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Politiche abitative pubbliche: nemmeno questa è la volta buona
Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera dei Deputati ed esponente di Fratelli d’Italia, con un editoriale sulla pagina romana de Il Tempo decide di attaccare frontalmente quelli che definisce “fantomatici Movimenti per il Diritto all’Abitare”. Agitando accuse infamanti (e non comprovate in alcuna sede), Rampelli cavalca il vecchio adagio di far […] L'articolo Politiche abitative pubbliche: nemmeno questa è la volta buona su Contropiano.
Il clima politico attorno all’operazione contro il Movimento per l’abitare romano
Martedì abbiamo dato la notizia della perquisizione per mano dei Carabinieri contro otto attivisti e attiviste del Movimento per il diritto all’abitare di Roma, finiti sotto indagine della Procura di Roma per il cosiddetto “racket delle occupazioni”. L’accusa è di estorsione di somme variabili tra i 3€ e i 5€ mensili per nucleo familiare […] L'articolo Il clima politico attorno all’operazione contro il Movimento per l’abitare romano su Contropiano.
“GUERRA ALLA GUERRA”, ASSEMBLEA DEI MOVIMENTI: LANCIATA PER L’8 NOVEMBRE UNA MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA
E’ iniziata con le parole di Nicoletta Dosio, storica attivista della Val di Susa, l’assemblea nazionale “Guerra alla Guerra”, svoltasi domenica 27 luglio durante il Festival Alta Felicità al presidio di Venaus, Torino. Davanti a una platea di oltre 300 persone, riunitasi sotto il tendone dei dibattiti, si è svolta dunque una lunga assemblea nazionale contro guerra e riarmo, ospitata dal Movimento valsusino e che ha visto la partecipazione di decine tra collettivi, realtà, sindacati di base e partiti. E’ necessario “mettere insieme le ragioni della lotta con le pratiche della lotta“, ha ricordato in primis Nicoletta Dosio, sottolineando come – nella lunga e decennale storia del Movimento Notav – “la pratica della lotta è riuscita a mettere insieme idee diverse, modi diversi di approcciarsi alla realtà, ed è riuscita a farli crescere insieme”. “Guerra alla Guerra” è in realtà il titolo di un libro pubblicato ormai 100 anni fa da un cittadino prussiano, Ernest Friedrich. Reduce dal carcere per essersi rifiutato di partecipare al primo conflitto mondiale, ha dato alle stampe Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra), in cui raccolta con oltre 180 immagini della Prima guerra mondiale tratte da archivi medici e militari tedeschi, cos’erano gli orrori della guerra, cosa era accaduto nelle trincee e nei campi di combattimento. Il nostro tempo ha imposto di recuperare questo slogan (ripreso poi, a vario titolo, nei conflitti del ‘900) e il suo rifiuto nei confronti di un mondo che sta alzando sempre più muri spinati, che sta trasformando le proprie economie, armandosi, arruolando. Da qui l’idea – partendo dall’assemblea di domenica – di costruire (come scritto nel comunicato di indizione) un percorso contro la guerra, il riarmo e il genocidio in Palestina. Durante l’apertura è stata ricordata la solidarietà all’equipaggio della nave Handala della Freedom Flotilla, arrestato la notte precedente dall’esercito israeliano, ed è stata salutata la liberazione di George Ibrahim Abdallah, attivista libanese detenuto in Francia per 40 anni. E’ intervenuto poi Quarticciolo Ribelle, da Roma, che ha sottolineato l’importanza di parlare il più possibile alla società civile e non solo “a noi stessi”, intesi come collettivi, realtà, movimenti. Durante l’assemblea si sono susseguiti numerosi interventi da parte delle realtà organizzate presenti: il movimento No Base di Pisa, contro la realizzazione di una nuova base militare sul territorio; i Giovani palestinesi, l’Intifada studentesca, l’Udap, tra le realtà che hanno dato vita a un ampio movimento per la Palestina in Italia e che hanno ricordato l’appuntamento nazionale del 4 ottobre; i lavoratori portuali di Livorno dei GAP e gli operai del collettivo di fabbrica Gkn da Firenze che ha chiuso l’intervento con la frase emblematica “questo autunno compatti: non sfilacciati ma convergenti”, per riprendere il loro storico slogan. Hanno fatto seguito gli interventi delle realtà transfemministe di Non Una di Meno dei Nodi di Torino e Pisa; il Movimento disoccupati 7 novemebre da Bagnoli; il movimento Notav di Vicenza e i Boschi recentemente liberati dalla città veneta; e poi ancora: Extinction Rebellion, la campagna Stop Riarmo, l’Arci nazionale in un forte e sentito intervento che ha parlato della mobilitazione europea Stop Rearm Europe, i Centri sociali del nord est e la rete No dl sicurezza che ha ricordato l’appuntamento del 21 settembre, Potere al Popolo, Reset di Roma, Zam di Milano, operai della Tubiflex, Brancaleone, Usb, Movimenti di lotta per la casa di Roma, Militant. Una lunga e fitta assemblea che, con le dovute differenze e defezioni, ha fatto emergere che se c’è una profonda e diffusa “ragione di lotta” – come sottolineato da Nicoletta Dosio a inizio assemblea – si può partire da una base comune: in primis “l’importanza di muoversi per sabotare la guerra”. Per questo è stata individuata nell’8 novembre la data di mobilitazione nazionale a Roma. L’intervento di Nicoletta Dosio, del Movimento Notav, a inizio assemblea. Ascolta o scarica. Il report di Giulia della redazione di Radio Onda d’Urto dall’assemblea “Guerra alla Guerra”. Ascolta o scarica.
Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale»
Una gruppo di soggetti diversi ha lanciato la proposta di una assemblea nazionale a Venaus il 27 luglio, dal nome “Guerra alla guerra” nell’ambito del tradizionale Festival ad Alta Felicità. Abbiamo intervistato un gruppo di compagnx che hanno scritto il documento di invito per comprendere quali analisi abbiano portato alla convocazione di quella assemblea e quali prospettive immaginino per l’autunno. Qual è stato il percorso che vi ha portat3 a scrivere il documento “Guerra alla guerra” e a convocare l’assemblea in Valsusa per il 27 luglio? L’idea di convocare l’assemblea in Valsusa del 27 luglio è nata all’interno di un dibattito che va avanti da mesi fra i collettivi studenteschi che nelle università, da Cosenza a Torino, da Milano a Roma, hanno animato le intifada studentesche, fra le realtà politiche che si muovono all’interno delle periferie, come quella del Quarticciolo, fra chi fa lavoro politico nelle battaglie territoriali contro le grandi opere e costruisce forme di rifiuto della guerra nelle metropoli lungo tutta la penisola. Ma lo spazio che abbiamo immaginato vuole essere di tutt3 non solo di chi ha pensato di convocare l’assemblea. Vuole essere uno spazio di incontro dove esplicitare degli interrogativi collettivi che in questa fase di accelerazioni internazionali spesso non trovano spazio e tempo per essere dibattuti. Non ce lo nascondiamo. Sarà un incontro tra militanti di organizzazioni politiche. Da questo punto di vista è piuttosto un momento che proverà a individuare le domande giuste e condivise per aprire un percorso più che presentare una ricetta per far fronte all’impotenza collettiva dell’escalation della guerra. Non vogliamo rappresentare la paura che ci assale quando pensiamo allo stato di guerra interna ed esterna ai nostri paesi, non vogliamo rappresentare un movimento e un conflitto che non c’è, non vogliamo essere mossi solo dall’urgenza di cambiare le cose in questa fase storica. L’urgenza/l’emergenza sembra essere una costante da diverso tempo ed è il dispositivo tramite il quale vengono applicate leggi di austerità o che aumentano il controllo sulle persone e i territori. Non vogliamo neanche sostituirci a tutte quelle forze più o meno organizzate che hanno, finora, creato degli spazi di dibattito e mobilitazione contro il riarmo dell’Italia e dell’Europa. > Vogliamo innescare – a partire dalle lotte significative, per quanto parziali, > esistenti oggi in vari territori – un processo di convergenza che metta a > disposizione le capacità e i saperi accumulati per stimolare la partecipazione > collettiva. Come si fa e con quali strumenti a innescare un dibattito pubblico sulla guerra? Quale ruolo possiamo avere noi – collocandoci in un Paese occidentale che è complice e artefice dei conflitti internazionali – nel fermare la guerra e chi produce armi e accumula profitti sulla guerra? E quindi – perché non si può pensare all’uno senza l’altro – come mettere in discussione il capitalismo e le democrazie al suo servizio? Sembra sotteso al vostro documento la necessità di allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico, ma sente l’urgenza oggi di agire contro la guerra. Come si possono raggiungere queste persone oggi? Con quali strumenti e quali linguaggi? Evitando quali errori del passato? È proprio questo il nodo ma parlare di errori forse è fuorviante. Spesso riproduciamo schemi e proposte che non sono all’altezza della fase storica. Proponiamo ritualità. Se vogliamo essere del tutto onesti anche l’assemblea convocata in Val di Susa potrebbe sembrare una ritualità ma siamo felici di venire accolte e accolti nella valle che resiste, una lotta simbolo che appartiene a tutti e tutte, così di lunga durata che è attraversata da giovani e meno giovani, che ci ha insegnato come metodo la condivisione di un obiettivo comune. Inoltre, è anche l’emblema della guerra a bassa intensità che lo Stato porta avanti sui territori “sacrificabili”. Nonostante la documentata inutilità dell’opera, quello che si vuole piegare è la forza che autorganizza un territorio e che vuole decidere del destino delle montagne e della salute di chi vi abita. Pensiamo ci sia bisogno, quindi, non solo di approfondire un dibattito ma di condividere un metodo. Il paese è cambiato profondamente nel giro di non troppo tempo e quando parliamo di fascistizzazione della società non ci riferiamo solo all’azione politica dell’estrema destra di Governo. Ci riferiamo al fatto che la società civile nell’ipermodernità ha posizione conservatrici, oscurantiste, dietrologiche e la ragione principale di questa postura è che è aumentata vertiginosamente la competizione, l’individualismo, il carrierismo, il consumo di merci e affetti: l’effetto sulle nostre vite del capitalismo avanzato. Eventi tragici così come la pandemia da Covid-19 e il genocidio in Palestina hanno spezzato questa quotidianità e molte persone si chiedono qual è lo scopo della loro messa a valore, per quale motivo, per quale paese e quale società si svegliano la mattina per andare a farsi sfruttare. Per molti, la reazione subito dopo la pandemia è stata quella di fuoriuscire dal mercato del lavoro classico per unirsi a spazi di mutuo aiuto, ad associazioni di solidarietà, per lavorare in organizzazioni internazionali umanitarie, nelle file del cattolicesimo di base. È una militanza anche questa per certi versi. Anche qui la domanda non è «come si fa ad allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico», perché capiamo il senso ma in parte pecca di presunzione. La domanda è come si fa a individuare un orizzonte comune con le migliaia di persone che già si mobilitano nelle forme e nei luoghi diversi da quelli che attraversiamo noi nelle nostre nicchie residuali. In tanti decidono di mettere a disposizione le proprie capacità là dove hanno la sensazione di poter incidere sul reale. Le mobilitazioni classiche che proponiamo non hanno questo tipo di appeal ormai, questo non vuol dire che non siano necessarie. In questo senso pensiamo che il metodo utilizzato dalle student3 universitari3 sia da approfondire. Mettere in discussione l’utilizzo delle risorse pubbliche per finanziare la ricerca per le industrie delle armi ci sembra una delle poche azioni incisive a sostegno della Palestina che si sono manifestate durante l’anno. Moltissime università hanno aderito al boicottaggio (quindi è stata una lotta riproducibile); molte facoltà hanno deciso di chiudere i rapporti con le università israeliane (è stata una lotta vincente); l’istallazione delle tende ha creato uno spazio di incontro e di dibattito (quindi è stata aggregante). Ovviamente non ci sembra sufficiente. Bisognerebbe, quindi, lavorare su strumenti e pratiche che aprano un dibattito pubblico più che impartire ricette. Pensiamo a chi lotta contro la devastazione dei territori, a chi lotta contro l’occupazione e l’ampliamento delle basi militari, a chi occupa le fabbriche per ottenere una riconversione in senso ecologico, a chi resiste al Dl Caivano e al Dl Sicurezza nelle periferie, a chi costruisce battaglie per l’aumento dei salari e la riduzione delle ore di lavoro nel comparto della logistica e nelle campagne, a chi organizza gli scioperi, a chi si siede per strada per denunciare le decisioni scellerate dei governi che aumentano le problematiche relative al cambiamento climatico, chi da dieci anni, ormai, scende in piazza come marea contro la violenza di genere. Tutto questo è guerra interna che ha la stessa matrice della guerra esplicita sul territorio russo/ucraino, palestinese, iraniano, pakistano, congolese, purtroppo l’elenco potrebbe continuare. Se il nemico è comune «abbiamo amici dappertutto». Corteo 21 giugno a Roma – di Jacopo Clemenzi Nel corso di quest’anno ci sono stati soggetti che hanno sottolineato la centralità del nodo della guerra: la Rete Reset che ha organizzato una tre giorni a marzo, la coalizione Stop Rearm Europe che ha convocato il corteo del 21 giugno e la stessa Non Una di