Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi?Luci da dietro la scena (XXXI) – Siamo tutti palestinesi?
Qui in PDF: Luci da dietro la scena (XXXI)
C’è resistenza e «resistenza»
Sulle pagine del New York Times, «La resistenza in Ucraina si sta
intensificando», mentre «I combattenti di Hamas si nascondono sotto i quartieri
residenziali». «I combattenti ucraini lottano in clandestinità nelle periferie
che conoscono a fondo, usando auto-bombe e trappole esplosive, oltre a omicidi
mirati con le pistole», invece i combattenti di Hamas «nascondono le loro armi
in tunnel lunghi chilometri, e nelle case, nelle moschee e nei divani». Sulle
pagine del Times, entrambe le resistenze si stanno «mescolando alla popolazione
locale», «confondendo il confine tra civili e combattenti». Il giornale
dichiara: «operando in questa maniera, Hamas è responsabile di tanti morti tra i
civili, secondo la legge internazionale». Ma lo stesso giornale si compiace
quando il rapporto di Amnesty International, in cui si accusano i militari
ucraini di violare le leggi internazionali e di mettere a rischio le vite dei
civili perché agiscono negli ospedali, nei quartieri residenziali e nelle
scuole, «è stato accolto da una condanna diffusa e quasi universale».
Se leggi il Times, finisci per concludere che gli ucraini vanno in guerra nella
giungla di cemento perché, a differenza dei palestinesi, «hanno sempre meno
scelta quando si tratta di posizionare i loro soldati». L’Ucraina «si sta
difendendo dall’esercito russo che ha una potenza di fuoco largamente maggiore».
Ma «le tattiche di Hamas [in uno dei posti più densamente popolati della terra]
spiegano perché Israele è stato costretto a colpire così tante infrastrutture
civili, uccidere così tanti palestinesi e incarcerare così tanti civili».
La resistenza, nella mente occidentale, è un concetto mutante. Mentre la
resistenza ucraina è elogiata per le sue tattiche di guerriglia, la resistenza
palestinese – definita «terrorismo» – è sconcertante, perversa e patologica. I
media istituzionali non insistono su queste caratteristiche perché sussistono
differenze fondamentali nel modo in cui entrambe le resistenze esercitano
violenza. Né questo atteggiamento dipende interamente dal colore della pelle
degli ucraini: basta considerare l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) per
vedere che la pelle bianca da sola non è un biglietto vincente, per lo meno non
in una guerra contro il colonialismo britannico.
Piuttosto, i media utilizzano toni diversi perché sono a servizio degli
interessi strategici dell’Occidente. Mentre il regime colonialista
d’insediamento di Israele è l’alleato più importante degli Stati Uniti in Medio
Oriente, e praticamente una branca dell’Europa per proteggere l’imperialismo
occidentale, la Russia rappresenta una minaccia «esistenziale» per l’Occidente.
Perciò, non è certo una sorpresa che i giornali di proprietà delle classi
dominanti, e da esse manovrati, delegittimano la ribellione palestinese nelle
stesse pagine in cui celebrano quella degli ucraini. Per sostenere il progetto
sionista in Palestina, per proteggere le imprese militaristiche e capitalistiche
dell’impero nella regione, il combattente per la libertà palestinese deve
cadere. E di conseguenza, gli stenografi dell’impero normalizzano la
deumanizzazione dei palestinesi e demonizzano la loro resistenza. Quanti
palestinesi sono stati uccisi proprio da quelle stesse forze e istituzioni che
esigono «neutralità» e «imparzialità» da loro per poterne asserire
l’«innocenza»? In un modo o nell’altro, siamo tutti terroristi agli occhi dei
giornali più letti.
[…] Se vuoi umanizzare il palestinese, devi renderlo innocuo: ecco qual è il
problema.
[…] Quando l’esercito di occupazione israeliana ha ucciso il quindicenne Adam
Ayyad nel campo profughi di Dheisheh a Betlemme, le domande sono state: Ha
lanciato veramente una bomba molotov contro i soldati? Non è risaputo che gli
israeliani inventano storie del genere? Quando invece avrebbero dovuto essere:
Perché ci sono truppe israeliane a Betlemme, tanto per cominciare? Perché Adam
Ayyad è nato in un campo profughi? Perché c’è “molotov” nel titolo di un
articolo sui soldati che uccidono un ragazzino? E allora, se lancia una bomba
molotov? Chi non lo farebbe?
[…] L’invenzione del civile come figura “imparziale”, “neutrale” ha esacerbato
la depoliticizzazione della causa palestinese. Essere ritenuto un civile
significa esistere in una dimensione mitologica in cui siamo senza prospettiva.
