Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana SgrenaDalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la
riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità.
Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in
diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di
quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni:
sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse,
polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali.
Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la
manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione
trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio
Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali
dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà
colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate
con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si
inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo
frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco»,
ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca
del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben
descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società
moderne.
Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre
strumenti fondamentali per comprendere il presente.
Di seguito, la conversazione integrale.
INTERVISTA A GIULIANA SGRENA
«Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più
potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar
Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde?
La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco
dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire
qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero.
Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare
conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile
difendersi e accedere a informazioni sicure?
Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è
sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si
è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista
portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda
potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq.
«La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani
durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda
edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa
affermazione?
Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e
falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo
Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni,
alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le
guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo.
Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai
bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins
non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche
senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una
falsa didascalia.
Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a
discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del
social?
I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare
solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I
social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i
giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così
possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo
sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto
Trump.
Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo
superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di
passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle
loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta
così dannosa?
Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura
patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è
andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi
commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle
Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il
Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione.
Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del
giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni
che questo tipo di inchieste avrebbero comportato?
Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di
fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o
manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di
essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in
alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che
condividono le mie critiche.
Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di
condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che
cercano di reagire ai loro carnefici?
Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono
proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre
evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che
hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case
chiuse.
Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād
islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata
trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa
è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno?
Preferirei non rispondere a questa domanda.
Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un
impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore
informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni,
denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un
atto di responsabilità collettiva.
Lucia Montanaro