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“Ferite di confine: la nuova fase del modello Albania” in diretta dalla Camera dei Deputati
Martedì 29 luglio alle ore 16:00, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati (via della Missione 4, Roma), si è tenuta la conferenza stampa di presentazione del nuovo rapporto “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania”, frutto delle visite di monitoraggio svolte da membri di organizzazioni della società civile, principalmente italiane, con il supporto del Gruppo di contatto del Parlamento Italiano e del Parlamento Europeo nel centro di detenzione per migranti di Gjadër, nel nord dell’Albania. Il report, curato dal “Tavolo Asilo e Immigrazione”, ha lo scopo di approfondire e fornire aggiornamenti in continuità con quanto già documentato nel precedente dossier “Oltre la frontiera. L’accordo Italia-Albania e la sospensione dei diritti”, presentato lo scorso 25 febbraio 2025 e basato questa volta sulle evidenze raccolte nel corso delle sei missioni realizzate nel periodo aprile – luglio 2025 in collaborazione con parlamentari europei e italiani. Se nella prima fase l’attenzione era concentrata sul trasferimento forzato in Albania dei richiedenti asilo intercettati in mare provenienti da Paesi considerati “sicuri” dal governo italiano, oggi lo scenario è mutato radicalmente e comprende scenari più ampi, non da ultimo le recenti decisioni sui “Return Hubs” e sulla replica seriale di accordi sul modello dell’accordo Rama-Meloni che istituisce i centri per procedere all’esame delle richieste d’asilo al di fuori dell’UE, come confermato lo scorso 22 luglio dalla riunione dei Ministri degli Interni dei 27 Stati Membri dell’Unione Europea. Quest’ultima è stata organizzata dalla Presidenza danese del Consiglio dell’UE, che ha anticipato già da mesi l’intenzione di procedere verso restrizioni sempre piu dure sotto la guida di Mette Frederiksen e soprattutto sulla presa in carico del processo di revisione dell’approccio alla provenienza dai “Paesi sicuri”. rispetto alla quale l’implementazione dell’accordo Rama-Meloni ha già fornito un rilevante, ed estremamente preoccupante, campo di sperimentazione. Un nuovo assetto operativo Da aprile 2025 il governo italiano ha introdotto un nuovo dispositivo, ovvero la deportazione verso il centro di Gjadër di persone già trattenute nei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio) sul territorio italiano. Si tratta di una forma di detenzione amministrativa transnazionale, opaca e potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali, che istituzionalizza l’esternalizzazione contestata per molti anni, ma ora pienamente in fase di completamento del rodaggio e ulteriore emulazione da parte degli Stati Membri e della stessa Unione Europea. Il deterioramento del sistema di protezione dei diritti umani e la tutela dello stesso diritto di asilo sono questioni di crescente preoccupazione, come confermato dai molteplici casi di violazione e dalle gravi criticità emerse durante le visite sul campo condotte dal Tavolo Asilo e Immigrazione. Con il decreto-legge n. 37/2025, l’esecutivo ha cercato di rilanciare un protocollo già in difficoltà, spostando in Albania migranti trattenuti nei CPR italiani – spesso per il solo motivo di contare unicamente su un documento scaduto – senza fornire motivazioni credibili. L’operazione è stata messa in atto con una massiccia presenza di forze dell’ordine: due agenti per ogni persona migrante, ammanettata e scortata per esigenze più mediatiche e di amplificazione della propaganda legata alla stessa apertura dei centri in Albania che di reale sicurezza. Una deriva pericolosa ed estremamente costosa per l’Europa intera Questo nuovo rapporto si propone di documentare con rigore l’evoluzione organizzativa e giuridica del “modello Albania”, le condizioni materiali e sanitarie all’interno del centro di Gjadër e gli effetti sistemici su diritti, garanzie individuali e ordinamento democratico. Al centro dell’analisi vi sono la mancanza di trasparenza procedurale, la compressione delle garanzie giuridiche e la pressoché totale elusione del controllo giurisdizionale. Il risultato è la creazione di uno spazio di eccezione al di fuori del territorio nazionale, ma pienamente sotto responsabilità italiana. Oltre alle violazioni dei diritti, l’esperimento in Albania si sta rivelando un fallimento anche sotto il profilo economico. L’inchiesta condotta dai giornalisti James Imam, Vladimir Karaj e Ada Homolová per la piattaforma internazionale Follow the Money e pubblicata un mese fa, il 26 giugno 2025, aveva rivelato che ogni posto letto nel nuovo centro albanese è costato al contribuente non meno di 72.461 euro, dunque ben oltre dieci volte il costo di una struttura analoga in Italia. I dati diffusi dalla sezione italiana della ONG ActionAid e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari nel rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” ancor più recentemente, il 24 luglio scorso, sono ancora più inquietanti e dimostrano come siano stati spesi con disinvoltura 114.000 euro al giorno per soli cinque giorni di effettiva operatività del centro di Gjadër tra ottobre e dicembre 2024. La cifra pagata dalla Prefettura di Roma all’ente gestore Medihospes risulta corrispondente a 570.000 euro totali pagati, suddivisi in 153.000 euro per allestire un singolo posto letto, contro i 21.000 euro del centro CTRA di Porto Empedocle, in Sicilia. A fine marzo 2025 risultavano costruiti 400 posti tra Gjadër e Shëngjin, realizzati con affidamenti diretti per mantenere in moto una macchina distruttiva volta principalmente a brucia denaro pubblico, alimentata da una logica repressiva brutale oltre che totalmente inefficace e volta a indebolire ulteriormente lo stato di diritto e la gestione responsabile delle risorse. Sempre