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(Abilitazione Scientifica) Nazionale senza filtro
Il Consiglio dei Ministri il 19 maggio 2025 ha approvato il disegno di legge dal titolo “Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario”. Roars ha già dato conto del testo nonché della relazione illustrativa. È opportuno procedere a un primo esame della proposta, da cui emergono immediatamente numerose e gravi criticità, sia nell’impostazione politica che nella scrittura tecnica del provvedimento. Esso intende aggiornare dopo 15 anni la legge Gelmini e la novità principale riguarda la procedura dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), che costituiva uno dei punti qualificanti della riforma. Secondo la relazione illustrativa, l’ASN avrebbe smarrito “la sua natura iniziale, … quella di accertare il possesso di un livello minimo di qualificazione e produttività scientifica basato su standard condivisi a livello nazionale”. Inoltre, si era “radicata l’aspettativa che” l’ASN conferisse “una sorta di diritto acquisito alla chiamata in ruolo,” destinata invece inevitabilmente a deludere la maggior parte degli abilitati dato il loro altissimo numero. In poche parole: un fallimento ammesso dalle stesse forze di governo che avevano fortemente voluto la riforma. Il rimedio, però, appare peggiore del male. La proposta è infatti quella di abolire le commissioni di valutazione e di rendere l’ASN puramente quantitativa mediante un’autodichiarazione degli interessati su una piattaforma telematica messa a disposizione dal Ministero. Se per i settori bibliometrici sopravviverebbe ancora una qualche forma di sbarramento (nonostante il fatto che a livello internazionale sia ormai acclarato che l’affidarsi solamente o prevalentemente a questi indici per la valutazione dei singoli ricercatori sia inaccettabile), per quelli non bibliometrici si andrebbero a calcolare i titoli in maniera puramente quantitativa, incoraggiando senza più alcuna remora la produzione di articoli spazzatura, pur di raggiungere i requisiti prescritti. La suddivisione delle riviste in due fasce infatti non funziona ed è piena di difetti: chi scrive lo dice a ragion veduta avendo fatto parte di uno dei Gruppi di Lavoro che valutava le domande delle riviste. Secondo la relazione, per integrare le soglie dell’ASN si terrebbero presenti “l’organizzazione o la partecipazione come relatore a convegni scientifici, l’attribuzione di borse di ricerca o di incarichi di collaborazione all’attività di ricerca, la partecipazione a progetti di ricerca aggiudicati sulla base di bandi competitivi, il conseguimento di premi riconosciuti per l’attività scientifica, i risultati in sede di trasferimento tecnologico etc.)”, nonché finalmente “una misurazione della produzione scientifica, integrandola con analisi della sua continuità e distribuzione temporale”. Una valutazione così complessa sarebbe affidata ancora una volta all’autodichiarazione, ma chi ha esperienza di commissioni di concorso sa bene quanto spesso i curricula tendano a enfatizzare e gonfiare questi dati, che qui sarebbero totalmente privi di validazione e controllo. Sempre nella relazione, si afferma che si intende “introdurre un sistema premiale per le università che assumono i migliori, ossia coloro i quali nel periodo successivo all’assunzione dimostrano con i loro indicatori di produttività, con le loro pubblicazioni e con la loro attività complessiva, di aver contribuito al miglioramento della qualità delle attività dell’università che li ha reclutati”. A parte il fatto che questo elemento è già presente (indicatore R2 della Valutazione della Qualità della Ricerca – VQR), non è chiaro che cosa esattamente abbia in mente il legislatore. Più avanti viene specificato che “la valutazione dei vincitori di tutte le procedure di reclutamento” va svolta “dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza biennale per la durata del rapporto di lavoro”. La relazione però non va d’accordo con il disegno di legge (art. 2, c. 5.d), che invece prevede la “valutazione, dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza triennale per la durata del rapporto di lavoro”. A parte il dettaglio, tale valutazione dovrà incidere sul computo delle assegnazioni del Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO). I casi sono due: 1. la valutazione deve metter su un carrozzone simile alla VQR, con tutto lo sforzo, la spesa e la distrazione dai compiti principali che ciò comporta. L’ipotesi sembra