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Ecco il testo di riforma della governance degli atenei: e non c’è solo il rappresentante del governo nel CdA
Ecco il testo, finora segreto, della riforma della governance delle università partorito dalla commissione presieduta da Galli Della Loggia. Le due novità più rilevanti si conoscono già: la nomina da parte del ministro di un membro del CDA degli atenei e l’estensione ad 8 anni della durata in carica del rettore. Ma di novità ce ne sono altre. La composizione del CdA è blindata. Si prevedono al massimo 11 membri, già pre-definiti: oltre al membro di nomina governativa, ci saranno il rettore, il candidato rettore che ha perso le elezioni, 5 docenti (tre nominati dal senato, due dal rettore), due componenti esterni nominati dal rettore, uno studente eletto. Con questa struttura il Rettore avrà a suo favore 5 voti, e per garantirsi sempre la maggioranza di 6 a 5 dovrà contare sul voto del membro di nomina governativa. Nel testo della riforma si prevede, non a caso, che tutti i voti avvengano a maggioranza semplice. Da notare che vengono espulsi dal CdA i membri del personale tecnico amministrativo, e viene finalmente eliminata ogni possibilità che i membri vengano eletti, come qualche ateneo ad oggi prevede nel proprio statuto. A metà mandato del rettore si prevede una elezione di conferma, in cui il rettore è l’unico candidato. E in quell’occasione si svolgeranno anche le elezioni per il rinnovo dei direttori di dipartimento, votati in concomitanza con la prima elezione del rettore. Il tutto pensato, evidentemente, per favorire la armoniosa collaborazione tra rettore e direttori. Il testo prevede anche che il rettore sia votato da docenti, personale amministrativo e studenti definendo i pesi relativi del voto. Poiché il voto dei docenti non può pesare meno del 75% e quello degli studenti non può pesare meno del 5% se ne deduce che il 20% del PTA potrà essere compresso secondo necessità, a favore di docenti e/o studenti. Il Senato perde la sua dimensione collegale per essere frammentato in comitati che si occuperanno ciascuno delle “aree di sviluppo strategico dell’ateneo definite nel piano triennale”. Last but not least, il rettore deve tenere conto nella redazione del piano strategico di Ateneo di non meglio definite linee generali di indirizzo stabilite dal Ministro. Dalle indiscrezioni emergeva un quadro preoccupate. Il documento che pubblichiamo mostra chiaramente il disegno accentratrice della riforma. Il rettore dovrà allinearsi necessariamente agli indirizzi ministeriali. Per garantirsi la maggioranza in CDA potrà far conto dei fedelissimi da lui nominati in CDA e dovrà guadagnarsi il voto del rappresentante nominato dal governo. La voce di docenti, studenti e personale amministrativo sarà sempre più flebile. Un modello feudale con i rettori (nominati quasi a vita) nelle mani del ministro, e gli atenei nelle mani dei rettori. ipotesi_testo_riforma_art.2_L.240_Galli_della_Loggia    
La riforma enigmistica: unire i puntini
Il gioco di questa legislatura si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal disegno di legge costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata. L’ultimo “puntino” è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi: 1) un disegno di legge all’esame del Senato che modifica il sistema di selezione e reclutamento; 2) uno schema di regolamento governativo che interviene sulla  composizione e le garanzie di indipendenza dell’Anvur; 3) un terzo provvedimento che, in violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, prefigura consigli di amministrazione con componenti di nomina politica e rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro. Unendo i punti, il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: riduzione del pluralismo costituzionale, mortificazione dei diritti individuali, crescente verticalizzazione del potere. Quale futuro per la nostra collettività se venissero meno i pochi luoghi in cui si invitano i giovani a liberamente pensare, dissentire, criticare, e, in definitiva, a immaginare un futuro differente? Il gioco di questa legislatura, che forse non tutti hanno ancora provato a fare, si chiama “Unisci i puntini”. Si corre con un tratto di penna dal ddl costituzionale sul premierato a quello sulla separazione delle carriere, passando per il decreto sicurezza e l’autonomia differenziata, e il profilo che esce è una figura dai tratti autoritari: la riduzione del pluralismo costituzionale, fatto di equilibrio tra poteri e tra Stato ed autonomie, la mortificazione dei diritti individuali, la crescente verticalizzazione del potere. L’ultimo “puntino”, che a breve andrà ad unirsi agli altri, è quello dei provvedimenti in materia di università, su cui sono in preparazione tre atti normativi. Col primo, un ddl all’esame del Senato, si modifica il sistema di selezione e reclutamento di professori e ricercatori, abbandonando qualsiasi tentativo – pur insoddisfacente e perfettibile come l’attuale – di trasparenza e oggettività, e si ritorna ai concorsi locali, dove il nepotismo e gli abusi sono stati per anni alla radice di un diffuso malcostume accademico che troppo spesso esclude dalla docenza universitaria chi è fuori dalle cordate. Ciò avverrà in spregio ai principi costituzionali in tema di trasparenza, buon andamento dell’amministrazione, parità di chances, oltre che al principio di legalità. Oltretutto, senza risolvere il problema dei precari, che ammontano ormai a metà del corpo docente italiano. Nel secondo progetto, uno schema di regolamento governativo, si interviene sulla già discussa composizione e sulle garanzie di indipendenza dell’Anvur, la costosissima agenzia di valutazione a tutela della “meritocrazia” del sistema universitario. L’Anvur negli ultimi quindici anni ha iper-burocratizzato l’attività di chi fa ricerca, divenendo l’incubo di chiunque lavori negli atenei, costringendo i professori a dedicare larga parte del tempo a redigere montagne di carte inutili, anziché occuparsi di didattica e ricerca. Ciò che non si poteva immaginare è che la proposta ampliandone i poteri e rivedendo la composizione dell’Anvur, riducendo il numero dei componenti, avrebbe inciso ulteriormente sul pluralismo scientifico e culturale presente in seno all’organismo. Da anni si lamenta quanto siano flebili le garanzie di indipendenza dell’Anvur a fronte di compiti che incidono sulla libertà di ricerca prevista dall’art. 33 della Costituzione, visto che sulla base delle sue procedure e decisioni, non sempre trasparenti e inattaccabili, si erogano i finanziamenti agli atenei e si valuta la ricerca e il reclutamento di docenti e ricercatori. A fronte di ciò, l’unico organo di rappresentanza plurale ed elettiva del sistema universitario, il Consiglio Universitario nazionale, il CUN, che il Ministro dovrebbe consultare (soprattutto in momenti di così intenso lavoro legislativo), vede metà dei suoi componenti scaduti da undici mesi e non si ha notizia di una regolare ripresa delle votazioni per rinnovarne la composizione. Dulcis in fundo, nel terzo provvedimento, preparato da un tavolo di lavoro di nomina ministeriale, sembra prepararsi la stretta definitiva sul sistema universitario, già pesantemente condizionato dalla legge Gelmini del 2010. In violazione dell’autonomia universitaria prevista in Costituzione, funzionale alle libertà di ricerca e insegnamento che tutelano docenti e studenti, si prefigura una governance delle università di diretta derivazione governativa: Cda con componenti di nomina politica, rettori che agiscono sotto l’occhiuta vigilanza del ministro e da cui dipenderanno a catena tutte le cariche interne agli atenei (i cui mandati vengono allineati alla durata di quello dei rettori). Sta maturando, insomma, il passaggio dalla visione neoliberale di un’università azienda, incaricata di produrre il capitale umano necessario al mercato del lavoro, che già tradiva la missione costituzionale di offrire ai più giovani strumenti per la lettura critica del reale, a un’università che sembra preannunciarsi destinata a finire sotto il tacco del ministro di turno, gerarchizzata e sempre meno libera, come purtroppo inizia a trasparire dalle lettere con cui nelle scorse settimane, dalle stanze del ministero, si sono invitati i rettori a vigilare sul rispetto delle leggi da parte di studenti e personale accademico. Dalle università in molti hanno replicato auspicando, con tutto il rispetto, che al ministero si faccia altrettanto, prestando attenzione al rispetto della legalità, compresa quella costituzionale. Resta la preoccupazione su quale futuro si prospetti per la nostra collettività se i timori qui espressi fossero fondati, e venissero meno i pochi luoghi in cui si invita a liberamente pensare, dissentire, criticare, e stimolare le giovani menti a ragionare, creare, in definitiva immaginare un futuro differente. Pubblicato sul Fatto Quotidiano del 7 novembre 2025
Allarme università: è ora di mobilitarsi
