi per agire. Ma soprattutto sono pochi. La massa segue il capo carismatico, la massa ragiona per slogan, la massa non ama il cambiamento e se gliela sfili da sotto i piedi un centimetro per volta, la libertà, non si dà troppa pena per difenderla perché lottare è rischioso, è faticoso, e fintanto che chi finisce sbranato in un cespuglio non è uno dei tuoi non penseresti nemmeno che qualcosa possa accadere a te. Sono i conigli, i più deboli, a farne le spese almeno inizialmente e non a caso sono diffidenti, perché quando non hai zanne, artigli o muscoli poderosi la tua paura è tutto quel che hai per sopravvivere, o quantomeno per provarci. Il nucleo della storia, la riflessione di fondo, rimane quella di Orwell la cui integrità non risente del trasporto in un’epoca contemporanea che si rivela tristemente adatta a recepirne il senso. Piggy è il leader carismatico contemporaneo. Volgare, rumoroso e con una forte connessione agli istinti più bassi, è il borghesotto che in tutta la sua miseria flirta con le lusinghe della seduzione autoritaria espressa con un messaggio terra terra, tanto comprensibile che non può non farti sentire intelligente anche se non lo sei, un gaslighting costante che capisci senza sforzo, o almeno così ti sembra, e a quel punto accetti la trasformazione del mondo intorno a te in tutto ciò da cui le cassandre provano ad avvertirti ma tu non le ascolti, perché il loro messaggio non è confortante.  Animal Pound è l’opera di uno sceneggiatore di thriller solido e padrone del mezzo che stacca verso la profondità nel realizzare un fumetto politico inquietante nella propria attualità, una rilettura che riesce a rendere attuale una storia senza tempo. L'articolo Tom King / La nuova fattoria degli animali proviene da Pulp Magazine.
Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima
”Riposate in pace perché noi non ripeteremo il male” (Asurakani nemutte kudasai. Ayamachi wa kurikaeshimasenkara). Questa frase è incisa sul Memoriale della Bomba di Hiroshima, luogo di ritrovo ogni anno per migliaia di giapponesi per non dimenticare. È significativo ricordare che il sito è patrimonio dell’UNESCO solo dal 1996 per una decisione presa con opposizione degli USA e l’astensione della Cina. Al suo interno è racchiuso un registro con i nomi di tutte le vittime dell’esplosione atomica. Quest’anno cade un triste anniversario, sono infatti trascorsi ottant’anni dallo sgancio delle due bombe atomiche ma facciamo un ripasso di storia.  Sono le 8.15 del 6 agosto 1945 e gli Stati Uniti sganciano la prima bomba atomica su Hiroshima, la seconda esplosione avverrà solo qualche giorno dopo, il 9 agosto e la città prescelta stavolta sarà Nagasaki. La seconda guerra mondiale è agli sgoccioli e il Giappone è al collasso. Le conseguenze sono devastanti: esseri che un tempo erano persone camminano come ombre mentre la loro pelle si scioglie letteralmente a causa del fallout radioattivo e una sete folle li coglie. Con una potenza di sedici chilotoni Little Boy, il primo ordigno nucleare, spazza via in pochi minuti oltre ottantamila giapponesi lasciando sconvolta nel profondo l’intera nazione.  Tra i pochi sopravvissuti c’è Keiji Nakazawa che all’epoca ha sei anni e che nell’esplosione perde parte della famiglia. Da questa terribile esperienza nasce la sua opera principale Gen di Hiroshima (Hadashi no Gen letteralmente Gen a piedi nudi). Il protagonista è un bambino di sei anni nato e cresciuto a Hiroshima che nell’esplosione perde gran parte della famiglia. Decisamente autobiografico non trovate? Ma la sua rabbia per quanto successo e per le conseguenze della bomba – le radiazioni colpiranno intere generazioni negli anni a seguire provocando malformazioni, tumori e leucemie – è presente e caratterizza tutti i suoi manga, incluso Colpiti da una pioggia nera.  