difficilmente realizzabile perché, a differenza della VQR quinquennale, il triennio (o il biennio) dipende dalla presa di servizio del docente o del ricercatore e dunque ha date sempre sfalsate e dovrebbe avere cadenza annuale interessando ogni anno una parte diversa del corpo docente, rendendo oltretutto i risultati disomogenei e non comparabili. Oppure 2. la valutazione è demandata alle sedi locali (cosa assai più semplice), ma poiché – come si sa – non bisogna chiedere all’oste se il vino è buono, gli atenei avrebbero tutto l’interesse a supervalutare ciascuno i propri docenti e ricercatori, rendendo inaffidabile la procedura. Arriviamo quindi – sempre nella relazione – alla “mobilità orizzontale attraverso il ‘trasferimento’ delle facoltà assunzionali (e delle relative risorse finanziarie)” il che avrebbe il fine di rendere “più attrattivo e conveniente il sistema di mobilità tra Atenei”. Non si capisce esattamente per chi risulterebbe più attrattivo, o forse si capisce fin troppo bene, in quanto i ricercatori scapperebbero tutti negli atenei più ricchi del nord svuotando in breve quelli del centro-sud e condannandoli alla sparizione nel giro di pochi anni, accelerando un processo già da tempo avviato in maniera più strisciante attraverso il sistema delle premialità. Si dice inoltre pudicamente che “potranno essere previste apposite premialità in favore degli Atenei ‘cedenti’ facoltà assunzionali,” ma – a meno che non si prevedano premialità equivalenti o superiori alle risorse e alle capacità assunzionali perdute – nessun ateneo sarebbe così suicida da accettare un “trasferimento unidirezionale”. Anche in quest’ultimo ipotetico (e irrealistico) caso, tuttavia, si tratterebbe comunque di un finanziamento aggiuntivo gratuito alle università più ricche e del drenaggio delle menti migliori dalle sedi più svantaggiate. In sintesi, per quanto riguarda l’impostazione generale del disegno di legge, l’abolizione del filtro nazionale dell’ASN confinerebbe i concorsi ancor più di quanto avvenga oggi in bolle localistiche e autoreferenziali, frantumando ulteriormente il già compromesso quadro unitario del sistema universitario nazionale; incentiverebbe la produzione massiva di articoli di scarsa o nessuna qualità; drenerebbe le menti migliori a favore delle università ricche del nord svuotando quelle meno privilegiate del centro-sud. Non è certo aumentando dal 20% al 25% le risorse da destinare a concorsi esterni che si risolve il problema, tanto più che contemporaneamente viene abolito il 33% delle risorse per bandi di ricercatori riservato a chi ha tre anni di dottorato o assegno di ricerca in altro ateneo (l’art. 24 c. 1 bis della Gelmini). Questo 25% inoltre aumenterebbe il costo del reclutamento per gli atenei mentre contemporaneamente si taglia pesantemente il FFO e non si forniscono fondi aggiuntivi per gli scatti stipendiali, tanto che molti atenei hanno di fatto già bloccato o fortemente limitato il turnover. In sintesi, si tratta di un disegno potenzialmente letale per il sistema nel suo complesso. È opportuno però entrare nei dettagli della proposta per vedere anche le gravi contraddizioni, che mostrano come gli estensori abbiano scarsa cognizione di come funzioni l’università italiana. Partiamo dalla composizione delle commissioni di concorso: servirebbero cinque membri per i docenti (fino a oggi ne bastavano tre e cinque era solo un’opzione), tutti ordinari per i concorsi di prima fascia, almeno tre ordinari (e due associati) per quelli di seconda fascia. Verrebbero mantenuti invece i tre commissari per i ricercatori (di cui uno ordinario e gli altri associati). Questo significherebbe aumentare pesantemente il fabbisogno di docenti commissari, complicando e rallentando i concorsi. Evidentemente chi ha scritto la norma viene da settori molto popolosi (medici, ingegneri, giuristi) e non si rende conto che invece molti settori vantano numeri molto bassi di ordinari. E nonostante questo si prevede “un principio di limite alla partecipazione a commissioni giudicatrici in uno stesso periodo di tempo” e “una serie di requisiti qualitativi e di equilibrio di genere, nonché finalizzati alla rotazione tra i professori chiamati a farne parte”, principi inapplicabili ai SSD poco popolosi. Sembra che non sia più possibile utilizzare come membro designato un esterno in quanto l’art. 2 c. 3 del disegno di legge prevede la presenza di “almeno un componente interno all’università che ha indetto la procedura, afferente al settore