Sono molto grato a Roars per la pubblicazione di questo mio intervento, che va inteso come un segnale di allarme rivolto a tutta la comunità universitaria italiana. I processi che avevo tratteggiato in Libera università (uscito nello scorso febbraio) sono puntualmente partiti, e le prossime settimane saranno decisive: la ‘riforma’ dell’università per la quale il governo aveva avuto delega parlamentare sarà approvata entro l’anno come collegato alla legge di stabilità. Dunque, se c’è un momento in cui mobilitarsi, quel momento è ora. Il progetto è molto chiaro: svuotare l’articolo 33 della Costituzione, mettendo quanto più possibile l’università sotto il controllo del potere esecutivo. Il modello è l’Ungheria di Orbán, già adottato come tale negli USA di Trump e Vance. E l’università non è ovviamente l’unico bersaglio: manifestazioni di piazza, libera stampa, magistratura sono egualmente nel mirino. Il potere esecutivo deve poter tutto controllare, in un disegno illiberale che torce la nostra democrazia in una forma autoritaria. Gli strumenti sono sul tavolo: a partire dalla progettata presenza del governo nei CdA degli atenei (dove oggi siedono già ben due revisori dei conti nominati da Mur e Mef: ma qua si vuole una presenza ‘politica’, con diritto di voto), e dal controllo governativo della valutazione di università e ricerca (attraverso la ‘riforma’ dell’Anvur). In ‘cambio’ il governo offre un sostanziale arbitrio locale nel reclutamento, il prolungamento dei mandati rettorali attuali (cioè due mali) e forse un piano straordinario di qualche generosità. Un piatto di lenticchie, avvelenate. In un Paese normale, a reagire dovrebbe essere in primo luogo la Crui, la conferenza dei rettori: visto che se passa la riforma del CdA, i rettori taglieranno nastri, e poco di più (e come insegna Orbán, questo sarebbe solo l’inizio…). Ecco, questa reazione non ci sarà. La nuova presidenza Crui (salutata con entusiasmo mai visto dalla stampa di estrema destra) ha chiarito che ‘non farà politica’. Quando mi sono accorto che all’audizione parlamentare sulla riforma Anvur del 21 ottobre, Crui risultava rappresentata da due colleghi uno dei quali siede al tavolo della riforma 240 (e non per indicazione Crui, ma per scelta del governo) ho chiesto spiegazioni sulla chat delle rettrici e dei rettori, domandando anche notizie circa la linea che avremmo espresso: ebbene, la reazione è stata la chiusura in diretta della chat stessa, che sarà trasformata in un canale broadcast in cui parli solo la presidenza. L’asilo Mariuccia al tempo di Salò si sarebbe regolato meglio. Ed è evidente che a questo punto il dibattito si sposta, per quanto mi riguarda, anche fuori da Crui, visto il clima di intimidazione ed evidente collateralismo al governo (i lettori di Roars già conoscono la vicenda della mia lettera relativa alle borse Iupals e alla circolare Mancini inoltrata sulla chat, e subito messa alla berlina su «Libero» e «il Giornale»…). Poi la presidenza ha finalmente comunicato la linea Crui per l’audizione: > «In relazione al d.p.r. Anvur e [sic] condivisibile l’obiettivo generale di > rafforzare la proiezione internazionale dell’Agenzia semplificandone al > contempo parte delle procedure operative. Alcune previsioni specifiche > dell’articolato contrastano però con questo obiettivo laddove prevedono una > limitazione del grado di autonomia dell’Anvur che ne metterebbe seriamente a > rischio l’appartenenza alle organizzazioni ed europee e internazionali di > valutazione della ricerca, e vanno conseguentemente modificate. Tale adesione > è presupposto indispensabile per l’accreditamento dei corsi di > specializzazione in medicina, per la partecipazione a titoli congiunti a > livello europeo e per permettere che ad Anvur vengano affidati compiti di > valutazione d parte di sistemi universitari di altri paesi». Tralasciamo la forma italiana: per carità di patria, e perché è il contenuto che preoccupa. Bene sottolineare che la conseguenza sarà l’uscita di Anvur dalle organizzazioni di valutazione internazionali: ma questo è solo uno degli effetti di una causa che non si ha nemmeno il coraggio di nominare. Questo elefante nella stanza è il controllo del governo, dell’esecutivo, della maggioranza politica, sulla valutazione dell’università. Un dispositivo di disciplinamento politico – sia chiaro – che sarebbe egualmente grave se opposto fosse il segno politico del governo: l’università deve essere libera dal governo in quanto tale, da qualunque governo. Per i prossimi giorni è stata anche convocata una assemblea straordinaria Crui sul tema: «Revisione L. 240/2010 – Governance: Senato, CdA, ruolo del Rettore e Direttore Generale». Un tema come si vede limitato e marginale (!) per una assemblea telematica programmata per ben un’ora (!!), e senza che possiamo discutere nessun articolato (!!!). Una linea che definire inadeguata è un benevolo eufemismo. Naturalmente, un gruppo di rettrici e rettori consapevoli dei rischi del momento si sta organizzando in chat e consultazioni indipendenti, attrezzandosi per difendere l’autonomia. Ma spero che le comunità dei vari atenei inducano proprio tutti i miei colleghi e tutte le mie colleghe della Crui a cambiare velocemente passo. Difendere l’autonomia dell’università non significa ‘fare politica’ in senso deteriore, significa invece permettere che l’università conservi la libertà garantita dalla Costituzione. Senza libertà, non c’è università. Al giuramento imposto dal governo nel 1931 disse ‘no’ solo una quindicina di professori (il numero canonico è 12) su 1251: oggi come andrà a finire?    
Valutare e obbedire. Il Governo vuole il controllo totale di ANVUR
La proposta di riforma dell’ANVUR rende finalmente evidente ciò che da anni era solo implicito: l’Agenzia è lo strumento con cui il governo attua il controllo centralizzato e indirizza le attività di università e ricerca. Con la riforma, nomine e attività di valutazione passano sotto l’iniziativa esclusiva del Ministro, riducendo drasticamente l’indipendenza tecnica di ANVUR. La proposta è già stata duramente bocciata dal Consiglio di Stato, che segnala contraddizioni con la legge istitutiva e mette in dubbio la legittimità di molte novità. Tutto ciò avviene in chiara contraddizione con i principi di libertà di ricerca e insegnamento ancora sanciti dalla Costituzione. Il governo intende varare la riforma del regolamento dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) tramite un decreto del Presidente della Repubblica, attualmente in discussione presso le commissioni parlamentari (qui la documentazione). PREAMBOLO. Malgrado i proclami sulla sua presunta autonomia, ANVUR è già, di fatto, controllata dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Il consiglio direttivo composto da 7 membri è definito dal Ministro dell’Università e della Ricerca che li sceglie da una rosa di 15 nominativi che gli viene sottoposta da una commissione di selezione. La commissione di selezione è composta da quattro membri nominati da enti esterni più un quinto membro nominato direttamente dal ministro. Tutti i membri del consiglio direttivo ANVUR restano in carica 4 anni e il presidente viene eletto tra di loro. Apparentemente distante, ma in realtà è il Ministro a assumere un peso determinante nella composizione dell’Agenzia. Tanto è vero che, attualmente, il Consiglio è incompleto: solo quattro membri, compreso il Presidente che siede in ANVUR dal lontano 2019. La ministra Bernini non ha infatti mai ricostituito l’organo, malgrado abbia in mano la rosa dei nominativi scelti dalla commissione di selezione da un anno (la commissione, dei cui lavori sui siti ministeriali non c’è traccia, era stata nominata nel 2023 e aveva pubblicato l’avviso di selezione per i candidati nel febbraio 2024). Voci dal MUR raccontano la rosa fosse sgradita alla ministra. In particolare sembra che la commissione abbia bocciato il prof. Marco Mancini (il presidente ANVUR che la ministra avrebbe desiderato). Il prof. Mancini che la ministra ha da poco nominato Segretario Generale del MUR, e che scrive irritualmente ai rettori chiedendo loro di tenere sotto controllo le proteste degli studenti. Lo stesso Mancini che qualche anno fa il Giornale annoverava tra i baroni rossi, il Mancini, sempre lo stesso, che anima da oltre un quindicennio le riunioni del Partito Democratico su università e ricerca, che è entrato e uscito dal MUR in vari ruoli con ministri di qualsiasi colore. In sintesi: anche l’attuale “leggera autonomia” dell’ANVUR appare troppo pericolosa alla ministra ed al gruppo di lavoro voluto dalla ministra e che ha suggerito la proposta di riforma. LA PROPOSTA DI RIFORMA  Il cuore della riforma è la modifica sostanziale della struttura dell’agenzia e delle modalità di nomina dei membri del direttivo. Oltreché la subordinazione dell’attività dell’agenzia alle direttive del Ministro del MUR. Nell’articolo 7 viene modificato il processo di nomina del Presidente dell’ANVUR destinato a restare in carica 5 anni, che passa a essere di diretta nomina ministeriale, indipendente dal Consiglio direttivo.  