Meno che ha posto il tema della guerra come focus di molti cortei nell’ultimo anno. Come immaginate una collaborazione con questi soggetti a partire dai molti punti in comune di analisi? Immaginate di essere all’interno della serie televisiva Andor, uno spin off di Star Wars, da cui abbiamo estrapolato uno degli slogan per chiamare questa assemblea del 27 luglio. Siamo in una galassia sterminata con centinaia di pianeti. Alcuni di questi hanno già individuato il problema, alcuni resistono all’estrattivismo delle risorse naturali, alcuni si rivoltano nelle carceri, altri utilizzano metodi classici della partecipazione politica, altri fuggono dai loro pianeti in cerca di fortuna, altri vivono nel cuore della bestia. Come facciamo a mettere a sistema i saperi e le capacità di ognuna e ognuno, individui e collettività? Come si fa a scambiare saperi, pratiche, strumenti che spesso rimangono rilegati all’interno di lotte specifiche o di cerchie ristrette? Come si costruisce una radio interplanetaria, come si coinvolge il mondo dello spettacolo in crisi, come si dà voce a chi voce non ha? Come si trovano gli schemi della “morte nera”? Come si coinvolgono le maestranze che li sanno leggere? Come si coinvolgono i piloti che sono in grado di distruggere l’arma che con un solo click può far implodere un pianeta? Più che di collaborazione si tratta di mettere a disposizione strumenti e capacità che già ognuno sperimenta, per un obiettivo comune. Non crediamo che oggi si possa pensare in termini di dirigenze che guidino o rappresentino qualcuno se questo qualcuno è oggettivamente assente o disperso. > Oggi si tratta di costruire delle infrastrutture che siano in grado di > riprodurre saperi e pratiche, che siano in grado di sapere e saper fare, > distribuire questo sapere piuttosto che saper dirigere assemblee. Convergere, > secondo noi, vuol dire condividere saperi e pratiche piuttosto che generare > una sommatoria delle debolezze esistenti oppure creare l’ennesima sigla contro > la guerra. Crediamo che la Rete Reset, Stop Rearm Europe e Non Una di Meno come altri pezzi che si sono mobilitati in questo ultimo anno abbiano diverse di queste caratteristiche da poter condividere senza perdere la propria specificità e la programmazione che già si è data dopo la mobilitazione del 21 giugno. Nel documento sottolineate quanto il regime di guerra oggi connette un campo di azioni vasto che va dalle Indicazioni nazionali di Valditara fino ai Decreti Sicurezza e all’aumento di spesa per il riarmo. Come si può riuscire, a vostro parere, a evidenziare questa connessione che potenzialmente genera una ampia convergenza tra movimenti? Come dicevamo pensiamo ci sia una guerra ad alta intensità su alcuni territori del pianeta e una guerra a bassa intensità all’interno dei nostri Paesi che ci aiuta in primis a capire che il capitalismo ciclicamente alterna periodi di pace e di guerra e che questo si esplica su vari livelli e con diversi livelli di intensità nel tempo e nello spazio; in secundis che individuare la radice del problema ci costringe a pensare a un internazionalismo che non è fatto di “solidarietà” ai popoli oppressi ma da pratiche che mirano alla messa in discussione di un unico regime economico e sociale. Noi non dobbiamo scendere in piazza perché ci dispiace per i morti in Palestina, certo anche, è ovvio, ma perché, come si diceva un tempo, il «Vietnam è qui!». Le deportazioni forzate dell’ICE negli Stati Uniti, le migliaia di morti sulle nostre coste, la violenza che si dispiega nelle nostre strade, la riduzione drastica di servizi sanitari di qualità, lo svuotamento delle strutture educative, la devastazione di intere regioni per metterle al servizio delle basi militari o per estrarre risorse, la turistificazione selvaggia delle città, tutto questo è reale e non è una proiezione. È qui, è oggi. Le e gli zapatisti ci dicono sempre di non chiedergli come sostenere la loro lotta ma di chiederci come si fa alle nostre latitudini, come si fa a rompere la nostra stessa oppressione nei luoghi in cui viviamo. Questa è la migliore forma di sostegno alle popolazioni oppresse e a quelle che resistono. Poi, come detto nel seguito dell’intervista, vorremmo soffermarci su un altro aspetto. Pensiamo che parlare di resistenza senza affiancargli un’idea di mondo sia problematico perché il mondo com’era prima dell’arrivo della guerra, prima dell’arrivo delle linee guida sulla scuola, prima delle ruspe che devastano la Val di Susa, prima del Dl Sicurezza e del Dl Caivano non ci piaceva così com’era. Si tratta di resistere ma anche di pretendere una trasformazione radicale. E allora dobbiamo costruire un piano, come ci insegna il movimento transfemminista, e avere però anche l’ambizione di applicarlo per poter forgiare saperi e pratiche e poter vincere delle battaglie. L’azione collettiva deve poter avere dei risultati perché la partecipazione di ognuno non possa essere vana, sul piano materiale e quello immateriale e anche se fosse un piccolo, parziale, microscopico cambiamento rimane un avanzamento. Da questo punto di vista bisognerebbe evitare di cadere nell’errore dei posizionamenti a cui ci costringono. Prima di tutto sono state spesi fiumi di parole sull’uso strumentale della parola terrorismo su cui non ritorneremo qui. In seconda battuta, dovremmo fare attenzione durante le lotte di resistenza e di avanzamento a chiederci che mondo vorremmo costruire, cosa che nel nichilismo dell’impotenza che ha prodotto e ipotizzato la “fine del mondo” ci siamo dimenticati di curare. Ci limitiamo a scegliere in che fazione stare come se avesse un peso nell’economia del mondo la nostra opinione. Forse è il momento di superare queste semplificazioni e queste posture. Corteo in Val di Susa – di Riccardo Carraro Alla fine del documento accennate alla possibilitá di un momento di mobilitazione comune in autunno, e che il percorso per arrivarci si deciderà assieme, ci sono già idee in tal senso? Superare la frammentazione che abbiamo visto in questi anni è fondamentale. Non perché quello che muove è un desiderio di unità, piuttosto evitare che questa frammentazione possa essere un tappo alla mobilitazione piuttosto che uno stimolo. Il desiderio di unità come quello di organizzazione politica ci sembra fuorviante in questa fase storica. Cosa unisci? Cosa organizzi di fronte a un paese pacificato, dove il conflitto si dispiega in linea orizzontale? Non sappiamo se il 27 sarà la sede giusta dove innescare un dibattito pubblico proficuo, facciamo un tentativo. Rompere gli schemi può essere un buon punto di partenza. È necessario un momento di mobilitazione comune in autunno? Crediamo di sì. Questo corrisponde a un corteo? A una mobilitazione comune in ogni città? All’istallazione di presidi di discussione nelle università? Non lo sappiamo. Non possiamo però pensarci su un periodo così breve. Se c’è effettivamente qualcosa su cui scommettere nel nostro paese per portare avanti una trasformazione radicale ha bisogno di essere pensata sul lungo periodo, non nell’arco di uno spazio limitato che ricade nella ritualità e nell’emergenzialità di cui sopra. Ci metteremo degli anni per ottenere i risultati che speriamo? Non importa. Oggi è il tempo di curare gli spazi di partecipazione, di aprire un dibattito pubblico serio, di diffondere saperi e pratiche organizzative, di contaminare la società. Fissiamo degli obiettivi comuni su cui lavorare. Sicuramente, pensiamo sia importante contrapporre al riarmo dell’Europa il disarmo dei paesi che possiedono la bomba nucleare, ribadire l’importanza di revocare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra l’Unione europea e Israele a partire dall’Italia. Pretendere invece che le risorse pubbliche vengano utilizzate per mettere in sicurezza i territori, pensare a una conversione ecologica delle industrie, investire su educazione, salute e abitare. Immagine di copertina dal corteo del 21 giugno a Roma, foto Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale» proviene da DINAMOpress.