scientifico-disciplinare (SSD) di cui al bando di concorso.” E se l’università non ha nessun ordinario del settore e nemmeno del gruppo scientifico disciplinare (GSD) come si fa? Poiché inoltre il comma prevede la presenza nella commissione di “almeno quattro componenti esterni” e di “almeno un componente interno” ci si chiede se i componenti della commissione possano essere anche più di cinque. Infine, se il sorteggio va fatto “tra i docenti disponibili a livello nazionale, afferenti al settore scientifico-disciplinare”, ciò significa che – a differenza di quanto avveniva fino ad oggi – non si possono includere colleghi stranieri. Si tratta di una svista o di un caso di “sovranismo accademico”? e come la mettiamo con il diritto comunitario? Senza parlare del fatto che ci si affida a un sorteggio per la designazione della commissione: un bel salto che sconfessa la retorica del merito finora imperante, che prevedeva soglie dei commissari ASN superiori a quelle degli ordinari, per affidarsi invece alla roulette. Il merito della dea bendata. Forse le due uniche note positive sono da un lato la previsione che il SSD sia vincolante per la scelta dei commissari, visto che sono stati numerosi i concorsi in cui alla commissione mancavano membri del SSD del bando, sostituiti da altri provenienti da SSD differenti dello stesso GSD. Dall’altro che la graduatoria stilata dalla commissione è vincolante, ossia non è più ammesso il malcostume di designare una rosa di candidati da cui il dipartimento sceglie a suo piacimento. Si parla anche di valutazione da parte della commissione delle modalità di svolgimento della didattica, senza però chiarire che cosa significhi esattamente (valutazione del curriculum o lezione dimostrativa?), nonché della possibilità per il dipartimento di invitare il vincitore di concorso a tenere una lezione o un seminario. Questo però avverrebbe dopo la conclusione dei lavori della commissione. Che cosa significa dunque? Che se la lezione non piace al dipartimento il vincitore non viene chiamato? Sarebbe una procedura davvero bizzarra. Come si vede anche da un punto di vista tecnico il disegno di legge presenta una serie di punti interrogativi e di contraddizioni patenti. Il giudizio sul disegno di legge, dunque, non può che essere negativo e l’auspicio è che venga riscritto su basi completamente differenti.
Precariato: ecco la cassettina degli attrezzi by Occhiuto-Cattaneo-Galliani
Alla telenovela della riforma del preruolo si aggiunge un nuovo episodio. Se la cassetta degli attrezzi (il controverso DDL Valorizzazione e promozione della ricerca), con cacciaviti di ogni tipo e misura, non ha funzionato, perché non provare con una mini-cassettina, giusto una coppia di cacciaviti, uno a stella e l’altro a taglio? L’emendamento Occhiuto, Cattaneo, Galliani, Bucalo, Paganella, Fallucchi, approvato il 20 maggio dal Senato, è un copia-incolla parziale del DDL, di cui ripropone due profili precari e poco garantiti: i “contratti post-doc” ribattezzati “incarichi post-doc” e le “borse di assistente alla ricerca junior” ribattezzate “incarichi di ricerca”.  Gli incarichi post-doc, finanziati con fondi interni o da soggetti terzi, durano da uno a tre anni. Gli incarichi di ricerca sono ancora più discrezionali, in virtù del possibile conferimento diretto su indicazione del responsabile scientifico del progetto di ricerca. Sull’operazione incombe il possibile cartellino rosso europeo. In relazione alle riforme promesse dal PNRR è proibito fare marcia indietro (il cosiddetto reversal). È questa incognita che aveva frenato la cassetta degli attrezzi della Ministra Bernini. Introdurre figure precarie per tutti i gusti avrebbe vanificato una milestone del PNRR contenuta nella legge 79/2022: l’abolizione dell’assegno di ricerca e l’introduzione di un’unica figura post-doc, il Contratto di ricerca. La cassetta mille-pezzi era troppo ingombrante. Due cacciaviti stanno in tasca e l’UE potrebbe non accorgersene. Sempre che non ci mandino in serie B come il Monza. Em.to 1.0.1 Occhiuto_Cattaneo_testo 2-1
Hunger Games a Medicina