Con la nuova procedura, il Ministro istituisce un comitato di selezione che propone una terna di candidati, dalla quale il Ministro effettua la scelta finale, previa consultazione (non vincolante) delle Commissioni parlamentari. La nomina formale avviene poi con Decreto del Presidente della Repubblica. Il Presidente nominato può successivamente designare un vicepresidente all’interno del Consiglio. Questa riforma viene (orwellianamente) presentata come rafforzamento dell’indipendenza di ANVUR. Nell’articolo 8, la procedura di costituzione del Consiglio direttivo, la cui durata è confermata in 4 anni, viene anch’essa sottoposta al controllo diretto del Ministro. Il Consiglio passa da 7 a 5 membri, compreso il Presidente, e la nomina dei componenti è ora gestita dal Ministro. Dopo la raccolta delle candidature tramite bandi pubblici, un comitato di selezione propone terne di candidati, che includono tre rappresentanti di altrettante macroaree CUN (una invenzione estemporanea, che non rispecchia neanche la idiosincratica e unica al mondo divisione del mondo tra settori bibliometrici e non bibliometrici inventata da ANVUR anni fa) e un membro AFAM. Cambia anche la composizione del comitato di selezione: anziché definito da enti esterni anch’esso è scelto direttamente dal Ministro del MUR. E anche questa modifica viene orwellianamente giustificata come una misura a tutela dell’indipendenza dell’Agenzia. Per le attività di valutazione che, da norma primaria, sono di iniziativa dell’agenzia, la riforma prevede che siano assoggettate al volere del Ministro. Come si legge nella relazione illustrativa, ANVUR deve assicurare il: > rispetto dell’indirizzo politico dato dal Ministero dell’università e della > ricerca, quale Ministero vigilante. Questo si riflette, nella proposta legislativa, nella previsione che gran parte delle attività di valutazione avvenga solo “su richiesta del Ministro”. Queste attività sono ampliate, includendo in modo sistematico tutto il mondo AFAM. E sono ampliate anche in profondità prevedendo adesso che ANVUR valuti: > le competenze trasversali e disciplinari acquisite dagli studenti edalle > studentesse e gli sbocchi occupazionali dei laureati. La proposta di riforma toglie dai compiti di ANVUR la definizione – su richiesta del ministro – dei parametri di riferimento per l’allocazione dei finanziamenti statali, che torna nelle salde mani del MUR. La riforma elimina il riferimento alla cadenza quinquennale della VQR: termine considerato troppo rigido e troppo ampio per tenere conto della evoluzione del sistema della ricerca. E, infine, stabilisce (qualsiasi cosa questo significhi) che la valutazione della qualità dei prodotti della ricerca deve essere condotta > utilizzando criteri omogenei rispetto a quelli previsti per l’ammissione ai > concorsi universitari, valutati, ove possibile, tramite procedimenti di > valutazione tra pari. IL CONSIGLIO DI STATO FA A PEZZI LA PROPOSTA DI RIFORMA Cosa potrebbe mai andare storto se un gruppo di lavoro di iper-competenti professori universitari è chiamato dalla Ministra a scrivere un progetto di riforma? Potrebbe accadere che il Consiglio di Stato faccia a pezzi la proposta di riforma, proprio nei suoi punti chiave. Come è puntualmente avvenuto nel parere formulato nell’adunanza del 23 settembre 2025. Il Consiglio di Stato mette in evidenza una contraddizione: la proposta di riforma attribuisce al Ministro, tramite regolamento, il potere esclusivo di avviare alcune delle attività più importanti dell’ANVUR. Tuttavia, la legge (art. 2, comma 138, del decreto-legge 262/2006) assegna queste competenze direttamente all’ANVUR. In altre parole, la riforma toglierebbe all’Agenzia, attribuendoli al ministro, poteri che la norma primaria le riconosce espressamente. Il Consiglio di Stato, seppur con una fraseologia più educata, fa capire che non è disposto a bersi la storiella che questo serve a “riallineare” “il funzionamento [dell’ANVUR] agli standard europei (ESG)” e “a rafforzare il ruolo tecnico-istituzionale dell’Agenzia nell’ordinamento”. La riforma mira a subordinare l’attività dell’ANVUR alla volontà del Ministro, attribuendogli un potere esclusivo di iniziativa sulle funzioni più rilevanti dell’Agenzia. Una scelta che va in aperto contrasto con la legge istitutiva dell’ANVUR, la quale garantisce all’Agenzia autonomia organizzativa, amministrativa e contabile. La riforma, secondo il Consiglio di Stato, va in contrasto con  i principi costituzionali di libertà di ricerca e autonomia universitaria. Il Consiglio di Stato critica duramente la proposta di riforma anche per un altro aspetto: la concentrazione nelle mani del Ministro della nomina dei componenti del comitato di selezione e del Presidente dell’ANVUR. Dietro l’apparente “semplificazione” del procedimento, la riforma finisce per eliminare le garanzie di indipendenza che derivavano dal coinvolgimento di enti e istituzioni diversi dal Ministero, come previsto dalla normativa vigente. La legge istitutiva dell’ANVUR aveva voluto un sistema di nomine plurale e bilanciato, proprio per evitare, secondo il Consiglio di Stato, che l’Agenzia diventasse uno strumento politico. La proposta di riforma, invece, accentrando il potere di scelta nel Ministro, riduce la trasparenza e aumenta il rischio di nomine troppo discrezionali, basate su criteri vaghi come la generica “esperienza pluriennale”. Anche la nuova modalità di nomina del Presidente, non più eletto dal Consiglio direttivo ma designato dal Ministro, rappresenta un chiaro passo indietro rispetto all’autonomia organizzativa garantita dalla legge. In sintesi, sotto il pretesto della semplificazione, la riforma svuota l’indipendenza dell’ANVUR, trasformando un organismo tecnico e autonomo in uno direttamente dipendente dalle scelte del potere politico. Il Consiglio di Stato, con una pazienza quasi pedagogica, ricorda agli estensori della riforma un principio elementare del diritto amministrativo: un regolamento non può modificare una legge. Pare però che chi ha scritto la proposta non ne sia pienamente consapevole, visto che ha pensato bene di allungare da quattro a cinque anni la durata del mandato del Presidente dell’ANVUR, ignorando che la legge istitutiva (art. 2, comma 140, del d.l. 262/2006) stabilisce chiaramente una durata quadriennale per tutti i componenti del Consiglio direttivo, Presidente compreso. Come se non bastasse, l’interpretazione fantasiosa secondo cui il Presidente non farebbe parte del Consiglio direttivo (e quindi non sarebbe soggetto alla stessa durata di mandato) sfiora l’assurdo: significherebbe che il principale organo dell’ANVUR avrebbe un Presidente “fuori organigramma”, nominato e disciplinato dal nulla. In sostanza, il Consiglio di Stato deve ricordare ai riformatori che le norme di rango primario non si cambiano con un colpo di penna in un regolamento. Ma, a quanto pare, qualcuno al Ministero ha bisogno di un rapido ripasso in merito all gerarchia delle fonti del diritto. La perla finale riguarda il Direttore di ANVUR che la proposta di riforma trasforma in organo dell’agenzia e battezza Direttore generale. Il Consiglio di Stato segnala con discreta diplomazia un curioso paradosso: la riforma che proclama di “inasprire” le incompatibilità del Direttore generale in realtà le smantella quasi del tutto. La norma vigente vietava ogni rapporto professionale o pubblico potenzialmente conflittuale; la nuova versione lascia in piedi solo un divieto residuale – non lavorare per chi l’ANVUR valuta. Eppure, nella relazione illustrativa, questo alleggerimento viene descritto come una “disciplina più rigorosa”. Un capolavoro di burocratese orwelliano, dove restringere diventa ampliare e allentare diventa irrigidire. FINALMENTE CHIAREZZA Il Consiglio di Stato assume che l’assetto attuale dell’ANVUR garantisca già un sufficiente equilibrio tra autonomia e vigilanza ministeriale. Noi siamo più scettici. L’esperienza concreta mostra che l’ANVUR da tempo opera come un braccio amministrativo del Ministero, traducendo in “valutazioni” le linee politiche definite altrove. La riforma, più che introdurre una novità, rende esplicito ciò che da anni avviene nei fatti: l’Agenzia agisce su impulso politico, non come organo indipendente. Dietro il linguaggio neutro della “razionalizzazione” e della “trasparenza” la riforma consolida un modello di governo centralizzato, in cui la valutazione è il principale strumento di controllo del sistema universitario e della libertà accademica. Non sorprende che nel gruppo di lavoro che ha redatto la proposta siedano molti protagonisti delle politiche universitarie degli ultimi vent’anni, mentre mancano del tutto voci indipendenti o critiche. La riforma, insomma, non cambia la direzione di marcia: si limita a dichiararla apertamente. È il compimento di un processo che attraversa governi di ogni colore e che ha progressivamente trasformato la “valutazione” in governo politico mascherato da tecnica.  Oggi, con la proposta di riforma, cade ogni ambiguità: l’ANVUR è lo strumento del Ministero per controllare e dirigere il mondo accademico, in aperta tensione con quei principi di autonomia e libertà di ricerca che la Costituzione continua, almeno sulla carta, a garantire. Qua si può leggere l’analisi della proposta di riforma di FLC-CGIL.         
