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Stile e lezioni di Pintor
Il mio rapporto con il gruppo storico del “manifesto” è stato altalenante, perché agli inizi degli anni ’60 le nostre posizioni di opposizione all’interno del Pci erano diverse, accomunate prevalentemente dalla critica della destra amendoliana, ma diverse nel giudizio su Togliatti e nella pratica oppositoria (io ero un “entrista”, figura archeologica imposta dal divieto di correnti organizzate dal basso). Comunque il mio apprendistato nella Fgci l’avevo fatto a “Nuova Generazione” sotto la direzione di Luciana Castellina e di un altro maestro eccezionale di giornalismo, Sandro Curzi. La frequentazione di Ingrao e della sinistra ingraiana veniva dunque da sé, con percorsi paralleli. Il rapporto era più facile con quelli che erano di poco più grandi di me e con Natoli, che per il ruolo politico tenuto a Roma aveva una grande capacità interlocutoria. Rossanda, in apparenza la più inavvicinabile per età, biografia “milanese” e statura intellettuale, aveva invece un’insaziabile curiosità per le idee nuove e per questi “giovani”, stimolando il dialogo e il confronto. Luigi Pintor aveva un carattere più riservato, al limite dell’ostico, ma l’ammiravo moltissimo come giornalista (allora dirigeva il quotidiano del Pci e fu fatto fuori da Alicata, che io consideravo quasi un nemico personale per le mie esperienze al “Contemporaneo”, a “Critica marxista” e sulle questioni ideologiche in generale (ebbe peraltro i suoi meriti resistenziali e prima ancora aveva sceneggiato Ossessione per Visconti). > Pintor, come Natoli, aveva fatto la resistenza antinazista nella Roma occupata > e questo conferiva loro, come ai gappisti di via Rasella, un’aura di rispetto > presso i ragazzi con le magliette a strisce che erano scesi in piazza contro > Tambroni nel 1960 immaginandosi di ripetere Porta San Paolo 1943. Vabbè, sono storie di altri tempi, in cielo volavano ancora gli pterodattili, mica i droni. Poco dopo tornammo tutti, volenti o nolenti, a respirare aria libera. Era arrivato il ’68 – e una mano al suo scoppio gliela avevamo data tutti ma l’evento ci sorpassava di gran lunga ed era internazionale – eravamo ormai fuori del Pci e con la successiva segmentazione (sciagurata ma inevitabile) del movimento in partitini ci trovammo agli estremi opposti dello spettro politico “sovversivo”. Il manifesto quotidiano restava però un punto di riferimento ineludibile e per tanti anni facevo il mio pellegrinaggio affabulatorio una volta a settimana a via Tomacelli, libreria e redazione, passando di stanza in stanza a salutare i compagni, fino a concludere con lunghe conversazioni, al piano e al bar di sotto, con Valentino Parlato – che non era il più “a sinistra” del gruppo, ma una fonte inesauribile di storie e mi raccontava anche della Libia, per me esotica, al punto che andai a vedere dall’esterno la sua casa di allora, quando andai a Tripoli da turista nel 2001, nella vecchia citta-giardino italiana. Anche allora non mi azzardavo a disturbare Pintor, il cui amore per la solitudine e l’avversione alle chiacchiere erano leggendari. Il mio periodo di maggior frequenza e scrittura al “manifesto”, cadde fra il 1988 e il 1991, quando Virno diventò redattore culturale e inaugurò un breve periodo sperimentale di resistenza non nostalgica all’ilare e tossica restaurazione degli anni ‘80. Rossanda chiamava ancora me e Paolo “i giovani”, anche se non lo eravamo più e un’intera generazione, la nostra, era stata massacrata, incarcerata o zittita. Al di là delle relazioni personali, spesso dettate da casualità e impulsi affettivi, resta il giudizio sul politico, sul maestro di stile giornalistico e naturalmente sullo scrittore, altrettanto essenziale e impegnato su un arco di emozioni e ricordi ben più profondi dalle miserie di cronaca su cui un editorialista è costretto a esprimere valutazioni. > Pintor era famoso, ben fuori della sua parte, per i corsivi fulminanti e > tutt’altro che d’occasione, tanto che in alcuni casi potrebbero essere > riproposti oggi