Nella nazione di Panem gli Hunger Games si svolgono ogni anno, in Italia ne è ora prevista un’edizione speciale, Hunger Games Med Edition, anch’essa con cadenza annuale: si immagina parteciperanno tra gli ottanta e i centomila studenti. La “meglio gioventù” italiana: solo uno su quattro, forse uno su cinque, potrà farcela. Non è però un numero chiuso, è un Hunger Game: “Ve lo do subito un consiglio. Restate vivi” (Haymitch Abernathy). Il provvedimento, voluto dalla ministra Bernini con le nuove regole per l’accesso a Medicina, è rappresentato per quello che non è, con l’effetto di fuorviare ed ingannare studenti. Il primo inganno, il principale, è la fine del numero chiuso. Il secondo inganno è la fine dei test. E’ il trionfo del paradigma performativo, una sorta di inno al liberismo competitivo calato nelle dinamiche della formazione universitaria, di cui questo percorso pare una caricatura più che una manifestazione: un semestre breve, frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo di regole chiare ed esposto alla volubilità degli uomini ed ai rischi della sorte.  > (1) ”CHE GLI HUNGER GAMES ABBIANO INIZIO!” (CLAUDIUS TEMPLESMITH) Con l’approvazione da parte della Camera del disegno di legge già votato in autunno dal Senato, e quindi con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge n. 26 del 2025, prende forma la revisione dell’accesso ai percorsi di laurea a ciclo unico in Medicina ed Odontoiatria: si definisce un percorso di accesso al numero chiuso che coinvolge direttamente anche Medicina Veterinaria e che indirettamente, ma in modo importante, interessa altri percorsi di laurea di area biomedica e farmaceutica. La pubblicazione nella Gazzetta n. 64, del 18 marzo, della legge recante “Delega al Governo per la revisione delle modalità di accesso ai corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria” conclude la prima fase di un percorso di riforma che avrà un impatto formidabile su tanti giovani, e sul nostro sistema sanitario, mai veramente oggetto di discussione. Sul disegno di legge delega, approvato in via definitiva l’11 marzo dalla Camera, c’è stato, certo, un dibattito parlamentare, ma colpisce il fatto che il lavoro istruttorio portato avanti nelle commissioni alla Camera, con tanto di audizioni di una parte importante del mondo della sanità e dell’istruzione, non abbia prodotto neanche un ritocco al testo già approvato dal Senato: un provvedimento dunque o non modificato perché in sé già perfetto, ma non vanno in questa direzione le osservazioni emerse in occasione delle audizioni né nel dibattito in commissione ed in aula, o perché, più semplicemente, politicamente “blindato”. Un provvedimento, va detto chiaramente, rappresentato per quello che non è, con l’effetto di fuorviare ed ingannare studenti che, ancora poco avvezzi alle dinamiche della politica domestica, ripongono ancora fiducia nelle istituzioni e quindi nelle dichiarazioni prese nelle sedi più autorevoli. Il tradimento di questa fiducia è di per sé un problema, di cui dovremmo preoccuparci. Il primo inganno è il principale, ed è relativo alla “fine del numero chiuso”: nel corso di questo scritto sarò più dettagliato, ma va subito chiarito che il numero chiuso resta, ed anzi è un pilastro del nuovo modello così come lo era di quello precedente. Solo che il numero chiuso non scatta subito, ma dopo un semestre, con effetti che paiono solo peggiorativi rispetto all’impianto in via di superamento. Si prevede, va detto, “il potenziamento delle capacità ricettive delle università” (art. 2, c. 2, lett. f) (che è in effetti ciò su cui si sarebbe dovuto lavorare sin dall’inizio), ad intendere sia corsi di laurea che borse di specializzazione (lett. g)), ma si tratta di un discorso di prospettiva e che non elimina, ma forse nel tempo amplierà, il numero chiuso. Il secondo inganno è relativo alla “fine dei test”: l’impatto organizzativo, l’esigenza di standardizzazione e di riduzione dell’influenza di preferenze e valutazioni “soggettive”, la necessità di evitare facili manomissioni e favoritismi, condurrà inevitabilmente (di più, auspicabilmente) alla predisposizione di prove omogenee, verosimilmente con test. E in ogni caso, l’esigenza di gestire in tempi brevi l’impatto di un numero consistentissimo di studenti porterà alla necessità di prevedere prove scritte (di nuovo, ragionevolmente, nella forma di test a risposta multipla). Questo però è un aspetto tutto sommato secondario, come proverò a spiegare meglio: solo un dettaglio rispetto all’impianto portante degli Hunger Games che porteranno a selezionare, attraverso un semestre di fuoco, i nuovi medici italiani e ad orientare gli altri, i “perdenti” della competizione, verso piani “B” che spesso sono piuttosto piani “C”. Stando al percorso, con l’approvazione della legge siamo di fronte ad un passaggio forse decisivo, ma sicuramente ancora lontani dal completamento di questo impianto riformatore: come forse non sempre ben evidenziato nel dibattito pubblico, infatti, la disciplina dettagliata del nuovo modello emergerà solo con l’esercizio, da parte del Governo, della delega legislativa. La legge delega contiene, però, una serie di elementi che già definiscono chiaramente alcuni aspetti del nuovo sistema, mentre per altri (non minori) sarà necessario aspettare il decreto delegato (che la Ministra annuncia in ogni caso destinato ad essere approvato in tempi ravvicinati). Si delinea, dunque, uno sconvolgimento delle modalità di accesso ai percorsi di medicina, odontoiatria e veterinaria; cambiamenti importanti per i “corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria”. Effetti sul complessivo sistema universitario, tanto più se consideriamo che la riforma non solo è, come spesso accade, a costo zero (i decreti attuativi dovranno attestare la “neutralità finanziaria” della riforma), ma addirittura gli studenti del “primo semestre comune” non contribuiscono al finanziamento delle università attraverso il fondo di finanziamento ordinario (FFO) (tra i principi/criteri della delega, infatti, c’è quello che il “numero di studenti iscritti al primo semestre […] non sia considerato ai fini del riparto annuale del Fondo per il finanziamento ordinario delle università”)(art. 2, c. 2, lett. i)).   > (2) “È IL TUO PRIMO ANNO PRIM, IL TUO NOME È LÌ DENTRO PER LA PRIMA VOLTA, NON > SCEGLIERANNO TE!” (KATNISS EVERDEEN) Nonostante si siano levate numerose obiezioni, informate e fondate, sulla possibilità che la riforma divenga efficace già dall’anno accademico 2025-2026 (quindi, in concreto, già da settembre), l’intenzione politica sul punto è chiarissima. Questa volontà di “fare in fretta” rischia di incidere sulla possibilità di “fare bene”: di norma marzo è il mese in cui le università completano i dettagli dell’offerta didattica, definendo le coperture degli insegnamenti e gli aspetti di contorno di un impianto già definito mesi prima, in un sistema di massima già rodato per il cui buon funzionamento sono necessari vari tasselli (anzitutto: i docenti, le aule, gli uni e le altre calibrate sulla numerosità attesa dei frequentanti e quindi con eventuali esigenze di “sdoppiamento” di cattedre, i programmi ed i libri di testo, con un lavorio che coinvolge anche le case editrici pronte ad arrivare preparate all’appuntamento dell’avvio dei corsi). L’impatto della riforma rischia, da questo punto di vista, di essere devastante se portata avanti in fretta e furia: si prospetta l’irrompere sul sistema universitario di almeno 80.000 aspiranti medici, col rischio (alimentato dall’immagine, erronea e falsante, su cui torneremo, del corso “ad accesso aperto”) che siano anche di più; questi studenti e studentesse dovranno seguire un percorso comune (a numerosi percorsi di area medica, biomedica, farmaceutica) che si immagina, in attesa dei decreti attuativi, potrà basarsi su esami di biologia, chimica, fisica. Prendo ad esempio un paio di corsi della mia università, diversi da medicina, coinvolti “indirettamente” dalla riforma, in quanto destinatari del “semestre comune”: a Farmacia, a Perugia, le “Chimiche” al primo semestre sono due (organica ed inorganica, rispettivamente da 6 e 10 crediti), Fisica è al secondo semestre, Biologia è un corso annuale da 11 crediti); a Biotecnologie, Chimica generale è al primo semestre (al secondo Chimica organica), Biologia contiene elementi di citologia ed istologia ed è un esame da 12 crediti, Fisica è un esame da 6 crediti del secondo semestre. Tra quelli coinvolti direttamente: a Veterinaria non c’è propriamente un esame di Chimica (ma di Biochimica, da 11 crediti) né uno di Fisica (ma di Fisica, statistica ed informatica applicate), Biologia è “Biologia animale”. La riforma di Medicina comporta l’esigenza di ritornare su tutti questi percorsi, ridefinirli, concentrare nel secondo semestre tutti gli insegnamenti diversi delle “generiche” materie di base (pensate, a questo punto, non più per un aspirante medico, cui, ad esempio, fornire tutte le nozioni di chimica utili per la professione, o al contrario per un farmacista che poi svilupperà ampiamente tutti i rami della chimica organica ed inorganica, e così via). Con un impoverimento nella preparazione, che sarà certo intensa, ma concentrata su tematiche generali e non orientate al percorso che poi si vorrà/potrà davvero seguire (come la fisica medica, che non coincide evidentemente con la fisica che interessa un chimico). E con un secondo semestre