Il governo balbetta sui poliziotti infiltrati nei movimenti giovanili
Giovedi mattina Emanuele Prisco, Sottosegretario di Stato all’Interno, ha risposto a una delle interrogazioni parlamentari presentate sul caso infiltrazioni in Cambiare Rotta, nei Collettivi Autorganizzati Universitari e in Potere al Popolo. Si tratta della prima risposta del Governo, una risposta che risulta però estremamente confusa e balbettante. Nella prima parte […] L'articolo Il governo balbetta sui poliziotti infiltrati nei movimenti giovanili su Contropiano.
POTERE AL POPOLO: “SCOPERTI ALTRI 3 POLIZIOTTI INFILTRATI NELLE NOSTRE ORGANIZZAZIONI GIOVANILI”
Potere al popolo ha scoperto l’esistenza di altri 3 poliziotti infiltrati nel partito, in particolare nelle sue organizzazioni giovanili, dopo che lo scorso mese di maggio 2025 i portavoce del partito avevano denunciato un primo caso di agente che si era infiltrato tramite il Collettivo Autorganizzato Universitario di Napoli. “Si tratta di 4 agenti di polizia usciti dallo stesso corso, tutti giovanissimi e tutti quanti infiltrati in città metropolitane a partire da contesti giovanili e studenteschi come l’organizzazione ‘Cambiare rotta’”, spiega Giuliano Granato ai microfoni di Radio Onda d’Urto. “Non appena terminato il corso – aggiunge Granato – sono stati trasferiti alla direzione dell’Antiterrorismo e poi infiltrati nella nostra organizzazione”. Oltre a Napoli, gli agenti infiltrati hanno avvicinato l’organizzazione giovanile Cambiare Rotta a Milano e Bologna. Ci sarebbe stato un altro tentativo di infiltrazione a Roma. Quest’ultimo, però, non è andato a buon fine. Nel pomeriggio di venerdì 27 giugno 2025 i portavoce di Potere al popolo terranno una conferenza stampa in Senato per denunciare la vicenda ed esigere spiegazioni da parte del governo Meloni, in particolare dalla premier e dal ministro dell’Interno Piantedosi. Parteciperanno anche i parlamentari di Avs, M5S e Pd che hanno presentato un’interrogazione parlamentare, oltre ai giornalisti di Fanpage e gli attivisti di Mediterranea Saving Humans spiati con lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon. “Si tratta di un quadro estremamente preoccupante in questo Paese, che non riguarda soltanto le organizzazioni interessate. Tocca un po’ tutti perché viene meno il presupposto di uno Stato democratico: la libertà di associazione e di riunione. Se dei poliziotti possono infiltrarsi in un partito politico, allora vale tutto…”, conclude Giuliano Granato ai nostri microfoni. L’intervista di Radio Onda d’Urto a Giuliano Granato, portavoce nazionale di Potere al popolo. Ascolta o scarica.
ARGENTINA: NI UNA MENOS COMPIE DIECI ANNI E SCENDE IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO MILEI
Il movimento transfemminista argentino Ni una menos compie dieci anni. Tutto iniziò il 3 giugno 2015, quando centinaia di migliaia di donne si ritrovarono nelle piazze di tutto il Paese per dire basta ai femminicidi e alla violenza maschile sulle donne e di genere. Nasceva, quel giorno, il movimento che ha poi ispirato i movimenti femministi e transfemministi di mezzo mondo, Italia in primis, e dato il via a un nuovo ciclo di lotte. In tutti questi anni il movimento Ni una menos ha sempre portato avanti  in Argentina una politica femminista e transfemminista fortemente intrecciata con quella per i diritti sociali. Dieci anni dopo – con il neoliberista di estrema destra Javier Milei al governo – il movimento femminista argentino salda la propria lotta con quelle di lavoratrici e lavoratori, di  pensionate e pensionati che, da quando il governo liberista ha tagliato le pensioni, scendono nelle strade di Buenos Aires ogni mercoledì contro le politiche ultraliberiste del governo, tra tagli e privatizzazioni. Nel caso di mercoledì 4 giugno 2015, dunque, le manifestazioni celebrano anche l’anniversario della nascita di Ni una menos. In occasione di questo importante anniversario, Radio Onda d’Urto ha raggiunto telefonicamente, a Buenos Aires, Alberta Bottini, docente del dipartimento di Economia e amministrazione all’Università di Quilmes, dove si occupa di cura, economia femminista ed economia solidale. Ascolta o scarica.