La ministra Bernini trasforma la contestazione in “propaganda rozza e regressiva”
Nel pomeriggio del 7 ottobre si è svolta presso l’università di Siena una cerimonia di accoglienza per 5 studentesse e 1 studente palestinese. Alla cerimonia era presente la ministra Anna Maria Bernini che nel cortile del rettorato è stata contestata da studentesse, studenti, cittadine e cittadini con bandiere palestinesi. Nella serata la ministra ha diffuso un comunicato sui social (Instagram, Facebook, X) accompagnato da un un video accuratamente montato che potete vedere qui sotto. Il coordinamento del precariato dell’università di Siena ha diffuso un documento in cui il video è descritto come un “caso esemplare di propaganda istituzionale rozza e regressiva, costruita su una retorica oppositiva che divide da una parte gli studenti e le studentesse che contestano, additati come il “male” dell’università e, paradossalmente, come nemici della Palestina; dall’altra, il governo, autoproclamatosi difensore della libertà e dei diritti umani”. Pubblichiamo di seguito il video diffuso dalla ministra, il documento del coordinamento del precariato dell’università di Siena e, in coda, il video con il montaggio indipendente dei giornalisti di Fanpage che documenta in modo completo quanto accaduto e che si conclude con le studentesse palestinesi che dalle finestre del rettorato si uniscono ai cori “Free Palestine”. Questo il montaggio video diffuso sui social dalla Ministra Bernini. Comunicato del Coordinamento del Precariato Universitario di Siena Come ricercatrici e ricercatori precari dell’Università di Siena esprimiamo la nostra più ferma indignazione per il video diffuso dalla ministra Anna Maria Bernini in seguito alla sua visita al Rettorato. L’operazione comunicativa messa in atto – segnata da un linguaggio sensazionalistico, da una traccia sonora a effetto, emotivamente manipolatoria, e da un impianto visivo da spot governativo – rappresenta un caso esemplare di propaganda istituzionale rozza e regressiva, costruita su una retorica oppositiva che divide artificiosamente il campo in due: da una parte gli studenti e le studentesse che contestano, additati come il “male” dell’università e, paradossalmente, come nemici della Palestina; dall’altra, il governo, autoproclamatosi difensore della libertà e dei diritti umani. È un capovolgimento indegno e pericoloso. Un linguaggio che criminalizza il dissenso e tenta di legittimare moralmente un potere politico che, negli stessi due anni in cui gli studenti manifestano per la fine del massacro, ha firmato accordi militari e forniture d’armi a uno Stato responsabile del genocidio in corso a Gaza, e il cui presidente del Consiglio è stata denunciata alla Corte penale internazionale per complicità in genocidio. Ricordiamo alla ministra Bernini che è ministra di tutte e di tutti, non di una parte politica né del proprio partito. La funzione pubblica non si esercita attraverso la spettacolarizzazione del dolore, ma attraverso la tutela della verità, del rispetto e della misura istituzionale. Ancora più intollerabile è la strumentalizzazione della vita delle studentesse e degli studenti palestinesi, evocati nel video come simboli di successo ministeriale, mentre il loro arrivo a Siena è stato reso possibile non di certo dall’ostinazione o dalla pervicacia del governo, ma dalla tenacia delle lotte, dalla mobilitazione di chi non ha smesso di pretendere giustizia e dal lavoro costante degli uffici universitari. Come ricordato anche nella comunicazione del Rettore Di Pietra pervenuta ieri, il risultato è frutto del lavoro corretto e responsabile di molte e molti, fra cui: – il professor Federico Lenzerini, Delegato per studentesse e studenti e per ricercatrici e ricercatori provenienti da aree di crisi, che ha seguito con rigore gli aspetti diplomatici; – i Dipartimenti di Economia Politica e Statistica e di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne, che hanno finanziato i bandi; – la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, che ha garantito un contributo determinante; – l’Ufficio gender equality, human rights e politiche integrate – Sportello avanzato Just Peace, che ha gestito con professionalità e dedizione le procedure di selezione, accoglienza e tutoraggio. Un risultato doveroso, che arriva dopo mesi di ritardi e incertezze, e che non sarebbe stato possibile senza la pressione costante delle mobilitazioni studentesche e senza il lavoro concreto di chi, negli uffici e nei dipartimenti, ha operato con serietà e misura, adempiendo fino in fondo alla propria funzione pubblica. Riconoscerlo non significa esaltare l’istituzione, ma restituire la verità dei fatti e la dignità di chi ha lavorato con scrupolo, al di là e nonostante l’inerzia della politica. Ridurre tutto questo a una narrazione autocelebrativa, sostenuta da un montaggio patetico e da una retorica patriottica fuori luogo, è un atto di mistificazione e di vergogna. Offende la verità dei fatti, la dignità delle persone coinvolte e l’autonomia dell’università. L’università è, per sua natura, un luogo di libertà critica e di produzione condivisa del sapere: non può e non deve essere trasformata in strumento di consenso politico né in vetrina ministeriale. La ricerca nasce dal dubbio, non dalla propaganda; si fonda sulla responsabilità, non sull’obbedienza. La conoscenza, se vuole restare tale, deve opporsi a ogni tentativo di falsificazione e farsi strumento di verità, di solidarietà e di giustizia. Ci auguriamo che anche il personale strutturato e i vertici dell’Ateneo vogliano prendere posizione contro questa vergogna promozionale. Non si va nelle università per fare propaganda politica: si va nelle università per portare i fatti, per ascoltare chi le vive ogni giorno e per rispettarne l’autonomia, la verità e la funzione pubblica. La misura è colma. Questo il video diffuso da Fanpage. Qui potete leggere l’articolo di Lidia Ginestra Giufrida.