non meno complesso del primo, perché tenuto a concentrare tutta la preparazione specifica del primo anno: solo per fare un esempio, elenco di seguito esami, e crediti, previsti attualmente al primo anno di veterinaria (Anatomia degli animali domestici, 17 cfu, annuale; Biochimica generale, 11 cfu; Biologia animale, 5 cfu; Fisica, statistica e informatica applicate alla medicina veterinaria, 8 cfu; Istologia, embriologia generale e speciale veterinaria, 5 cfu; Agronomia ed economia, 6 cfu; Biochimica veterinaria e biologia molecolare, 5 cfu). La riforma sconvolge dunque l’offerta didattica, l’organizzazione dei corsi, la programmazione didattica (quali corsi e docenti in quale semestre), e costringe ragionevolmente a moltiplicare i corsi “generali comuni”, in modo da consentire la presenza in aula di un numero molto consistente di studenti. Forse addirittura, e di questa ipotesi si sente sempre più spesso parlare come verosimile e persino “ragionevole”, ad aprire all’ipotesi di corsi in teledidattica (che sin qui erano stati un tabù per medicina, ma le cose cambiano). L’effetto non si limita a questi percorsi, perché comporterà ragionevolmente l’esigenza per gli atenei di concentrare in questo semestre la didattica della gran parte dei suoi docenti di chimica generale, biologia generale, fisica generale, prendendoli anche da altri percorsi di studi. L’impatto sugli altri percorsi di studio di area medica (infermieristica, osteopatia, ecc.) è d’altra parte sottovalutato, dato il potenziale svuotamento del loro bacino vista la “facilità” (presunta, ma dichiarata) di accesso al percorso di medicina e chirurgia: qui il problema è anche diverso, considerato che (ad esempio) le domande per l’accesso a infermieristica sono in linea con i posti disponibili, e comunque i laureati infermieri non riescono a rispondere alle esigenze del settore. Domani avremo verosimilmente lo stesso numero di medici di prima, ma meno infermieri di adesso, per dirla sinteticamente. Non voglio tediare ulteriormente il lettore, per gli addetti ai lavori posso dire che la riforma comporta l’esigenza di modificare ordinamenti e regolamenti non solo dei percorsi di area medica, ma di tutti i percorsi interessati “indirettamente” dalla riforma. E queste modifiche saranno possibili solo allorché la riforma sarà approvata: ad intendere non la legge delega, ma quantomeno il decreto legislativo attuativo. La legge n. 26 del 2025 non prevede un’abbreviazione della vacatio legis, quindi entrerà in vigore ad inizio aprile. Da lì, a tenore della legge (e della disciplina legislativa e costituzionale che regola l’esercizio delle deleghe legislative da parte del Governo), dovrà attendersi: (a) L’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri “su proposta del Ministro dell’università e della ricerca, sentito il Ministro della salute”, di testi che “sono corredati di relazione tecnica” (art. 2, c. 3). (b) Ancorché limitatamente ad alcuni aspetti dalla riforma, il decreto deve essere adottato previo parere della Conferenza Stato-regioni. Per alcuni aspetti della riforma va acquisito il “concerto” del Ministro delle Finanze, o “sentito” il Ministro dell’istruzione”. (c) Sullo schema di decreto va acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti (ragionevolmente non solo della commissione Cultura, ma anche la commissione Affari sociali e sanità, forse anche la commissione Bilancio dovessero emergere spese con cambiamento di poste di bilancio dello Stato). (d) Sui decreti legislativi, il Consiglio di Stato rilascia un parere, che deve essere reso entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta. Anche ammettendo che la Ministra, ed il suo staff, abbiano sostanzialmente pronto il testo del decreto (avendo quindi sciolto i problemi di merito, non marginali, che restano irrisolti, come proveremo a spiegare di seguito), la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto, che peraltro richiederà ragionevolmente atti di indirizzo e ulteriori provvedimenti attuativi, non potrà ragionevolmente aversi prima di un paio di mesi: ben che vada, quindi, le questioni operative ed attuative dovranno dispiegarsi, nelle singole università, a partire da maggio. Un lavoro più complesso di quello che di solito si sviluppa nell’arco di dieci mesi dovrà articolarsi in meno di quattro, durante l’estate, per una attivazione dei corsi a settembre, percorsi rivolti ad un numero di studenti che gli atenei non sarebbero forse in grado di gestire neppure avendo tempi più