Referendum e trasformazioni sociali: uno sguardo storico. Intervista con Michele Colucci
I referendum sono alle porte. L’8 e il 9 giugno lə elettorə si esprimeranno sui cinque quesiti. I primi quattro hanno a che fare con il diritto del lavoro; il quinto con l’accesso alla cittadinanza italiana per chi risiede stabilmente nel Paese. Attraverso un’analisi puntuale e appassionata, Michele Colucci, primo ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) – Istituto di studi sul Mediterraneo – ci aiuta a orientarci in questa tornata referendaria, richiamando il significato storico e politico di questo strumento, tra conquiste passate e battaglie da rilanciare. Dietro la frammentazione apparente tra “lavoro” e “cittadinanza”, dal dialogo con Colucci emerge un filo rosso che attraversa tanto la storia delle politiche migratorie quanto le trasformazioni del mercato del lavoro: l’indebolimento dei diritti e la precarizzazione delle vite passano spesso attraverso forme differenziali di esclusione. Anche per questa ragione, il referendum può avere un significativo impatto politico, anche al di là della sua funzione specifica – l’abrogazione di norme ingiuste. Può essere un’opportunità per riattivare immaginari collettivi e pratiche di trasformazione. I referendum dell’8 e 9 giugno 2025 propongono modifiche in materia di lavoro e cittadinanza. Quali sono, dal tuo punto di vista, le potenzialità e i limiti di questi referendum? Si tratta di tematiche molto importanti che hanno a che fare direttamente con la vita di milioni di persone. Inoltre, i cambiamenti che potrebbero introdurre avrebbero un effetto dirompente su tutta la popolazione. Facciamo qualche esempio per capire la portata di ciò di cui stiamo parlando. Iniziamo dal referendum sulla cittadinanza. Permettere un accesso più rapido all’acquisizione della cittadinanza può rendere meno precarie le persone che ne sono prive, meno ricattabili, più sicure dal punto di vista giuridico. Aumentare la solidità sul territorio dei soggetti sociali serve a tutte e tutti, perché può garantire l’inversione di una compressione verso il basso dei diritti di tutta la popolazione. In presenza di una fascia ampia di persone prive della cittadinanza italiana, è molto più facile la diffusione di forme di sfruttamento che legittimano e rilanciano a dismisura la disuguaglianza: oggi tocca soprattutto alla componente straniera (ma non solo), domani può toccare a chiunque. È un percorso che conosciamo bene, che rivela tutte le sue insidie proprio sul tema del lavoro. Nei primi anni Duemila, quando si materializzò una complessiva riorganizzazione delle politiche del lavoro, venne approvata prima la legge Bossi-Fini (2002) sull’immigrazione e poi di lì a breve la legge 30 (2003) dedicata alla riforma del mercato del lavoro per tutta la popolazione. Passando agli altri quesiti, il diritto al reintegro riguarda l’intero comparto del lavoro in realtà produttive con più di 15 dipendenti, un segmento estremamente ampio e diversificato che oggi non può ambire al reintegro del posto di lavoro a seguito di un licenziamento illegittimo. Anche il secondo quesito si occupa dei licenziamenti, ma è rivolto a estendere il risarcimento per dipendenti di aziende che hanno meno di 15 dipendenti, nelle quali non è mai stato previsto il reintegro. Il terzo quesito è orientato a una maggiore tutela del lavoro precario, ormai da tempo dilagante e sempre più privo di diritti e coperture. Il quarto è dedicato alla sicurezza sul lavoro e alla giungla di appalti e subappalti che ne peggiorano enormemente le garanzie: è un fronte su cui l’Italia è drammaticamente esposta ma dove non si intravedono mai interventi concreti, a parte chiacchiere di circostanza e lacrime di coccodrillo quando si verificano incidenti mortali. Vedo che non sempre anche nei discorsi dei promotori riesce facile tenere insieme i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza. In realtà sono tutti e cinque quesiti sulla cittadinanza e allo stesso tempo cinque quesiti sul lavoro. La ricerca sulla storia delle politiche migratorie e delle politiche sul lavoro in questo senso ci aiuta a capire le connessioni: come già accennato basta guardare a come le leggi sull’immigrazione hanno anticipato le leggi sul mercato del lavoro. Aver riaperto una discussione su questi temi è già più di una potenzialità: è un passo in avanti nel dibattito pubblico, un merito della campagna referendaria che bisogna riconoscere. Il problema è nelle conseguenze che si porta dietro la scadenza referendaria: in caso di mancato raggiungimento del quorum o di sconfitta dei “sì” l’impatto potrebbe essere molto pesante. Sarà dura soprattutto nel breve periodo riproporre le battaglie oggetto di un pronunciamento netto da parte della popolazione. E, visto che si tratta di battaglie cruciali su questioni che resteranno in campo indipendentemente dall’esito referendario, ci sarà molto da fare per riuscire a riproporle in forma vertenziale. Il quesito sulla cittadinanza mira a ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale richiesto, insieme a molti altri requisiti, per ottenere la cittadinanza italiana. Quali implicazioni storiche e politiche vedi in questa proposta? Qual è la sua portata? Non è una riforma che inverte la rotta rispetto alle modalità con cui si ottiene la cittadinanza, ma rappresenta una semplificazione che migliora sensibilmente la vita di molte persone. La cittadinanza resta intimamente legata alla dimensione familista, ai vincoli di sangue. In caso di vittoria dei “sì” resteranno in campo tutte le discriminazioni economiche e burocratiche che la contraddistinguono. Ma l’intervento sui tempi permette di ridurre il disallineamento sui tempi di vita che spezza drammaticamente in modo razzista la società italiana. Con la vittoria dei “sì” non finirà il razzismo istituzionale. Anzi, andando ben oltre il referendum, dobbiamo sapere che anche se di colpo tutte le persone residenti in Italia diventassero cittadine italiane, resterebbero aperte altre forme di disuguaglianza che pesano sui rapporti di forza e sugli equilibri sociali. Nella vita quotidiana delle persone straniere la variabile del tempo è però una delle forme di discriminazione più subdole e pervasive: si perde tempo in attesa davanti alle questure, si perde tempo nelle Asl, si perde tempo nei centri di orientamento al lavoro, si perde tempo nelle anagrafi e negli uffici municipali, si perde tempo al caf, si perde tempo dall’avvocato. Perciò un intervento sui tempi di attesa per richiedere la cittadinanza ha un valore concreto e un valore simbolico. Concretamente serve a semplificare, ma interviene sulla diminuzione di quel limbo che per molte e molti non rappresenta una breve parentesi ma una dilatazione all’infinito di una vita di serie B. In termini storici non ci sono grandi cambiamenti, può essere utile ricordare che la proposta referendaria interviene sui tempi previsti dalla legge del 1992 (dieci anni di residenza prima di chiedere la cittadinanza) per tornare alla legge del 1912 (cinque anni): sul nesso residenza/cittadinanza/persone straniere il Parlamento liberale 113 anni fa fu più aperto del Parlamento repubblicano 33 anni fa! La storia della Repubblica è stata segnata dai referendum, a cominciare dal suo momento fondativo. Quali sono stati