tali e quali (su Israele, sulle allocuzioni ministeriali > sollecitanti la formazione di una coscienza alimentare nazionale, sullo > stillicidio degli infortuni sul lavoro). La forza dell’approccio di Pintor, espressa negli editoriali del “manifesto”, stava e resta nel suo tenere insieme la crisi del Pci (e metamorfosi susseguenti) con la dinamica dei movimenti, soprattutto dopo le rotture epocali del 1989 per il primo e del 1978 per i secondi, che facevano venir meno la dialettica, a volte malsana ma in fondo produttiva per cui una serie di istanze rivoluzionarie erano tradotte in importanti riforme negli anni ’70, con una tacita complicità bilaterale (almeno fino al 1977) al di là del dissidio strategico e dalla virulenza del linguaggio. Il muro della “fermezza” eretto dal Pci contro la componente terroristica post-sessantottina finì per tagliar fuori tutto lo spirito del movimento , che in maggioranza dal terrorismo era alieno, compresa l’eterogenea moltitudine che si radunò e si sciolse nel mitico convegno bolognese del 1977. In questa situazione Pci e movimenti si suicidarono ciascuno per conto suo, alla Bolognina e a via Fani. Il neoliberismo, una volta schiacciati i sovversivi (non senza l’aiuto dei riformisti), si dedicò a fagocitare i riformisti e poi a disperderli – il tutto in un contesto internazionale di riflusso in cui la caduta del Muro di Berlino sovradeterminava scioglimenti e rifusioni locali. Pintor non aveva nessuna nostalgia del Pci, pur essendo cresciuto proprio nella costruzione del Partito nuovo a partire dal 1943-1944, ma aveva capito che le periodiche insorgenze dal 1960, del 1968 e di tutti gli anni ’70 in polemica aspra con il Pci implicavano appunto la loro esistenza a sinistra di un corpaccione malandato che faceva opposizione e resistenza fisica ai vari comitati d’affari che la borghesia di volta in volta metteva su, con il sostegno Usa, per tenere insieme il Paese. > I movimenti potevano rifluire temporaneamente e il corpaccione mescolarsi alle > formule di governo, ma le distinzioni di fondo rimanevano e una certa idea di > “sinistra” restava in piedi, checché insinuassero certi estremisti che la > vedevano morta. Lo scioglimento del Pci, sulla scia del crollo del campo socialista e Est, cambia i termini del problema. Non possiamo neppure immaginare cosa avrebbe scritto Luigi del personale politico del Pd attuale sui campi larghe e stretti, ma più interessante è che il verdetto di morte del Pci (sotto il nome ormai di Pds) Pintor lo formula proprio nel momento di massimo fulgore post-Bolognina, durante la segreteria (1994-1998) e ancor più il governo (1998-1999 e 1999-2000) di Massimo d’Alema – eh già, di quel leader maximo che oggi spicca come un gigante in confronto ai piddini prostrati a Biden e von der Leyen. Ne scriveva il 2 giugno 2001: «Evidentemente Massimo D’Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l’aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico». Un cameo validissimo anche per le sue più recenti comparsate in Tv. Compresa la sua olimpica allergia all’autocritica per gli errori commessi in un periodo «difficile ma non sfavorevole», in cui ha insanamente coinvolto l’Italia nelle guerre balcaniche con il bombardamento di Belgrado del 1999 e con i rapporti amichevoli e subalterni con Condoleezza Rice in epoca successiva, da ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. D‘Alema – sempre secondo Pintor – aveva leso «l’immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all’elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata». E di ciò il Presidente non aveva mostrato allora «alcun turbamento» e, a dire il vero, non lo mostra neppure oggi, nelle pensose e brillanti interviste che rilascia irridendo giustamente alla miseria della politica corrente. E Pintor profetizza con assoluta puntualità: «Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l’Ulivo ne patirà le conseguenze». > Riprendendo il tema, alla vigilia della morte, nel suo ultimo editoriale > dell’aprile 2003, Pintor afferma seccamente che «la sinistra