lunghi per organizzarsi. Molti dei problemi strettamente organizzativi potrebbero essere ridimensionati dal ricorso, di cui si sente sempre più parlare, ad un “semestre” erogato in teledidattica, il che però peggiorerebbe vari aspetti della riforma (a partire dall’esperienza degli studenti, passando per la qualità della formazione). La prospettiva più probabile, ed auspicabile, è quantomeno quella di una entrata in vigore della riforma dall’anno accademico successivo (2026-2027), il che permetterebbe un’attuazione più organizzata e meditata di una riforma comunque criticabile. Il che consentirebbe alla coorte dei nati nel 2006 di risparmiarsi gli Hunger Games, salvo doversi attrezzare in fretta e furia per la preparazione dei test di accesso. > (3) “TU DEVI VINCERE!” (RUE) Una volta entrata a regime la riforma, quindi da settembre 2025 (stando alle intenzioni della Ministra) o dal settembre successivo, potremo assistere agli Hunger Games, Med edition. A psicologi e pedagogisti riflettere sull’effetto che potrà avere su una generazione ancora fragile, provata dall’esperienza della pandemia nella sua prima adolescenza, la “generazione di cristallo”, l’esperienza di entrare in un ambiente super competitivo, nel quale solo una parte minore (un quarto, forse un quinto) dei partecipanti potranno raggiungere gli obiettivi che si prefiggono. Peggio ancora se dovessero farlo nella solitudine delle proprie camere, attraverso piattaforme di teledidattica in un trimestre denso, come una corsa sui 60 metri. E’ vero che le aspirazioni di studenti e studentesse già si confrontano con un ambiente selettivo, nel quale però vi è un minore investimento, un tempo più disteso per valutare scelte alternative, la possibilità per i più determinati di “riprovare l’anno dopo” (magari iscrivendosi ad un altro corso, ad esempio Biotecnologie). L’esperienza universitaria ha bisogno di serenità ed a volte di tempo, un anno può essere un tempo adeguato ma sicuramente non lo è un breve semestre, nel quale non solo ogni incertezza rischia di essere pagata carissima, ma lo studente non ha neppure il respiro per prendere le misure con lo studio universitario e dimostrare le proprie capacità, dispiegare le proprie ali. L’università è un luogo di relazioni, una comunità di docenti e studenti, un’esperienza di crescita e scambio, ma di tutto questo non c’è traccia nella corsa in solitaria contro tutti che sembra destinata a svilupparsi tra settembre e dicembre. Esaminiamo però meglio il disegno della riforma, che peraltro richiede di essere riempita di contenuti e di dettagli decisivi attraverso il decreto delegato. Stando alla legge, gli studenti e le studentesse potranno iscriversi liberamente al primo semestre dei corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria, per la frequenza di percorsi che saranno attivati “secondo criteri di sostenibilità” da parte dei diversi atenei. Spetta al decreto delegato definire “le discipline qualificanti comuni che devono essere oggetto di insegnamento nel primo semestre” (per i corsi in esame, ma anche, come detto, per tutti i corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria), “garantendo programmi uniformi e coordinati e l’armonizzazione dei piani di studio dei suddetti corsi” (art. 2, c. 2, lett. c)). La legge entra quindi in profondità nella definizione dei contenuti dei corsi universitari, prevedendo la fissazione di “programmi uniformi e coordinati” (e poi di esami standardizzati), va detto con buona pace della libertà di insegnamento sancita dall’art. 33 Cost., con una sostanziale “licealizzazione”, quanto a capacità degli indirizzi ministeriali di standardizzare i contenuti della didattica, del percorso, delle metodologie di valutazione). Trattandosi di un riferimento espresso a un “semestre”, la previsione di un semestre-breve, di cui si parla, pare in contraddizione con il tenore testuale della delega. La disposizione chiave del nuovo modello è però contenuta nella lett. d dello stesso comma 2 dell’art. 2, che prevede che l’ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale di medicina, odontoiatria e veterinaria, “sia subordinata al conseguimento di tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre svolti secondo standard uniformi nonché alla collocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionale”. E’ chiaro che qui sta al decreto attuativo definire una serie di aspetti importanti, relativi anzitutto a come intendere e declinare la “standardizzazione” degli esami, ma anche