i referendum che, più di altri, hanno contribuito a ridisegnare il profilo del Paese? Si tratta di una storia lunga e complessa. Quello del 2 giugno 1946 fu indubbiamente un momento di svolta, anche perché rappresentò la prima compiuta forma di suffragio universale nazionale non limitato alla componente maschile. La lista dei referendum che hanno inciso in modo determinante sulla società italiana è molto lunga. Rispetto alla situazione attuale è interessante ricordare che alcuni dei referendum più importanti sono stati pensati per interrompere l’effetto di leggi appena approvate dal Parlamento e voluti da soggetti politici che non gradivano una evoluzione della società sancita da quei passaggi legislativi. Pensiamo ad esempio al referendum sul divorzio del 1974 per abrogare la legge Fortuna-Baslini o a quello sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 per abrogare la legge 194. I “no” all’abrogazione vinsero in maniera chiara in entrambi i casi, certificando in modo netto che le leggi conquistate grazie alla mobilitazione popolare erano del tutto in linea con il sentimento della popolazione. Oggi i referendum vengono proposti all’interno di una cornice rovesciata: il Parlamento non intende legiferare su alcuni nodi ritenuti cruciali dai promotori e attraverso i quesiti si cerca di affrontare l’esigenza di imporre una svolta alla legislazione. Tornando agli anni Ottanta, due referendum ebbero indubbiamente una funzione periodizzante oltre a quello già citato sull’aborto: il referendum del 1985 sulla scala mobile e quelli del 1987 sul nucleare. La sconfitta dei promotori del referendum sulla scala mobile segnò in modo pesante la crisi della parabola della centralità delle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, rafforzando quella fase di riduzione del potere d’acquisto dei salari di cui oggi vediamo chiaramente gli effetti. La vittoria – schiacciante, contro ogni aspettativa – dei 3 referendum sul nucleare, arrivata a un anno dalla tragedia di Chernobyl, rese evidente le potenzialità e il ruolo crescente dei movimenti ambientalisti e pacifisti, insieme a una nuova sensibilità diffusa nell’opinione pubblica. Anche nel 2011 la vittoria dei “sì” ai referendum sull’acqua bene comune e sul nucleare suscitò molto clamore, dentro una congiuntura in cui la stretta della crisi economica mondiale sembrava togliere qualsiasi fiducia al ruolo dei movimenti sociali. Sono molti i referendum dimenticati, non solo quelli nazionali ma anche quelli comunali, che però possono avere solo carattere consultivo. Tra i referendum comunali recenti più rimossi dalla discussione pubblica voglio ricordare quello bolognese del 2013, quando il 59% dei cittadini e delle cittadine del comune di Bologna votarono contro il finanziamento pubblico alle scuole paritarie. La campagna elettorale spaccò gli schieramenti politici tradizionali (come avviene con la tornata di oggi) e rivelò l’importanza del dibattito sulla scuola, la sua dimensione pubblica e la sua importanza nella società. Un referendum che ha visto una grande partecipazione della popolazione italiana si è tenuto nel 1970, ma non in Italia, bensì in Svizzera. Ci sono alcune analogie con l’attuale referendum sulla cittadinanza: a mobilitarsi nelle strade e nelle piazze furono, come oggi, persone di origine straniera, che non avrebbero avuto diritto di voto alla scadenza elettorale per la quale si stavano impegnando. Il referendum in Svizzera venne promosso da uno schieramento conservatore contrario all’immigrazione, capeggiato da James Schwarzenbach, promotore dell’iniziativa referendaria contro quello che definiva “inforestieramento” della Svizzera. Si trattava di un referendum contro l’immigrazione, in caso di vittoria circa un terzo degli immigrati stranieri sarebbe stato espulso: una sorta di progetto di “remigrazione” ante litteram. La Svizzera aveva già norme rigidissime sull’immigrazione e il clima sociale non era particolarmente favorevole alle comunità straniere: sembrava scontato l’esito. Invece grazie a una mobilitazione senza precedenti del mondo dell’immigrazione, delle tante realtà solidali, a partire dal sindacato, delle associazioni, il risultato fu sorprendente: il referendum venne respinto dal 54% dei votanti. All’epoca, quella italiana era l’immigrazione più presente in Svizzera, per questo pur non essendo un referendum italiano ha avuto effetti importanti sulla popolazione italiana. Un caso interessante da ricordare è quello del 2005, quando si tenne il referendum per abrogare alcuni divieti contenuti nella legge 40 del 2004 in materia di fecondazione assistita e ricerca sulle cellule staminali: i votanti si espressero massicciamente per l’abrogazione, non fu raggiunto il quorum, ma la legge 40 venne negli anni seguenti smontata in molte sue parti dalle sentenze dei tribunali. Qual è l’attualità di questo istituto, anche alla luce della crisi profonda nella partecipazione al voto che investe, in maniera crescente? Il referendum di per sé non è più o meno attuale di altre forme di partecipazione politica. La crisi della partecipazione alle elezioni si riflette anche nella crisi di molte altre forme di partecipazione alla cosa pubblica. La via referendaria è spesso oggetto di discussioni, anche molto accese. Ci sono contesti territoriali attivissimi sul piano della mobilitazione sociale dove i soggetti protagonisti delle battaglie civili hanno combattuto l’idea di far esprimere la popolazione con un referendum: si pensi ad esempio allo scontro sul TAV in Piemonte. I comitati e i movimenti contrari hanno sempre guardato con scetticismo alla chiamata alle urne, rivendicata semmai a volte dalla controparte, dai favorevoli alle cosiddette “grandi opere”. Il referendum può anche avere una funzione tombale sui movimenti sociali, nel momento in cui può servire a chiudere le stagioni di attivazione collettiva. Credo che sia importante valutare caso per caso, a seconda dei contesti e delle differenti congiunture storiche e politiche. Alla luce della tua esperienza di studio dei movimenti sociali e delle trasformazioni nel lavoro e nella cittadinanza, che ruolo pensi possa avere oggi il referendum nel riattivare processi collettivi e partecipativi? Mi pare che possa avere un ruolo importante, come è evidente dalle tantissime iniziative di questi giorni. Se per risvegliare la coscienza sociale serve un referendum ben venga il referendum. Non credo tuttavia che la mobilitazione eccezionale per una scadenza straordinaria possa sistematicamente sostituirsi alla dimensione quotidiana della partecipazione, fatta di momenti “normali”, magari apparentemente ordinari, che rappresentano però l’ossatura di una rete di azioni capace di garantire un livello alto di partecipazione e di attivazione svincolato dalle scadenze elettorali. Per capirci: lo stillicidio degli incidenti sul lavoro continuerà, ma se dopo il referendum cambierà l’attenzione e si registrerà un incremento delle proteste e delle lotte collegate significa che il referendum è servito, al di là del risultato delle urne. Questo è solo uno dei tantissimi esempi possibili. Immagine di copertina di Sandrino14, wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Referendum e trasformazioni sociali: uno sguardo storico. Intervista con Michele Colucci proviene da DINAMOpress.