italiana che > conosciamo è morta», sia essa quercia o margherita o ulivo, per subalternità > irreversibile «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e > alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno». Il passaggio dall’altra parte si è compiuto nell’89, nel decennio successivo perdendo anche «la faccia e una fisionomia politica credibile». E neppure «facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata». Con la seconda guerra del Golfo era tramontata l’illusione del movimento come seconda potenza mondiale e la politica abituale si era impadronita del movimento di Genova, soffocandolo con ben maggiore efficacia della repressione targata Berlusconi-Fini-De Gennaro.  Il mondo si è diviso in due parti per il sentire, ma non per l’agire, rispetto a cui i movimenti sono impotenti. E comunque questa spaccatura non segue più le linee divisive di un tempo: «Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine». E, alla fine della vita, Luigi Pintor suggerisce di sostituire a una bandiera una «pratica di vita», non un’organizzazione formale bensì una «formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza», – una moltitudine, ­vorremmo dire con termine che l’autore non usava – di “compagne e compagni” non gelosi di stretto riconoscimento ma «senza confini», propensi in tempi più lunghi di domani a «reinventare la vita» di cui il neoliberalismo ci priva giorno dopo giorno. Apocalittico? Pessimista? Disfattista? No, presa d’atto di una chiusura di ciclo. Però i movimenti sono sopravvissuti e si sono ripresi, dopo un letargo più che decennale, senza una dialettica con il sistema dei partiti (dissolto nell’astensionismo oggi maggioritario e nella perdita di progettualità),dunque oggettivamente indeboliti (e qui il pessimismo di Pintor ci aveva colto), ma definitivamente liberati dalla nostalgia di quella forma, incerti ed espansivi, in parte autonomi dei vincoli destinali della geopolitica. Una pagina bianca, chissà. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Stile e lezioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos
“Una bussola per orientarsi nel caos sistemico del presente”: così si presenta sul sito la rivista Teiko, la cui ambizione emerge fin dal nome (un sostantivo giapponese traducibile con resistenza, uguale sia al femminile che al maschile) con cui il collettivo redazionale dichiara la propria intenzione di pensare nuove militanze: «Connettere voci e prospettive, dall’Italia ma guardando fin dall’inizio al mondo; costruire una cartografia del dominio e delle lotte e interpretarla politicamente; rilanciare lo sguardo dell’operaismo rivoluzionario coniugandolo e contaminandolo con altre tradizioni: sono queste alcune delle linee di ricerca che Teiko, con cadenza semestrale, cercherà di seguire». Abbiamo intervistato il collettivo redazionale per dare vita a un dialogo tra le due esperienze. Quale discussione vi ha spinto a dar vita a questo esperimento politico-editoriale? Come ha preso forma il collettivo redazionale che sostiene la rivista? Mettendola in un modo che potrebbe rischiare di risultare eccessivamente enfatico, ma che è assolutamente concreto: “Teiko” nasce dalla profonda inquietudine per il tempo storico che stiamo abitando – la crisi egemonica planetaria turbolenta, le guerre, il riscaldamento climatico, il genocidio a Gaza, e si potrebbe continuare…, e dalla passione politica che spinge a rovesciare l’inquietudine in possibilità di trasformazione. Più nel piccolo, la discussione che ha condotto verso questa nuova rivista è stata legata anche dal registrare una certa impasse nel mondo dei “movimenti” in Italia (e non solo). “Teiko” si propone infatti come uno stimolo all’approfondimento, alla discussione e riflessione, al rilancio di pratiche di inchiesta e di produzione di teoria politica radicale. Infine, nell’editoriale del numero Zero, a giugno, scrivevamo: «abbiamo avuto spesso la sensazione, negli ultimi anni, a una fase indecifrabile e violenta si contrapponesse – contrapponessimo – il deserto. [… Ma] la sensazione