Gli A-bomb manga, così vengono definiti, raggiungono il loro apice quantitativo negli anni che vanno dal 1954 al 1973, anche in relazione ad un incidente del marzo del ’54 in cui una nave da pesca giapponese fu contaminata dalle ricadute radioattive di un test nucleare statunitense sull’atollo Bikini (un episodio espressamente richiamato anche nel primo Godzilla di Ishirō Honda, dello stesso anno).  La bomba atomica viene esplicitamente rappresentata e raccontata nei fumetti come una sovrastante minaccia per la specie umana:  oltre settanta opere pubblicate in questo arco di tempo definiscono l’età dell’oro degli A-bomb.  La figura dell’hibakusha – come vengono chiamati i sopravvissuti alla duplice esplosione nucleare – diventa lo spunto narrativo anche di questa antologia di Nakazawa. Al centro di tutti i racconti, come “non persone” sono disprezzati dagli altri giapponesi e spinti ai margini della società senza un sostegno economico per le malformazioni con cui sono costretti a vivere. Rifiutati perché persino i loro figli generano bambini malati, gli hibakusha sono sfruttati e maltrattati anche dagli americani,  arrivati dopo l’esplosione per studiare in loco gli effetti delle radiazioni sui loro corpi, e dimenticati dall’imperatore a cui hanno dato tutto.  In queste storie, ambientate alla fine degli anni Sessanta, Nakazawa sottolinea però oltre all’indicibile sofferenza provata, anche la forza di un popolo che, nonostante tutto, ha voglia di vivere e andare avanti. Se è palese l’odio nei confronti di coloro che hanno organizzato questa crudele ecatombe, gli americani, l’autore evidenzia anche l’insensatezza di una guerra che ha portato solo povertà ad un popolo ora in ginocchio. Una guerra che ha cambiato per sempre il volto e il modo di pensare del Giappone, mischiando due culture opposte, quella occidentale e quella orientale, portando quest’ultima sulla rotta del capitalismo.  “Noi che avevamo assistito e avevamo subito il bombardamento  sulla nostra pelle non trovavamo le parole. Ascoltandoci a vicenda, scoprimmo che ciascuna delle nostre esperienze personali non era che un frammento minuscolo di un affresco dell’enorme catastrofe. Se il racconto orale fosse rimasto l’unica comunicazione, nel tempo quei fatti reali sarebbero stati persi o distorti. Per le generazioni future, volevo un resoconto fatto di parole scritte dagli hibakusha.” Un’interessante postfazione completa il volume approfondendo l’argomento della bomba e arricchendolo con notizie e nozioni storiche, come ad esempio il discorso sopra citato del sindaco di Hiroshima Hamai Shinzò (in carica dal 1947 al 1955 e poi dal 1959 fino al 1967) che si fa promotore di un archivio di shuki,  ovvero di appunti e di memorie e di kiroku,  le cronache dei sopravvissuti della sua città. Paolo La Marca ci racconta invece un po’ nel dettaglio la storia della letteratura giapponese sull’atomica. Keiji Nakazawa è un sopravvissuto. La bomba cade a 1,2 km da dove si trova e si salva per miracolo ma il prezzo da pagare per lui è molto alto. Perde il padre, il fratello minore e la sorella maggiore. Nel 1955 lavora presso la bottega di un artigiano di insegne e disegna fumetti da autodidatta, ma è nel 1961 quando si trasferisce a Tokyo, dove lavora come assistente di un mangaka, che la sua vita professionale vive una svolta. Colpiti da una pioggia nera vede la luce nel 1968 suscitando reazioni fortissime mentre nel 1973 comincia la serializzazione di Gen di Hiroshima sulla rivista settimanale “Shukan Shonen Jump” che riscuote enorme successo sia tra i ragazzi che tra gli adulti, diventando un best e un long seller tradotto in tutto il mondo oltre a ispirare un film animato e una serie televisiva live action. Nakazawa ci ha lasciato nel dicembre del 2012. L'articolo Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima proviene da Pulp Magazine.