Papa Leone XIV promuove e incoraggia la nonviolenza
La nonviolenza come metodo e come stile deve contraddistinguere le nostre decisioni, le nostre relazioni, le nostre azioni. L’ha affermato Papa Leone XIV venerdì 30 maggio, ricevendo nella Sala Clementina circa 250 rappresentanti di associazioni e movimenti che avevano partecipato all’“Arena di pace”, l’incontro con Papa Francesco svoltosi a Verona il 18 maggio 2024.  Erano presenti anche rappresentanti di Ultima Generazione. Riportiamo per intero il discorso del Papa. Cari fratelli e sorelle, sono lieto di accogliere voi, membri dei movimenti e delle associazioni che un anno fa hanno dato vita al grande incontro “Arena di Pace”, a Verona, con la partecipazione di Papa Francesco. Ringrazio in particolare il Vescovo di Verona, Mons. Domenico Pompili, e anche i Padri Comboniani. In quell’occasione, il Papa ha ribadito che la costruzione della pace inizia col porsi dalla parte delle vittime, condividendone il punto di vista. Questa prospettiva è essenziale per disarmare i cuori, gli sguardi, le menti e denunciare le ingiustizie di un sistema che uccide e si basa sulla cultura dello scarto. Non possiamo dimenticare l’abbraccio coraggioso fra l’israeliano Maoz Inon, al quale sono stati uccisi i genitori da Hamas, e il palestinese Aziz Sarah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello, e che ora sono amici e collaboratori: quel gesto rimane come testimonianza e segno di speranza. E li ringraziamo di aver voluto essere presenti anche oggi. Il cammino verso la pace richiede cuori e menti allenati e formati all’attenzione verso l’altro e capaci di riconoscere il bene comune nel contesto odierno. La strada che porta alla pace è comunitaria, passa per la cura di relazioni di giustizia tra tutti gli esseri viventi. La pace, ha affermato San Giovanni Paolo II, è un bene indivisibile, o è di tutti o non è di nessuno (cfr. Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 26). Essa può realmente venire conquistata e fruita, come qualità di vita e come sviluppo integrale, solo se si attiva, nelle coscienze, «una determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune» (ivi, 38). In un’epoca come la nostra, segnata da velocità e immediatezza, dobbiamo ritrovare quei tempi lunghi necessari perché questi processi possano avere luogo. La storia, l’esperienza, le tante buone pratiche che conosciamo ci hanno fatto comprendere che la pace autentica è quella che prende forma a partire dalla realtà (territori, comunità, istituzioni locali e così via) e in ascolto di essa. Proprio per questo ci rendiamo conto che questa pace è possibile quando le differenze e la conflittualità che comportano non vengono rimosse, ma riconosciute, assunte e attraversate. Per questo è particolarmente prezioso il vostro impegno di movimenti e associazioni popolari, che concretamente e “dal basso”, in dialogo con tutti e con la creatività e genialità che nascono dalla cultura della pace, state portando avanti progetti e azioni al servizio concreto delle persone e del bene comune. In questo modo voi generate speranza. Cari fratelli e sorelle, c’è troppa violenza nel mondo, c’è troppa violenza nelle nostre società. Di fronte alle guerre, al terrorismo, alla tratta di esseri umani, all’aggressività diffusa, i ragazzi e i giovani hanno bisogno di esperienze che educano alla cultura della vita, del dialogo, del rispetto reciproco. E prima di tutto hanno bisogno di testimoni di uno stile di vita diverso, nonviolento. Pertanto, dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, quando coloro che hanno subito ingiustizia e le vittime della violenza sanno resistere alla tentazione della vendetta, diventano i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. La nonviolenza come metodo e come stile deve contraddistinguere le nostre decisioni, le nostre relazioni, le nostre azioni. Il Vangelo e la Dottrina Sociale sono per i cristiani il nutrimento costante di questo impegno, ma al tempo stesso possono essere una bussola valida per tutti. Perché si tratta, in effetti, di un compito affidato a tutti, credenti e non, che lo devono elaborare e realizzare attraverso la riflessione e la prassi ispirate alla dignità della persona e al bene comune. Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni — educative, economiche, sociali — ad essere chiamato in causa. Nell’Enciclica Fratelli tutti ritorna molte volte il richiamo alla necessità della costruzione di un “noi”, che deve tradursi anche a livello istituzionale. Per questo vi incoraggio all’impegno e ad essere presenti: presenti dentro la pasta della storia come lievito di unità, di comunione, di fraternità. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata, nella fiduciosa speranza che essa è possibile grazie all’amore di Dio, «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5). Cari amici, vi ringrazio di essere venuti. Prego per voi, perché possiate operare con tenacia e con pazienza. E vi accompagno con la mia benedizione. Grazie! Rayman
Radio Onda Rossa compie 48 anni
È il 24 maggio del 1977 quando nell’etere romano si ascolta per la prima volta la voce di Via dei Volsci. Allora a Roma c’erano diverse realtà di comunicazione, Radio città futura, Radio Radicale, Il manifesto, Lotta continua, Il quotidiano dei lavoratori, ma tutte, difficilmente, parlavano delle vere lotte che il movimento romano faceva, «per far pubblicare una cosa dovevamo fare sempre a botte» ricorda Lillo uno dei fondatori di Radiondarossa. In quella prima trasmissione e in quei ricordi rimangono molti degli aspetti che accora oggi caratterizzano ormai l’unica radio autogestita e autofinanziata rimasta nella Capitale: la necessità di avere un proprio strumento d’informazione – che nascesse direttamente dentro le lotte e ne potesse essere un’espressione fedele – e la volontà che la radio fosse completamente autofinanziata attraverso le sottoscrizioni libere dei comitati, dei collettivi, degli ascoltatori e delle ascoltatrici e da chi la radio la fa. Radio onda rossa non è una radio “libera” (libera da chi?), ma una radio militante, una radio rivoluzionaria. Opera una scelta di campo ed è subito una radio di Movimento: non è una radio libera perché accetta immediatamente il condizionamento di una parte, quelle soggettività che non hanno voce e si schiera faziosamente. Questo lo può fare perchè da 48 anni non ha il ricatto di padrini, padroni, pubblicità a dirle cosa deve trasmettere. 