(Abilitazione Scientifica) Nazionale senza filtro
Il Consiglio dei Ministri il 19 maggio 2025 ha approvato il disegno di legge dal titolo “Revisione delle modalità di accesso, valutazione e reclutamento del personale ricercatore e docente universitario”. Roars ha già dato conto del testo nonché della relazione illustrativa. È opportuno procedere a un primo esame della proposta, da cui emergono immediatamente numerose e gravi criticità, sia nell’impostazione politica che nella scrittura tecnica del provvedimento. Esso intende aggiornare dopo 15 anni la legge Gelmini e la novità principale riguarda la procedura dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), che costituiva uno dei punti qualificanti della riforma. Secondo la relazione illustrativa, l’ASN avrebbe smarrito “la sua natura iniziale, … quella di accertare il possesso di un livello minimo di qualificazione e produttività scientifica basato su standard condivisi a livello nazionale”. Inoltre, si era “radicata l’aspettativa che” l’ASN conferisse “una sorta di diritto acquisito alla chiamata in ruolo,” destinata invece inevitabilmente a deludere la maggior parte degli abilitati dato il loro altissimo numero. In poche parole: un fallimento ammesso dalle stesse forze di governo che avevano fortemente voluto la riforma. Il rimedio, però, appare peggiore del male. La proposta è infatti quella di abolire le commissioni di valutazione e di rendere l’ASN puramente quantitativa mediante un’autodichiarazione degli interessati su una piattaforma telematica messa a disposizione dal Ministero. Se per i settori bibliometrici sopravviverebbe ancora una qualche forma di sbarramento (nonostante il fatto che a livello internazionale sia ormai acclarato che l’affidarsi solamente o prevalentemente a questi indici per la valutazione dei singoli ricercatori sia inaccettabile), per quelli non bibliometrici si andrebbero a calcolare i titoli in maniera puramente quantitativa, incoraggiando senza più alcuna remora la produzione di articoli spazzatura, pur di raggiungere i requisiti prescritti. La suddivisione delle riviste in due fasce infatti non funziona ed è piena di difetti: chi scrive lo dice a ragion veduta avendo fatto parte di uno dei Gruppi di Lavoro che valutava le domande delle riviste. Secondo la relazione, per integrare le soglie dell’ASN si terrebbero presenti “l’organizzazione o la partecipazione come relatore a convegni scientifici, l’attribuzione di borse di ricerca o di incarichi di collaborazione all’attività di ricerca, la partecipazione a progetti di ricerca aggiudicati sulla base di bandi competitivi, il conseguimento di premi riconosciuti per l’attività scientifica, i risultati in sede di trasferimento tecnologico etc.)”, nonché finalmente “una misurazione della produzione scientifica, integrandola con analisi della sua continuità e distribuzione temporale”. Una valutazione così complessa sarebbe affidata ancora una volta all’autodichiarazione, ma chi ha esperienza di commissioni di concorso sa bene quanto spesso i curricula tendano a enfatizzare e gonfiare questi dati, che qui sarebbero totalmente privi di validazione e controllo. Sempre nella relazione, si afferma che si intende “introdurre un sistema premiale per le università che assumono i migliori, ossia coloro i quali nel periodo successivo all’assunzione dimostrano con i loro indicatori di produttività, con le loro pubblicazioni e con la loro attività complessiva, di aver contribuito al miglioramento della qualità delle attività dell’università che li ha reclutati”. A parte il fatto che questo elemento è già presente (indicatore R2 della Valutazione della Qualità della Ricerca – VQR), non è chiaro che cosa esattamente abbia in mente il legislatore. Più avanti viene specificato che “la valutazione dei vincitori di tutte le procedure di reclutamento” va svolta “dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza biennale per la durata del rapporto di lavoro”. La relazione però non va d’accordo con il disegno di legge (art. 2, c. 5.d), che invece prevede la “valutazione, dopo due anni dalla presa di servizio e con cadenza triennale per la durata del rapporto di lavoro”. A parte il dettaglio, tale valutazione dovrà incidere sul computo delle assegnazioni del Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO). I casi sono due: 1. la valutazione deve metter su un carrozzone simile alla VQR, con tutto lo sforzo, la spesa e la distrazione dai compiti principali che ciò comporta. L’ipotesi sembra difficilmente realizzabile perché, a differenza della VQR quinquennale, il triennio (o il biennio) dipende dalla presa di servizio del docente o del ricercatore e dunque ha date sempre sfalsate e dovrebbe avere cadenza annuale interessando ogni anno una parte diversa del corpo docente, rendendo oltretutto i risultati disomogenei e non comparabili. Oppure 2. la valutazione è demandata alle sedi locali (cosa assai più semplice), ma poiché – come si sa – non bisogna chiedere all’oste se il vino è buono, gli atenei avrebbero tutto l’interesse a supervalutare ciascuno i propri docenti e ricercatori, rendendo inaffidabile la procedura. Arriviamo quindi – sempre nella relazione – alla “mobilità orizzontale attraverso il ‘trasferimento’ delle facoltà assunzionali (e delle relative risorse finanziarie)” il che avrebbe il fine di rendere “più attrattivo e conveniente il sistema di mobilità tra Atenei”. Non si capisce esattamente per chi risulterebbe più attrattivo, o forse si capisce fin troppo bene, in quanto i ricercatori scapperebbero tutti negli atenei più ricchi del nord svuotando in breve quelli del centro-sud e condannandoli alla sparizione nel giro di pochi anni, accelerando un processo già da tempo avviato in maniera più strisciante attraverso il sistema delle premialità. Si dice inoltre pudicamente che “potranno essere previste apposite premialità in favore degli Atenei ‘cedenti’ facoltà assunzionali,” ma – a meno che non si prevedano premialità equivalenti o superiori alle risorse e alle capacità assunzionali perdute – nessun ateneo sarebbe così suicida da accettare un “trasferimento unidirezionale”. Anche in quest’ultimo ipotetico (e irrealistico) caso, tuttavia, si tratterebbe comunque di un finanziamento aggiuntivo gratuito alle università più ricche e del drenaggio delle menti migliori dalle sedi più svantaggiate. In sintesi, per quanto riguarda l’impostazione generale del disegno di legge, l’abolizione del filtro nazionale dell’ASN confinerebbe i concorsi ancor più di quanto avvenga oggi in bolle localistiche e autoreferenziali, frantumando ulteriormente il già compromesso quadro unitario del sistema universitario nazionale; incentiverebbe la produzione massiva di articoli di scarsa o nessuna qualità; drenerebbe le menti migliori a favore delle università ricche del nord svuotando quelle meno privilegiate del centro-sud. Non è certo aumentando dal 20% al 25% le risorse da destinare a concorsi esterni che si risolve il problema, tanto più che contemporaneamente viene abolito il 33% delle risorse per bandi di ricercatori riservato a chi ha tre anni di dottorato o assegno di ricerca in altro ateneo (l’art. 24 c. 1 bis della Gelmini). Questo 25% inoltre aumenterebbe il costo del reclutamento per gli atenei mentre contemporaneamente si taglia pesantemente il FFO e non si forniscono fondi aggiuntivi per gli scatti stipendiali, tanto che molti atenei hanno di fatto già bloccato o fortemente limitato il turnover. In sintesi, si tratta di un disegno potenzialmente letale per il sistema nel suo complesso. È opportuno però entrare nei dettagli della proposta per vedere anche le gravi contraddizioni, che mostrano come gli estensori abbiano scarsa cognizione di come funzioni l’università italiana. Partiamo dalla composizione delle commissioni di concorso: servirebbero cinque membri per i docenti (fino a oggi ne bastavano tre e cinque era solo un’opzione), tutti ordinari per i concorsi di prima fascia, almeno tre ordinari (e due associati) per quelli di seconda fascia. Verrebbero mantenuti invece i tre commissari per i ricercatori (di cui uno ordinario e gli altri associati). Questo significherebbe aumentare pesantemente il fabbisogno di docenti commissari, complicando e rallentando i concorsi. Evidentemente chi ha scritto la norma viene da settori molto popolosi (medici, ingegneri, giuristi) e non si rende conto che invece molti settori vantano numeri molto bassi di ordinari. E nonostante questo si prevede “un principio di limite alla partecipazione a commissioni giudicatrici in uno stesso periodo di tempo” e “una serie di requisiti qualitativi e di equilibrio di genere, nonché finalizzati alla rotazione tra i professori chiamati a farne parte”, principi inapplicabili ai SSD poco popolosi. Sembra che non sia più possibile utilizzare come membro designato un esterno in quanto l’art. 2 c. 3 del disegno di legge prevede la presenza di “almeno un componente interno all’università che ha indetto la procedura, afferente al settore scientifico-disciplinare (SSD) di cui al bando di concorso.” E se l’università non ha nessun ordinario del settore e nemmeno del gruppo scientifico disciplinare (GSD) come si fa? Poiché inoltre il comma prevede la presenza nella commissione di “almeno quattro componenti esterni” e di “almeno un componente interno” ci si chiede se i componenti della commissione possano essere anche più di cinque. Infine, se il sorteggio va fatto “tra i docenti disponibili a livello nazionale, afferenti al settore scientifico-disciplinare”, ciò significa che – a differenza di quanto avveniva fino ad oggi – non si possono includere colleghi stranieri. Si tratta di una svista o di un caso di “sovranismo accademico”? e come la mettiamo con il diritto comunitario? Senza parlare del fatto che ci si affida a un sorteggio per la designazione della commissione: un bel salto che sconfessa la retorica del merito finora imperante, che prevedeva soglie dei commissari ASN superiori a quelle degli ordinari, per affidarsi invece alla roulette. Il merito della dea bendata. Forse le due uniche note positive sono da un lato la previsione che il SSD sia vincolante per la scelta dei commissari, visto che sono stati numerosi i concorsi in cui alla commissione mancavano membri del SSD del bando, sostituiti da altri provenienti da SSD differenti dello stesso GSD. Dall’altro che la graduatoria stilata dalla commissione è vincolante, ossia non è più ammesso il malcostume di designare una rosa di candidati da cui il dipartimento sceglie a suo piacimento. Si parla anche di valutazione da parte della commissione delle modalità di svolgimento della didattica, senza però chiarire che cosa significhi esattamente (valutazione del curriculum o lezione dimostrativa?), nonché della possibilità per il dipartimento di invitare il vincitore di concorso a tenere una lezione o un seminario. Questo però avverrebbe dopo la conclusione dei lavori della commissione. Che cosa significa dunque? Che se la lezione non piace al dipartimento il vincitore non viene chiamato? Sarebbe una procedura davvero bizzarra. Come si vede anche da un punto di vista tecnico il disegno di legge presenta una serie di punti interrogativi e di contraddizioni patenti. Il giudizio sul disegno di legge, dunque, non può che essere negativo e l’auspicio è che venga riscritto su basi completamente differenti.