secondo i dati raccolti nel rapporto curato da ActionAid e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, l’operazione Albania è il più costoso, inutile e inumano strumento della storia delle politiche migratorie italiane. I rimpatri, del resto, sono ai minimi storici, mentre cresce il numero delle persone trattenute per mesi senza prospettiva né tutela. Sulla piattaforma “Trattenuti”, legata al lavoro del rapporto, sono ora disponibili i dati inediti su tutti i 14 centri attivi in Italia e su quello operativo in Albania, inclusi gli episodi di rivolte, atti autolesionistici e altri eventi critici che rappresentano segni tangibili del costo umano di tali politiche, oltre all’evidente spreco di ingenti risorse pubbliche. Nel quadro più ampio del Patto europeo su migrazione e asilo, che entrerà in vigore a giugno 2026, il cosiddetto “modello Albania” rischia dunque di trasformarsi da esperimento isolato a procedura esportabile per tutta l’Unione Europea, anche in linea con le estensioni di matrice statunitense esibite negli ultimi giorni dall’Amministrazione Trump. Si tratta di una prospettiva allarmante denunciata da più parti, nel solco della quale il diritto d’asilo come garantito dal diritto internazionale viene di fatto svuotato, mentre i valori fondativi dell’UE come sanciti dall’articolo 2 (sia del Trattato dell’Unione Europea sia della Costituzione italiana) vengono sistematicamente erosi. Durante la conferenza stampa, trasmessa anche in modalità streaming dalla piattaforma ufficiale della Camera dei Deputati, a tutte le persone partecipanti è stato distribuito il testo del rapporto, che è disponibile anche al seguente link: “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania” (Luglio 2025)   Anna Lodeserto
Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, in dieci anni 28.000 vittime nel Mediterraneo
Il Mediterraneo centrale si conferma la rotta migratoria più letale al mondo, con migliaia di persone che ogni anno rischiano la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), come si legge nel nuovo report interattivo “Missing Migrants and Countries in Crisis”, dal 2014 ad oggi sono morte o scomparse oltre 28mila persone nel “mare nostrum”, di cui la maggior parte proprio nel tratto che separa la Libia dall’Italia, ovvero il Mediterraneo centrale. La risposta? Uno sforzo coordinato e umanitario, secondo gli esperti dell’agenzia delle Nazioni Unite. Cause di morte delle persone in movimento in tutto il mondo: più della metà annegano I numeri della tragedia: oltre 28mila vittime del Mediterraneo centrale Il report IOM evidenzia che dal 2014 ad oggi sono state registrati oltre 28mila tra morti e dispersi lungo le principali rotte migratorie verso l’Europa. Di questi, oltre 20mila decessi sono avvenuti nel Mediterraneo centrale, la rotta più letale al mondo. Solo nel 2023, oltre 2.500 persone sono morte nel tentativo di attraversare il mare, un dato che sottolinea come la situazione stia peggiorando anno dopo anno. Questi numeri, purtroppo, sono destinati a essere sottostimati, in quanto non tutti i naufragi vengono registrati, a causa dell’impossibilità del monitoraggio delle acque e della mancanza di un sistema di soccorso efficiente. La tragica realtà è che molte persone muoiono non a causa delle difficoltà del viaggio, ma a causa dell’assenza di soccorsi in tempo utile. Centinaia, anche migliaia potrebbero essere i “naufragi invisibili”, di cui non si ha alcuna notizia. I numeri, dice l’OIM, sono “immensamente sottostimati”. Luoghi dove muoiono le persone in movimento: al primo posto c’è la Libia Le cause principali della migrazione: guerre, povertà e disastri climatici Oltre ai numeri, il report esplora anche le cause profonde che spingono le persone a intraprendere viaggi così pericolosi. Conflitti armati, instabilità politica e disastri climatici sono tra i fattori principali. Paesi come la Libia, il Sudan, lo Yemen e l’Afghanistan sono i principali Paesi di origine per i migranti diretti verso l’Europa, ma anche le difficoltà economiche e le carestie in Africa sub-sahariana stanno accelerando l’emigrazione. L’IOM sottolinea che i migranti sono sempre più vulnerabili, con migliaia di persone costrette a fuggire da conflitti e violazioni dei diritti umani, senza alcuna garanzia di protezione lungo il loro cammino. Conclusioni: la necessità di un soccorso in mare coordinato e di vie legali per i migranti Il report dell’IOM si conclude con un appello agli Stati per garantire la sicurezza delle persone in transito, nel rispetto degli obblighi internazionali. L’assenza di vie legali sicure per l’ingresso in Europa è – secondo l’OIM – un fattore che costringe i migranti a rischiare la vita attraversando rotte pericolose e affidandosi ai trafficanti. L’IOM richiede anche una risposta più umanitaria e coordinata da parte degli Stati, con l’obiettivo di proteggere i migranti e salvare vite umane. Taurino: “Nel Mediterraneo le Ong sono l’unica risposta umanitaria a una crisi senza fine” “Sono le Ong come SOS MEDITERRANEE a colmare il vuoto colpevolmente lasciato dagli Stati, e il report dell’Oim implicitamente lo conferma” – dichiara Valeria Taurino, direttrice generale di SOS MEDITERRANEE Italia. “Da anni denunciamo la mancanza di coordinamento e il vuoto di soccorsi con cui gli Stati europei e l’Italia, volutamente, creano una barriera e una cortina di silenzio, venendo meno agli obblighi dettati dal diritto marittimo internazionale ma, prima ancora, dai doveri di umanità”. “Purtroppo – continua Taurino – sappiamo già che questo report sarà ignorato da una classe dirigente europea che ha deciso di farsi sorda al grido che proviene dal nostro mare, ma ci auguriamo che questo dolore sia invece ascoltato da sempre più persone nella società civile che rifiutano di perdere la propria umanità”. Redazione Italia