forse a come assicurare che la graduatoria non sia falsata, ad esempio, da una sede che adottasse un atteggiamento troppo generoso con i propri studenti, con l’effetto di posizionarli utilmente nella graduatoria nazionale. Là dove invece non troverebbero posto gli studenti di sedi più rigorose e meno propense a dispensare con larghezza trenta, e lodi. La risposta può essere un algoritmo di normalizzazione, che tenga conto dei voti alla luce dei voti medi (ad esempio, mettendo in posizione utile in graduatoria quelli collocati nel “primo quartile” di ogni sede, o cose simili ma più raffinate di così), o forse addirittura in una prova nazionale successiva agli esami (ma questo porterebbe con sé un ritorno dei quiz, non ex ante ma ex post, così evidente da risultare difficilmente camuffabile), o un esame con prove definite a livello centrale (che però poterebbe di nuovo a quiz standard). In assenza di un filtro definito a livello nazionale, le valutazioni saranno rimesse alle sedi locali: è chiaro il rischio che si apre a favoritismi, un tema non a caso molto presente nel discorso pubblico e richiamato ripetutamente in sede di audizione (e d’altra parte l’abuso di ufficio non è neppure più reato, quindi si può cogliere del metodo in questa follia). Sarebbero quindi i professori del primo semestre, di fatto, a decidere chi diventerà dottore, e sarà decisiva quindi la loro generosità. Considerato che i tre esami di avvio saranno sicuramente impegnativi (si presume potrebbero essere Chimica generale, Fisica generale e Biologia generale), e considerato che i programmi saranno inevitabilmente molto estesi, è chiaro che il percorso presenta un grado di aleatorietà molto alto anche a prescindere dai rischi di maladministration. In questo percorso, è importante stringere alleanze (il che peraltro in teledidattica sarebbe più difficile), ma alla fine si vince da soli: sono le regole degli Hunger Games, d’altra parte. Chi supererà tutti gli esami potrà entrare in graduatoria, e se avrà una media superiore al 29 probabilmente si troverà in posizione utile. Chi non dovesse farcela potrà portare i suoi esami nel suo percorso di studi “piano B”, individuato in sede di iscrizione, ma questo solo se avrà superato tutti gli esami previsti. In sintesi, con un mezzo passo falso si è fuori da medicina, con un passo falso si perdono anche gli altri due esami superati che non possono essere conservati nel passaggio all’altro percorso di ripiego. La cosa è priva di senso, ma espressamente prevista dalla legge delega, che chiede di “garantire, nel caso di mancata ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale [di medicina, ecc.], il riconoscimento dei CFU conseguiti dagli studenti negli esami di profitto del primo semestre relativi alle discipline qualificanti comuni […] solo qualora siano stati conseguiti tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre, ai fini del proseguimento, anche in sovrannumero, in un diverso corso di studi […] da indicare come seconda scelta” (art. 2, c. 2, lett. e)). In Francia, dove il modello è sperimentato (ma nella forma meno frenetica di un percorso annuale, in un contesto diverso da molti punti di vista), sono diffuse le critiche a questo impianto e si parla della “generazione perduta” (o di “macelleria generazionale”) riferendosi agli studenti che non ce l’hanno fatta: perché è diverso non entrare e orientarsi diversamente prima dell’avvio del proprio percorso di studi universitari, dall’essere ammessi in un tritacarne per poi esserne cacciati perché non abbastanza duri, in gamba, vincenti, favoriti, fortunati. Il problema è dunque più profondo, legato non solo alle difficoltà nella transizione (troppo rapida, in termini di insostenibilità/impossibilità), ma al contenuto della riforma ed al suo possibile impatto sui suoi destinatari, i ragazzi e le ragazze che aspirano a diventare medici (odontoiatri, e veterinari sia pure qui con un rapporto più favorevole tra posti disponibili e numero di aspiranti). E’ il trionfo del paradigma performativo, una sorta di inno al liberismo competitivo calato nelle dinamiche della formazione universitaria, di cui questo percorso pare una caricatura più che una manifestazione: un semestre breve, frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo di regole chiare ed esposto alla volubilità degli uomini ed ai rischi della sorte. D’altra parte, sono queste le leggi degli Hunger Games. > “Felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!” (Effie > Trinket)