Precariato: ecco la cassettina degli attrezzi by Occhiuto-Cattaneo-Galliani
Alla telenovela della riforma del preruolo si aggiunge un nuovo episodio. Se la cassetta degli attrezzi (il controverso DDL Valorizzazione e promozione della ricerca), con cacciaviti di ogni tipo e misura, non ha funzionato, perché non provare con una mini-cassettina, giusto una coppia di cacciaviti, uno a stella e l’altro a taglio? L’emendamento Occhiuto, Cattaneo, Galliani, Bucalo, Paganella, Fallucchi, approvato il 20 maggio dal Senato, è un copia-incolla parziale del DDL, di cui ripropone due profili precari e poco garantiti: i “contratti post-doc” ribattezzati “incarichi post-doc” e le “borse di assistente alla ricerca junior” ribattezzate “incarichi di ricerca”.  Gli incarichi post-doc, finanziati con fondi interni o da soggetti terzi, durano da uno a tre anni. Gli incarichi di ricerca sono ancora più discrezionali, in virtù del possibile conferimento diretto su indicazione del responsabile scientifico del progetto di ricerca. Sull’operazione incombe il possibile cartellino rosso europeo. In relazione alle riforme promesse dal PNRR è proibito fare marcia indietro (il cosiddetto reversal). È questa incognita che aveva frenato la cassetta degli attrezzi della Ministra Bernini. Introdurre figure precarie per tutti i gusti avrebbe vanificato una milestone del PNRR contenuta nella legge 79/2022: l’abolizione dell’assegno di ricerca e l’introduzione di un’unica figura post-doc, il Contratto di ricerca. La cassetta mille-pezzi era troppo ingombrante. Due cacciaviti stanno in tasca e l’UE potrebbe non accorgersene. Sempre che non ci mandino in serie B come il Monza. Em.to 1.0.1 Occhiuto_Cattaneo_testo 2-1
Hunger Games a Medicina
Nella nazione di Panem gli Hunger Games si svolgono ogni anno, in Italia ne è ora prevista un’edizione speciale, Hunger Games Med Edition, anch’essa con cadenza annuale: si immagina parteciperanno tra gli ottanta e i centomila studenti. La “meglio gioventù” italiana: solo uno su quattro, forse uno su cinque, potrà farcela. Non è però un numero chiuso, è un Hunger Game: “Ve lo do subito un consiglio. Restate vivi” (Haymitch Abernathy). Il provvedimento, voluto dalla ministra Bernini con le nuove regole per l’accesso a Medicina, è rappresentato per quello che non è, con l’effetto di fuorviare ed ingannare studenti. Il primo inganno, il principale, è la fine del numero chiuso. Il secondo inganno è la fine dei test. E’ il trionfo del paradigma performativo, una sorta di inno al liberismo competitivo calato nelle dinamiche della formazione universitaria, di cui questo percorso pare una caricatura più che una manifestazione: un semestre breve, frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo di regole chiare ed esposto alla volubilità degli uomini ed ai rischi della sorte.  > (1) ”CHE GLI HUNGER GAMES ABBIANO INIZIO!” (CLAUDIUS TEMPLESMITH) Con l’approvazione da parte della Camera del disegno di legge già votato in autunno dal Senato, e quindi con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge n. 26 del 2025, prende forma la revisione dell’accesso ai percorsi di laurea a ciclo unico in Medicina ed Odontoiatria: si definisce un percorso di accesso al numero chiuso che coinvolge direttamente anche Medicina Veterinaria e che indirettamente, ma in modo importante, interessa altri percorsi di laurea di area biomedica e farmaceutica. La pubblicazione nella Gazzetta n. 64, del 18 marzo, della legge recante “Delega al Governo per la revisione delle modalità di accesso ai corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria” conclude la prima fase di un percorso di riforma che avrà un impatto formidabile su tanti giovani, e sul nostro sistema sanitario, mai veramente oggetto di discussione. Sul disegno di legge delega, approvato in via definitiva l’11 marzo dalla Camera, c’è stato, certo, un dibattito parlamentare, ma colpisce il fatto che il lavoro istruttorio portato avanti nelle commissioni alla Camera, con tanto di audizioni di una parte importante del mondo della sanità e dell’istruzione, non abbia prodotto neanche un ritocco al testo già approvato dal Senato: un provvedimento dunque o non modificato perché in sé già perfetto, ma non vanno in questa direzione le osservazioni emerse in occasione delle audizioni né nel dibattito in commissione ed in aula, o perché, più semplicemente, politicamente “blindato”. Un provvedimento, va detto chiaramente, rappresentato per quello che non è, con l’effetto di fuorviare ed ingannare studenti che, ancora poco avvezzi alle dinamiche della politica domestica, ripongono ancora fiducia nelle istituzioni e quindi nelle dichiarazioni prese nelle sedi più autorevoli. Il tradimento di questa fiducia è di per sé un problema, di cui dovremmo preoccuparci. Il primo inganno è il principale, ed è relativo alla “fine del numero chiuso”: nel corso di questo scritto sarò più dettagliato, ma va subito chiarito che il numero chiuso resta, ed anzi è un pilastro del nuovo modello così come lo era di quello precedente. Solo che il numero chiuso non scatta subito, ma dopo un semestre, con effetti che paiono solo peggiorativi rispetto all’impianto in via di superamento. Si prevede, va detto, “il potenziamento delle capacità ricettive delle università” (art. 2, c. 2, lett. f) (che è in effetti ciò su cui si sarebbe dovuto lavorare sin dall’inizio), ad intendere sia corsi di laurea che borse di specializzazione (lett. g)), ma si tratta di un discorso di prospettiva e che non elimina, ma forse nel tempo amplierà, il numero chiuso. Il secondo inganno è relativo alla “fine dei test”: l’impatto organizzativo, l’esigenza di standardizzazione e di riduzione dell’influenza di preferenze e valutazioni “soggettive”, la necessità di evitare facili manomissioni e favoritismi, condurrà inevitabilmente (di più, auspicabilmente) alla predisposizione di prove omogenee, verosimilmente con test. E in ogni caso, l’esigenza di gestire in tempi brevi l’impatto di un numero consistentissimo di studenti porterà alla necessità di prevedere prove scritte (di nuovo, ragionevolmente, nella forma di test a risposta multipla). Questo però è un aspetto tutto sommato secondario, come proverò a spiegare meglio: solo un dettaglio rispetto all’impianto portante degli Hunger Games che porteranno a selezionare, attraverso un semestre di fuoco, i nuovi medici italiani e ad orientare gli altri, i “perdenti” della competizione, verso piani “B” che spesso sono piuttosto piani “C”. Stando al percorso, con l’approvazione della legge siamo di fronte ad un passaggio forse decisivo, ma sicuramente ancora lontani dal completamento di questo impianto riformatore: come forse non sempre ben evidenziato nel dibattito pubblico, infatti, la disciplina dettagliata del nuovo modello emergerà solo con l’esercizio, da parte del Governo, della delega legislativa. La legge delega contiene, però, una serie di elementi che già definiscono chiaramente alcuni aspetti del nuovo sistema, mentre per altri (non minori) sarà necessario aspettare il decreto delegato (che la Ministra annuncia in ogni caso destinato ad essere approvato in tempi ravvicinati). Si delinea, dunque, uno sconvolgimento delle modalità di accesso ai percorsi di medicina, odontoiatria e veterinaria; cambiamenti importanti per i “corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria”. Effetti sul complessivo sistema universitario, tanto più se consideriamo che la riforma non solo è, come spesso accade, a costo zero (i decreti attuativi dovranno attestare la “neutralità finanziaria” della riforma), ma addirittura gli studenti del “primo semestre comune” non contribuiscono al finanziamento delle università attraverso il fondo di finanziamento ordinario (FFO) (tra i principi/criteri della delega, infatti, c’è quello che il “numero di studenti iscritti al primo semestre […] non sia considerato ai fini del riparto annuale del Fondo per il finanziamento ordinario delle università”)(art. 2, c. 2, lett. i)).   > (2) “È IL TUO PRIMO ANNO PRIM, IL TUO NOME È LÌ DENTRO PER LA PRIMA VOLTA, NON > SCEGLIERANNO TE!” (KATNISS EVERDEEN) Nonostante si siano levate numerose obiezioni, informate e fondate, sulla possibilità che la riforma divenga efficace già dall’anno accademico 2025-2026 (quindi, in concreto, già da settembre), l’intenzione politica sul punto è chiarissima. Questa volontà di “fare in fretta” rischia di incidere sulla possibilità di “fare bene”: di norma marzo è il mese in cui le università completano i dettagli dell’offerta didattica, definendo le coperture degli insegnamenti e gli aspetti di contorno di un impianto già definito mesi prima, in un sistema di massima già rodato per il cui buon funzionamento sono necessari vari tasselli (anzitutto: i docenti, le aule, gli uni e le altre calibrate sulla numerosità attesa dei frequentanti e quindi con eventuali esigenze di “sdoppiamento” di cattedre, i programmi ed i libri di testo, con un lavorio che coinvolge anche le case editrici pronte ad arrivare preparate all’appuntamento dell’avvio dei corsi). L’impatto della riforma rischia, da questo punto di vista, di essere devastante se portata avanti in fretta e furia: si prospetta l’irrompere sul sistema universitario di almeno 80.000 aspiranti medici, col rischio (alimentato dall’immagine, erronea e falsante, su cui torneremo, del corso “ad accesso aperto”) che siano anche di più; questi studenti e studentesse dovranno seguire un percorso comune (a numerosi percorsi di area medica, biomedica, farmaceutica) che si immagina, in attesa dei decreti attuativi, potrà basarsi su esami di biologia, chimica, fisica. Prendo ad esempio un paio di corsi della mia università, diversi da medicina, coinvolti “indirettamente” dalla riforma, in quanto destinatari del “semestre comune”: a Farmacia, a Perugia, le “Chimiche” al primo semestre sono due (organica ed inorganica, rispettivamente da 6 e 10 crediti), Fisica è al secondo semestre, Biologia è un corso annuale da 11 crediti); a Biotecnologie, Chimica generale è al primo semestre (al secondo Chimica organica), Biologia contiene elementi di citologia ed istologia ed è un esame da 12 crediti, Fisica è un esame da 6 crediti del secondo semestre. Tra quelli coinvolti direttamente: a Veterinaria non c’è propriamente un esame di Chimica (ma di Biochimica, da 11 crediti) né uno di Fisica (ma di Fisica, statistica ed informatica applicate), Biologia è “Biologia animale”. La riforma di Medicina comporta l’esigenza di ritornare su tutti questi percorsi, ridefinirli, concentrare nel secondo semestre tutti gli insegnamenti diversi delle “generiche” materie di base (pensate, a questo punto, non più per un aspirante medico, cui, ad esempio, fornire tutte le nozioni di chimica utili per la professione, o al contrario per un farmacista che poi svilupperà ampiamente tutti i rami della chimica organica ed inorganica, e così via). Con un impoverimento nella preparazione, che sarà certo intensa, ma concentrata su tematiche generali e non orientate al percorso che poi si vorrà/potrà davvero seguire (come la fisica medica, che non coincide evidentemente con la fisica che interessa un chimico). E con un secondo semestre non meno complesso del primo, perché tenuto a concentrare tutta la preparazione specifica del primo anno: solo per fare un esempio, elenco di seguito esami, e crediti, previsti attualmente al primo anno di veterinaria (Anatomia degli animali domestici, 17 cfu, annuale; Biochimica generale, 11 cfu; Biologia animale, 5 cfu; Fisica, statistica e informatica applicate alla medicina veterinaria, 8 cfu; Istologia, embriologia generale e speciale veterinaria, 5 cfu; Agronomia ed economia, 6 cfu; Biochimica veterinaria e biologia molecolare, 5 cfu). La riforma sconvolge dunque l’offerta didattica, l’organizzazione dei corsi, la programmazione didattica (quali corsi e docenti in quale semestre), e costringe ragionevolmente a moltiplicare i corsi “generali comuni”, in modo da consentire la presenza in aula di un numero molto consistente di studenti. Forse addirittura, e di questa ipotesi si sente sempre più spesso parlare come verosimile e persino “ragionevole”, ad aprire all’ipotesi di corsi in teledidattica (che sin qui erano stati un tabù per medicina, ma le cose cambiano). L’effetto non si limita a questi percorsi, perché comporterà ragionevolmente l’esigenza per gli atenei di concentrare in questo semestre la didattica della gran parte dei suoi docenti di chimica generale, biologia generale, fisica generale, prendendoli anche da altri percorsi di studi. L’impatto sugli altri percorsi di studio di area medica (infermieristica, osteopatia, ecc.) è d’altra parte sottovalutato, dato il potenziale svuotamento del loro bacino vista la “facilità” (presunta, ma dichiarata) di accesso al percorso di medicina e chirurgia: qui il problema è anche diverso, considerato che (ad esempio) le domande per l’accesso a infermieristica sono in linea con i posti disponibili, e comunque i laureati infermieri non riescono a rispondere alle esigenze del settore. Domani avremo verosimilmente lo stesso numero di medici di prima, ma meno infermieri di adesso, per dirla sinteticamente. Non voglio tediare ulteriormente il lettore, per gli addetti ai lavori posso dire che la riforma comporta l’esigenza di modificare ordinamenti e regolamenti non solo dei percorsi di area medica, ma di tutti i percorsi interessati “indirettamente” dalla riforma. E queste modifiche saranno possibili solo allorché la riforma sarà approvata: ad intendere non la legge delega, ma quantomeno il decreto legislativo attuativo. La legge n. 26 del 2025 non prevede un’abbreviazione della vacatio legis, quindi entrerà in vigore ad inizio aprile. Da lì, a tenore della legge (e della disciplina legislativa e costituzionale che regola l’esercizio delle deleghe legislative da parte del Governo), dovrà attendersi: (a) L’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri “su proposta del Ministro dell’università e della ricerca, sentito il Ministro della salute”, di testi che “sono corredati di relazione tecnica” (art. 2, c. 3). (b) Ancorché limitatamente ad alcuni aspetti dalla riforma, il decreto deve essere adottato previo parere della Conferenza Stato-regioni. Per alcuni aspetti della riforma va acquisito il “concerto” del Ministro delle Finanze, o “sentito” il Ministro dell’istruzione”. (c) Sullo schema di decreto va acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti (ragionevolmente non solo della commissione Cultura, ma anche la commissione Affari sociali e sanità, forse anche la commissione Bilancio dovessero emergere spese con cambiamento di poste di bilancio dello Stato). (d) Sui decreti legislativi, il Consiglio di Stato rilascia un parere, che deve essere reso entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta. Anche ammettendo che la Ministra, ed il suo staff, abbiano sostanzialmente pronto il testo del decreto (avendo quindi sciolto i problemi di merito, non marginali, che restano irrisolti, come proveremo a spiegare di seguito), la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto, che peraltro richiederà ragionevolmente atti di indirizzo e ulteriori provvedimenti attuativi, non potrà ragionevolmente aversi prima di un paio di mesi: ben che vada, quindi, le questioni operative ed attuative dovranno dispiegarsi, nelle singole università, a partire da maggio. Un lavoro più complesso di quello che di solito si sviluppa nell’arco di dieci mesi dovrà articolarsi in meno di quattro, durante l’estate, per una attivazione dei corsi a settembre, percorsi rivolti ad un numero di studenti che gli atenei non sarebbero forse in grado di gestire neppure avendo tempi più lunghi per organizzarsi. Molti dei problemi strettamente organizzativi potrebbero essere ridimensionati dal ricorso, di cui si sente sempre più parlare, ad un “semestre” erogato in teledidattica, il che però peggiorerebbe vari aspetti della riforma (a partire dall’esperienza degli studenti, passando per la qualità della formazione). La prospettiva più probabile, ed auspicabile, è quantomeno quella di una entrata in vigore della riforma dall’anno accademico successivo (2026-2027), il che permetterebbe un’attuazione più organizzata e meditata di una riforma comunque criticabile. Il che consentirebbe alla coorte dei nati nel 2006 di risparmiarsi gli Hunger Games, salvo doversi attrezzare in fretta e furia per la preparazione dei test di accesso. > (3) “TU DEVI VINCERE!” (RUE) Una volta