Massimo Carnevale / L’incubo di un tempo di mezzo
In una metropoli futura dove la pioggia martella costantemente l’asfalto dei palazzi che chiudono il cielo in una presa asfissiante, il senzatetto Thomas Frears viene investito da due criminali in fuga. Un’ambulanza lo raccoglie in tempo ma ciò non significa per lui buone notizie. Non è il pronto soccorso la sua destinazione, ma un laboratorio in cui il suo corpo sarà impiegato per ospitare il dottor Saroyan, uno degli scienziati più brillanti al mondo, attualmente in fin di vita. Peccato che il dottore, per rimandare la sua morte fino a quel momento, si iniettasse un composto a base di DNA di topo. Ciò fa sì che il corpo di Frears, che contiene la sua coscienza insieme a quella di Saroyan, si trasformi in un ibrido umano-animale che si lancia in una fuga disperata inseguito da vigilantes e polizia. I due dovranno sopravvivere nonostante tutto in un mondo dove per loro sembra non esserci posto. Massimo Carnevale e Lorenzo Bartoli sono due nomi illustri del fumetto italiano. Il primo, dopo una carriera su riviste storiche come Skorpio, Lanciostory e Martin Hel, si è fatto un nome oltre oceano lavorando per marchi come Vertigo e Darkhorse disegnando per Y: L’ultimo uomo, Northlanders e tanto altro. Il compianto Lorenzo Bartoli, dal canto suo, ha creato serie di successo come Arthur King, Detective Dante e John Doe. L’arte di Massimo Carnevale vol.1 – Uomini e Topi, è un corposo volume che raccoglie, insieme alla serie che gli dà il titolo, la miniserie Il dono di Eric, la storia di un homeless (e qui cominciamo a vedere una certa ricorsività) con un dono che lui chiama shining, una forma di psicometria che gli permette di vedere il passato e talvolta il futuro delle persone collegate agli oggetti che tocca. Chiudono il volume un gruppo di racconti autoconclusivi. Le due miniserie presentano una forte unità in termini sia tematici sia stilistici. Entrambe hanno come protagonisti persone emarginate, in qualche modo rifiutate dalla società che viene rappresentata con una critica tagliente, frontale e senza sconti. La città futuribile di Uomini e Topi è il classico incubo cyberpunk costantemente annegato dalla pioggia e dal cemento in cui gli interessi dei più forti vengono perseguiti con ogni mezzo a disposizione e il solo fatto di manifestare un minimo di umanità è un atto di ribellione. La scrittura di Bartoli è struggente senza esser mai melodrammatica, restituisce al lettore tutto il dolore della vita senza perdersi in esagerazioni teatrali di cui non ce n’è bisogno perché basta mescolare un po’ di lucidità all’immaginario per rendere perfettamente tutta la crudeltà di cui la vita è capace. Anche l’amore, la cura e l’umanità come forma di resistenza vengono raccontate senza nulla di smielato, solo come il rifiuto che tutto possa essere semplicemente freddo e senza pietà, come unica plausibile via se non di salvezza quanto meno di sopravvivenza insieme. Visivamente il volume è impressionante e non si fa fatica a capire perché Massimo Carnevale ora lavori negli USA. Le sue tavole prendono le mosse da grandi maestri e ne mettono a frutto le lezioni. Ricordano il tratto graffiato di Bill Sienkiewicz, la tridimensionalità materica di Dave McKean e l’uso della luce violento e realistico di John J. Muth. Il risultato è il contraltare visuale dei testi di Bartoli, un mondo narrativo cupo in cui la vita prova a trovare la sua strada e lo fa con un vigore violento, fatto di strappi rappresentati dai tagli netti di luce che rischiarano di colpo gli ambienti bui dipinti da Carnevale che utilizza il colore in maniera complementare alla sceneggiatura, in ottemperanza a una concezione di fumetto come arte sinergica e totale in cui diverse discipline concorrono alla realizzazione di una fusione che è maggiore della semplice somma delle parti. Uomini e Topi è il fumetto di un tempo di mezzo, che aveva già cassato le speranze in una società futura giusta ma ancora aveva gli strumenti per esprimere quella rabbia nichilista tutta cyberpunk che piano piano, nel presente, sembra scemare ogni giorno che passa. L'articolo Massimo Carnevale / L’incubo di un tempo di mezzo proviene da Pulp Magazine.