di vivere un momento di scarsa attivazione politica è frutto di un’erronea illusione». Come dire… Quanto successo a inizio autunno non può che rafforzare la necessità di cercare nuove lenti con le quali guardare il nostro tempo. Con l’idea di costruire dunque uno strumento utile a tracciare nuove coordinate politiche per una militanza da reinventare e a connettere, come indica il sottotitolo, soggetti, movimenti e conflitti, il collettivo redazionale si sta costituendo a partire da una serie di eventi elaborati dalla rete Euronomade nel corso del 2024, apertasi a nuovi contributi e con l’ottica di dare vita a un progetto autonomo. Il collettivo redazionale di Teiko è tuttora in divenire. Immaginiamo questo progetto come una processualità aperta, che si potrà strutturare di numero in numero e anche in base a come si muoveranno le condizioni nelle quali lottiamo. Dagli anni Sessanta fino all’inizio dei Duemila, la produzione di riviste nel movimento italiano è stata una delle vie principali attraverso cui si è sviluppato il dibattito critico (pensiamo ad esempio all’importanza che queste hanno avuto nella tradizione dell’operaismo). Cosa significa, oggi, riconnettersi a quella eredità e reinterpretarla nell’attuale scenario politico e sociale? Lo sfondo storico che richiamate è sicuramente parte della genealogia di “Teiko”, ma non ci interessa «rifare una rivista», come in passato, o simili. Diciamo che la nostra ricerca nasce piuttosto dal domandarsi come poter elaborare un equivalente funzionale di quello che sono state in passato le esperienze delle riviste di movimento. Una delle necessità che vediamo oggi è quella di provare a contribuire a dare vita a un nuovo “noi” da inventare, costruire, creare, riempiendo un vuoto politico e aprendo uno spazio inedito, in cui ricominciare da capo con l’ottica di elaborare strumenti per una nuova militanza politica. Per questo, la rivista nasce in Italia, ma proietta la sua analisi all’interno del contesto globale in tumultuosa trasformazione, connettendo voci e prospettive, nella consapevolezza che il contesto territoriale non può essere separato da quello globale, con tutte le sue dinamiche, le sue contraddizioni, i suoi laceranti conflitti. Con questa rivista non intendiamo solo cartografare queste voci e prospettive, ma provare a interpretare politicamente questa cartografia e a dare un orizzonte di senso che possa concretizzarsi nella costruzione di convergenze. Infine, giustamente indicate nell’inizio degli anni Duemila il momento in cui le sperimentazioni di riviste si concludono. Cos’è successo? Tantissime cose, ovviamente, ma almeno una può valere la pena menzionarla: il ruolo di Internet. Indymedia prima, la stagione dei “portali di movimento”, poi i social media, fino a oggi – tutto ciò ha ampiamente trasformato la concezione del come si comunica, si fa informazione, inchiesta, teoria, dibattito… Oggi, lo ripetiamo, non si tratta evidentemente di “tornare indietro” nello sperimentare un “ritorno alla carta” come soluzione, ma di ri-sperimentarsi provando a lavorare su più piani e strumenti. Una rivista cartacea in questo senso ci sembra un qualcosa sul provare a investire per connettere forme di dibattito, formazione, inchiesta, produzione teorica. A chi è indirizzata la rivista? Quali luoghi e pratiche immaginate per la circolazione di “Teiko” e per il suo incontro con chi legge? In che modo pensate che possa essere utilizzata – nei movimenti, negli spazi sociali, nei percorsi di ricerca e di formazione politica? Una prima risposta potrebbe seccamente dire che “Teiko“ si indirizza a compagne e compagni, alle militanze politiche, all’attivismo diffuso, a che agisce nei movimenti sociali. Ma ci rendiamo conto che sono tutte parole che devono oggi essere riqualificate. Possiamo quindi dire che “Teiko“ si rivolge a tutte le persone che vogliano provare a capire il tempo che viviamo, che siano alla ricerca di un pensiero critico e di un dibattito. Il proporre una “rivista militante” è anche, in altre parole, parte di una ricerca collettiva da