48 anni di autogestione e autonomia che Radiondarossa si finanzia con un radioabbonamento e con una festa che ci dal 23 al 25 maggio 2025. La prima giornata come tutti gli anni sotto la sede storica della radio, in via dei Volsci 56. A partire dalle 18 si parlerà di Palestina e della storia della radio, si ballerà con le trasmissioni musicali e si farà un brindisi alle 24 per festeggiare. La festa poi continua il 24 e il 25 maggio in via Prenestina 173 in collaborazione il CSOA Ex-Snia Viscosa. Il 24 maggio dalle 20:00 una line-up incendiaria, transfemminista e queer, una serata dove l’hip hop torna a essere voce, militanza, poesia urbana e visione politica. Le nuove generazioni di rapper salgono sul palco con rime taglienti, testi che raccontano il presente e sguardi radicali su società, corpi, desideri e lotte. Sei live, sei visioni del mondo, sei modi diversi di spaccare lo spazio e riscrivere il beat con: – Malpela. Classe 1995, nata a Milano e cresciuta a Bareggio, Malpela debutta nel 2020 con l’EP Ernia al disco e nel 2024 pubblica CANZONI IMPREVEDIBILI PER PERSONE STANCHE. Canzoni come fendenti ironici e lirici sulla stanchezza esistenziale e la vita reale. – Hellsy. Rapper, attrice, doppiatrice e podcaster genovese, Hellsy fonde il rap classico con sonorità pop, rock ed elettroniche. Nei suoi testi c’è la queerness, ci sono le istanze transfemministe e una presenza scenica potente. Co-creatrice del podcast Radical Queer e protagonista del docufilm In Viaggio con Lei. – Yerta. Da Viterbo, attiva anche con il progetto hardcore Gematrya. In solo, propone un hip hop crudo e old school, con rime che colpiscono come pugni e una voce che squarcia il silenzio. Timpani e cuori non saranno risparmiati. – Annarella. Voce iconica del duo Zetas, arriva da Salerno con le sue liriche taglienti e una potenza espressiva inarrestabile. Il suo flow è politico, viscerale e visivo. – Ellie Cottino. Rapper torinese con uno stile diretto e incendiario, porta sul palco storie transfemministe e rabbie generazionali. Ha aperto per Cypress Hill e Assalti Frontali. Una forza della natura, pronta a travolgere tutto e tuttə. – Queen of Saba. Poche presentazioni servono per questo duo elettronico che infiamma i palchi con energia, ironia e visione. Ballare sopra le rovine di ciò che non ci piace? Sì. E cambiarlo, una traccia alla volta. Qui le interviste alle band. Domenica 25 maggio torneremo a parlare di Palestina da sempre nelle lotte e nei microfoni dell’emittente romana. Già nell’autunno del 2001 seguendo la seconda Intifada direttamente dalla Cisgiordania Occupata, poi dando voce a Vittorio Arrigoni da Gaza e oggi continuando a parlare di Nakba e resistenza. Lo faremo con l’Unione democratica arabo palestinese e con l’architetto palestinese Antoine Raffoul di cui potete ascoltare una testimonianza qua. Antoine aveva 7 anni quando è iniziata la Nakba, ha lasciata Haifa con tutta la sua famiglia e non ha potuto più fare ritorno in terra di Palestina. Ma non ha mai smesso di pensare alla sua terra, i suoi villaggi e alla Striscia di Gaza. Nel 2020 indice insieme al Professore Salman Abu Sitta, fondatore e Presidente della Palestine Land Society a Londra, un concorso per ridare a Gaza un’architettura degna della sua storia. Una delle vincitrici del concorso viene però uccisa dai bombardamenti dell’esercito israeliano a ottobre del 2023, ed è a lei che Radiondarossa ha deciso di dedicare questa giornata di memoria e discussione: Mana Jamal Hamdan Mansour. Dopo il concerto della band crispypostpopwave Sunomi (qui un’intervista alla band torneremo a parlare di Palestina con la proiezione per la prima volta in italiano del documentario Emwas: Restoring Memories della regista palestinese Dima Abu Ghoush. Ha conseguito il master in produzione cinematografica e televisiva presso l’Università di Bristol, è stata coinvolta nella creazione di diversi film e documentari, come Good Morning Qalqilia. Ha realizzato due documentari, The Church of the Holy Sepulcher (2010) e Jerusalem Neighborhoods (2011), su commissione di Al Jazeera Documentary. Nel 2005 Abu Ghosh ha contribuito a fondare Collage Productions, una casa di produzione con sede a Ramallah. Dima Abu Gosh è nata nel villaggio di Emwas, distrutto dopo la Guerra dei Sei Giorni. Suo padre possiede tutti i documenti ufficiali del catasto che attestano la proprietà di parte del terreno. Emwas è un film personale che segue il viaggio della regista Dima Abu Ghoush, mentre ricostruisce la sua città natale distrutta, a partire dai ricordi della sua gente. E lo fa costruendo un modellino, ogni memoria o ricordo che lei trova diventa un tassello del plastico. Costretta a lasciare il villaggio all’età di due anni, la regista per tutta la sua vita ha sentito storie su Emwas, ma lo conosceva solo come un parco pubblico, perché è così che il governo israeliano ha trasformato il villaggio, alcuni anni dopo averlo demolito. Nel 2009, Dima ha deciso di ricostruire Emwas sotto forma di modello/maquette, con l’aiuto della sua famiglia, dei suoi amici e delle sue amiche. Il film riesce a dare vita al villaggio distrutto attraverso i ricordi della sua gente e solleva interrogativi sul futuro di Emwas e dei suoi abitanti che ancora sognano di tornarci. Per tutti i due giorni sarà aperta la cucina. Auguri ROR! Immagine di copertina di Radio Onda Rossa SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Radio Onda Rossa compie 48 anni proviene da DINAMOpress.