entrata a regime la riforma, quindi da settembre 2025 (stando alle intenzioni della Ministra) o dal settembre successivo, potremo assistere agli Hunger Games, Med edition. A psicologi e pedagogisti riflettere sull’effetto che potrà avere su una generazione ancora fragile, provata dall’esperienza della pandemia nella sua prima adolescenza, la “generazione di cristallo”, l’esperienza di entrare in un ambiente super competitivo, nel quale solo una parte minore (un quarto, forse un quinto) dei partecipanti potranno raggiungere gli obiettivi che si prefiggono. Peggio ancora se dovessero farlo nella solitudine delle proprie camere, attraverso piattaforme di teledidattica in un trimestre denso, come una corsa sui 60 metri. E’ vero che le aspirazioni di studenti e studentesse già si confrontano con un ambiente selettivo, nel quale però vi è un minore investimento, un tempo più disteso per valutare scelte alternative, la possibilità per i più determinati di “riprovare l’anno dopo” (magari iscrivendosi ad un altro corso, ad esempio Biotecnologie). L’esperienza universitaria ha bisogno di serenità ed a volte di tempo, un anno può essere un tempo adeguato ma sicuramente non lo è un breve semestre, nel quale non solo ogni incertezza rischia di essere pagata carissima, ma lo studente non ha neppure il respiro per prendere le misure con lo studio universitario e dimostrare le proprie capacità, dispiegare le proprie ali. L’università è un luogo di relazioni, una comunità di docenti e studenti, un’esperienza di crescita e scambio, ma di tutto questo non c’è traccia nella corsa in solitaria contro tutti che sembra destinata a svilupparsi tra settembre e dicembre. Esaminiamo però meglio il disegno della riforma, che peraltro richiede di essere riempita di contenuti e di dettagli decisivi attraverso il decreto delegato. Stando alla legge, gli studenti e le studentesse potranno iscriversi liberamente al primo semestre dei corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria, per la frequenza di percorsi che saranno attivati “secondo criteri di sostenibilità” da parte dei diversi atenei. Spetta al decreto delegato definire “le discipline qualificanti comuni che devono essere oggetto di insegnamento nel primo semestre” (per i corsi in esame, ma anche, come detto, per tutti i corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria), “garantendo programmi uniformi e coordinati e l’armonizzazione dei piani di studio dei suddetti corsi” (art. 2, c. 2, lett. c)). La legge entra quindi in profondità nella definizione dei contenuti dei corsi universitari, prevedendo la fissazione di “programmi uniformi e coordinati” (e poi di esami standardizzati), va detto con buona pace della libertà di insegnamento sancita dall’art. 33 Cost., con una sostanziale “licealizzazione”, quanto a capacità degli indirizzi ministeriali di standardizzare i contenuti della didattica, del percorso, delle metodologie di valutazione). Trattandosi di un riferimento espresso a un “semestre”, la previsione di un semestre-breve, di cui si parla, pare in contraddizione con il tenore testuale della delega. La disposizione chiave del nuovo modello è però contenuta nella lett. d dello stesso comma 2 dell’art. 2, che prevede che l’ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale di medicina, odontoiatria e veterinaria, “sia subordinata al conseguimento di tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre svolti secondo standard uniformi nonché alla collocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionale”. E’ chiaro che qui sta al decreto attuativo definire una serie di aspetti importanti, relativi anzitutto a come intendere e declinare la “standardizzazione” degli esami, ma anche forse a come assicurare che la graduatoria non sia falsata, ad esempio, da una sede che adottasse un atteggiamento troppo generoso con i propri studenti, con l’effetto di posizionarli utilmente nella graduatoria nazionale. Là dove invece non troverebbero posto gli studenti di sedi più rigorose e meno propense a dispensare con larghezza trenta, e lodi. La risposta può essere un algoritmo di normalizzazione, che tenga conto dei voti alla luce dei voti medi (ad esempio, mettendo in posizione utile in graduatoria quelli collocati nel “primo quartile” di ogni sede, o cose simili ma più raffinate di così), o forse addirittura in una prova nazionale successiva agli esami (ma questo porterebbe con sé un ritorno dei quiz, non ex ante ma ex post, così evidente da risultare difficilmente camuffabile), o un esame con prove definite a livello centrale (che però poterebbe di nuovo a quiz standard). In assenza di un filtro definito a livello nazionale, le valutazioni saranno rimesse alle sedi locali: è chiaro il rischio che si apre a favoritismi, un tema non a caso molto presente nel discorso pubblico e richiamato ripetutamente in sede di audizione (e d’altra parte l’abuso di ufficio non è neppure più reato, quindi si può cogliere del metodo in questa follia). Sarebbero quindi i professori del primo semestre, di fatto, a decidere chi diventerà dottore, e sarà decisiva quindi la loro generosità. Considerato che i tre esami di avvio saranno sicuramente impegnativi (si presume potrebbero essere Chimica generale, Fisica generale e Biologia generale), e considerato che i programmi saranno inevitabilmente molto estesi, è chiaro che il percorso presenta un grado di aleatorietà molto alto anche a prescindere dai rischi di maladministration. In questo percorso, è importante stringere alleanze (il che peraltro in teledidattica sarebbe più difficile), ma alla fine si vince da soli: sono le regole degli Hunger Games, d’altra parte. Chi supererà tutti gli esami potrà entrare in graduatoria, e se avrà una media superiore al 29 probabilmente si troverà in posizione utile. Chi non dovesse farcela potrà portare i suoi esami nel suo percorso di studi “piano B”, individuato in sede di iscrizione, ma questo solo se avrà superato tutti gli esami previsti. In sintesi, con un mezzo passo falso si è fuori da medicina, con un passo falso si perdono anche gli altri due esami superati che non possono essere conservati nel passaggio all’altro percorso di ripiego. La cosa è priva di senso, ma espressamente prevista dalla legge delega, che chiede di “garantire, nel caso di mancata ammissione al secondo semestre dei corsi di laurea magistrale [di medicina, ecc.], il riconoscimento dei CFU conseguiti dagli studenti negli esami di profitto del primo semestre relativi alle discipline qualificanti comuni […] solo qualora siano stati conseguiti tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre, ai fini del proseguimento, anche in sovrannumero, in un diverso corso di studi […] da indicare come seconda scelta” (art. 2, c. 2, lett. e)). In Francia, dove il modello è sperimentato (ma nella forma meno frenetica di un percorso annuale, in un contesto diverso da molti punti di vista), sono diffuse le critiche a questo impianto e si parla della “generazione perduta” (o di “macelleria generazionale”) riferendosi agli studenti che non ce l’hanno fatta: perché è diverso non entrare e orientarsi diversamente prima dell’avvio del proprio percorso di studi universitari, dall’essere ammessi in un tritacarne per poi esserne cacciati perché non abbastanza duri, in gamba, vincenti, favoriti, fortunati. Il problema è dunque più profondo, legato non solo alle difficoltà nella transizione (troppo rapida, in termini di insostenibilità/impossibilità), ma al contenuto della riforma ed al suo possibile impatto sui suoi destinatari, i ragazzi e le ragazze che aspirano a diventare medici (odontoiatri, e veterinari sia pure qui con un rapporto più favorevole tra posti disponibili e numero di aspiranti). E’ il trionfo del paradigma performativo, una sorta di inno al liberismo competitivo calato nelle dinamiche della formazione universitaria, di cui questo percorso pare una caricatura più che una manifestazione: un semestre breve, frenetico, ketaminico, ipercompetitivo, privo di regole chiare ed esposto alla volubilità degli uomini ed ai rischi della sorte. D’altra parte, sono queste le leggi degli Hunger Games. > “Felici Hunger Games e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!” (Effie > Trinket)