compiere su quali sono oggi le traiettorie di soggettivazione, quali i possibili terreni di incontro tra generazioni politiche differenti. E questo incide anche sulla seconda domanda. Teiko si compone di un sito, dove è possibile scaricare liberamente i numeri e che funziona anche come laboratorio per altri tipi di contributi: abbiamo ad esempio lanciato una call per un’inchiesta collettiva sul recente movimento. Stiamo costruendo anche dei profili social, e ragionando su come poter valorizzare le singole specificità di questi differenti strumenti oltre al cartaceo. Rispetto a quest’ultimo aspetto, oggi non esistono reti di distribuzione autogestita a livello nazionale e per chi conosce il mondo dell’editoria proprio il tema della logistica e della distribuzione è oggi elemento dolente, tra l’emergere di colossi come Amazon e il ruolo spesso parassitario delle aziende di distribuzione. Anche questa è dunque per noi una nuova sfida, che potrà muoversi tra spazi sociali e librerie indipendenti, aule universitarie e percorsi di lotta che potranno avere interesse a usare lo strumento-“Teiko” nei modi che più potranno essere opportuni. Come dicevamo prima, pensiamo che la rivista si presti a numerosi utilizzi e si tratterà di co-costruirli assieme alle persone e le realtà collettive che possano avere interesse a cooperare con noi. Quali urgenze vi hanno portato a scegliere l’organizzazione come tema del numero Zero? È una parola importante, densa, segnata da equivoci e ideologismi: qual è la posta in gioco intorno all’organizzazione, anche alla luce dell’enorme ondata di mobilitazioni a sostegno della Palestina? Come dite, il tema del numero Zero possiamo dire che è stato immediatamente riqualificato da quanto successo tra metà settembre e metà ottobre per la Palestina. E ci pare che lo rilanci. Certo, il riferimento all’organizzazione è antico quanto la storia dei movimenti rivoluzionari, ma pensiamo si ripresenti sempre in modo inedito nel corso della storia, e quindi anche nel nostro presente. L’organizzazione è presentata come “enigma”, nel numero Zero, che abbiamo dunque strutturato come un’inchiesta su come tale tema si è presentato come problema negli ultimi 15 anni di lotte, conflitti, insurrezioni, scioperi, movimenti. Per questo abbiamo elaborato una cartografia che porta in luce una serie di nodi che sono appunto rinvenuti al mettine anche negli ultimi mesi. Qual è il rapporto tra dinamiche transnazionali dei movimenti e le loro determinazioni territoriali – guardando ad esempio a Ni Una Menos, alla Palestina globale, a Black Lives Matter, ai movimenti climatici, alle forme acampada-Occupy, ai riot e alla insurrezioni che hanno punteggiato gli scorsi quindi anni? Su questo si componeva la prima sezione della parte monografica della rivista, mentre la seconda ragionava di come sono mutate alcune “forme politiche”, tra autonomie (femminismi, zapatismo, Rojava, spazi sociali italiani), forme mutualistiche e di lotta come GKN, le trasformazioni del sindacalismo (confederale e di base), o anche nuovi partiti che sono emersi, studiando in particolare il caso de La France Insoumise. Ecco, ci pare urgente oggi ridiscutere collettivamente di come, ad esempio, si è posto il rapporto tra sciopero, blocco e marea nella mobilitazione palestinese, di come si sono determinate le interazioni tra sindacati, movimenti e istanze internazionaliste come la Flottilla, ma soprattutto per pensare come andare avanti, ora. Per chiudere, lasciateci dire che oltre alla sezione monografica di volta in volta dedicata a un tema, “Teiko” si compone anche di altre due sezioni: Rubriche (che contiene racconti di lotte e inchieste, dialoghi con pensatori e pensatrici o realtà collettive, ma anche pagine su arte, report di seminari e frammenti di memorie) e Materiali (dove raccogliamo recensioni a libri, serie tv, dischi musicali, mappe e interviste). Quali saranno i prossimi terreni di ricerca che immaginate di esplorare con la rivista? Il prossimo numero, in uscita a dicembre, si chiamerà “Mondi”. Laddove nel numero Zero abbiamo elaborato un’inchiesta e una cartografia planetaria delle lotte dell’ultimo quindicennio, qui intendiamo proporre un’altra mappa focalizzata in primo luogo sui processi e le dinamiche che “strutturano il mondo” nel capitalismo contemporaneo. La sezione monografica sarà composta di una dozzina di interventi e interviste che spaziano dal ruolo di guerra, finanza e digitale quali vettori del mondo contemporaneo a come si stanno trasformando le spazialità – spaziando dal Sudan all’America Latina, dal Sud Est asiatico agli Stati Uniti, con anche forme di inchiesta che portano in luce il ruolo di frizioni, resistenze e lotte nel comporre il mondo unico e fratturato di oggi. In linea con l’idea processuale e in divenire di “Teiko”, chi ha letto il numero Zero potrà notare numerose novità nel prossimo numero, sia a livello di grafica e formato che nella sua interazione con il sito e i social. E possiamo già anticipare che per il 2026 intendiamo procedere in un lavoro collettivo di ricerca e inchiesta procedendo nella costruzione di una “architettura” che di numero in numero possa erigere nuove bussole, assemblando sguardi, analisi, intuizioni, teorie, inchieste che dall’Italia continuino a guardare al mondo. In questa direzione, stiamo riflettendo su due macro-ambiti per il 2026, che in via preliminare possiamo etichettare come “territori” e “digitale”. Ci sembra infatti che questi due vettori siano già a più riprese emersi nel corso dei numeri Zero e Uno della rivista e che possano costruire una necessaria integrazione e approfondimento di come movimenti e lotte di oggi si riproducono, diffondono, confliggono. La copertina è di Loke_Artemis da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le sfide della rivista “Teiko”: una bussola per orientarsi nel caos proviene da DINAMOpress.
Bari: i giorni di Benedetto Petrone. 28 novembre 1977
Ripubblichiamo questa testimonianza di Nicola Latorre di qualche anno fa, sulle giornata del 1977 che portarono all’omicidio di Benedetto Petrone. *** Pubblico questi brevi stralci su quelle giornate del ’77, tratti da una precedente mia collaborazione editoriale sulla storia antagonista in terra di Bari, perché la memoria è parte della […] L'articolo Bari: i giorni di Benedetto Petrone. 28 novembre 1977 su Contropiano.
Soldi per i quartieri, non per la guerra. Per il diritto alla casa e alla città! – di Comitato Inquilini Aler Torri Saponaro
Negli ultimi mesi Milano è stata al centro delle cronache e anche di molte iniziative politiche dal basso. Per un verso i tanti scandali politico-urbanistici, per un altro – strettamente intrecciato – la condizione sempre più insostenibile del vivere e dell’abitare nella “città modello”; a tenerli insieme la teorizzazione di diversi assessori e amministratori [...]
La “Marcia per la pace” a Parigi apre nuovi scenari
La Marcia per la pace a Parigi di questo martedì 11 novembre è stato un appuntamento inedito rispetto agli ultimi tre anni di mobilitazioni per la Palestina e contro la guerra. Una piattaforma politicamente netta – che condanna la NATO, il riarmo europeo, l’invio di armi in Ucraina e il […] L'articolo La “Marcia per la pace” a Parigi apre nuovi scenari su Contropiano.
La Palestina come bandiera universale contro i soprusi sulle nostre vite
di Dario Salvetti (Collettivo di fabbrica ex Gkn) Cosa c’entra la lotta che da quattro anni e mezzo portiamo avanti all’ex Gkn con le mobilitazioni contro il genocidio a Gaza? A dire la verità, la Palestina è presente in tutte Continua a leggere L'articolo La Palestina come bandiera universale contro i soprusi sulle nostre vite proviene da ATTAC Italia.
Scavare il linguaggio: l’insegnamento di Paolo Virno – di Christian Marazzi
La notte del 7 novembre 2025 è scomparso Paolo Virno. Filosofo e intellettuale critico e militante, appartente a Potere Operaio, negli anni Settanta fu indagato nell'ambito dell'inchiesta 7 aprile e poi scagionato da tutte le accuse. È stato redattore di Luogo Comune, rivista che per prima ha scandagliato le trasformazione del lavoro dopo la [...]