La nostra causa, così com’è immaginata in questa mitologia, non è più percepita
come una lotta di liberazione, ma come una “crisi umanitaria”, in cui i
rivoluzionari non sono parte integrante della nostra nazione, motivati da
aspirazione politica e sogni di emancipazione. Vengono invece interpretati come
banditi che senza motivo causano scompiglio e lasciano sgomenti i passanti
indifesi: le donne e i bambini disinteressati, i paramedici e i giornalisti
imparziali.
Se questo è un bambino
Nel momento esatto in cui il palestinese esce dall’utero, viene privato
dell’infanzia – scaraventato via dall’infanzia da un «macchinario che esiste
sempre e ovunque» e trattato come uno zero buono a nulla e, allo stesso tempo,
come una pericolosa bomba a orologeria. Il palestinese è privato dell’infanzia
la prima volta che parla con suo zio dietro il vetro divisorio della prigione, o
chiede a sua zia perché vivono sotto i tetti in lamiera, o cerca di decifrare
che cosa è stato cancellato dalle insegne delle vie. O quando abbraccia suo
padre accanto a un blocco di cemento, dicendo a se stesso che le esplosioni che
sente sono soltanto fuochi d’artificio. O quando gioca a calcio sulla spiaggia.
Da qualche parte, lungo la stessa linea, il bambino palestinese s’imbatterà
nell’espressione «bambino ucciso illegalmente», usato per descrivere i suoi
coetanei ammazzati; un professore di Yale scriverà un articolo sull’Atlatic su
come «sia possibile ammazzare legalmente i bambini». E il cecchino eseguirà gli
ordini.
La palestinese è privata dell’infanzia la prima volta che supera un checkpoint e
sente la mano pesante di un estraneo sotto la sua camicetta, la prima volta che
si siede accanto al banco vuoto della sua compagna di classe. O quando prende
l’autobus per tornare a casa e guarda fuori dal finestrino e vede un’altra
studentessa in una pozza di sangue. Viene esiliata dalla sua infanzia la prima
volta che chiede perché sulla foto di sua madre c’è un nastro nero, o perché i
vicini piangono quando si congratulano con lei. La prima volta che lancia i
sassi su un mare di divise verde militare o imbeve uno straccio prima di
cacciarlo in un collo di bottiglia, o quando sente il bozzolo d’acciaio che
diventa una farfalla dentro il suo ginocchio [riferimento alle “pallottole a
farfalla” progettate per espandersi nel corpo al momento dell’impatto]. La prima
volta che un ragazzino palestinese sente la botta del martelletto del giudice, o
l’acciaio freddo sui polsi minuti, è costretto a diventare adulto. Osserva il
suo riflesso in una pozza di sputi; scopre di avere già i capelli grigi. Cresce
sotto la luna del neon, diventa grande nella sala degli interrogatori.
Siamo davvero tutti palestinesi? *
Noi, a migliaia e a milioni, mentre protestiamo in coro per le strade di New
York e Londra? Mi faccio questa domanda in modo incessante, con ossessione. Due
anni fa, avrei detto, dichiarato addirittura, che il cemento delle barriere
israeliane è proprio questo, cemento, e ha soltanto un peso simbolico. I loro
confini coloniali, per quanto ci provino, non recidono, e non potranno recidere
i legami sociali e nazionali che tengono insieme le nostre città isolate. I
nostri documenti diversi – documenti di viaggio, passaporti, lasciapassare o la
mancanza di questi – sono soltanto parole su una pagina, incapaci di dividerci.
Quelli che sono dispersi dietro i muri e il filo spinato, avrei detto, possono
comunque unirsi nei loro cuori. Eppure, io cammino per queste metropoli,
protestando – c’è repressione, ma ancora niente lacrimogeni – e Omar è in cella
in una prigione dell’Occupazione, in cui almeno sessanta prigionieri politici
palestinesi sono stati martirizzati dal 7 ottobre. A Khan Yunis, uomini in tuta
da ginnastica vengono uccisi con colmi di arma da fuoco al petto, alla testa,
nel coraggio della loro ultima azione, sia che stiano correndo verso un Merkava
corazzato [carro armato usato esclusivamente dall’esercito israeliano] o verso
una relativa sicurezza. Nel campo profughi di Shatila a Beirut, un nonno vive e
muore tormentato dalle visioni della sua vecchia casa sulla spiaggia, un ricordo
così viscerale che quasi riusciva a sentire il profumo del mare. A Gerusalemme,
mi preoccupo della casa della mia famiglia, di mio fratello che fa il pendolare
per andare al lavoro e dei poliziotti con il grilletto facile. Altri posti
potrebbero essere altri pianeti, ognuno con le proprie principali cause di
morte.
Nel Naqab i beduini palestinesi vengono sradicati e rimpiazzati da alberi di
pino tedeschi. A Silwan, le forze di occupazione demoliscono case per realizzare
una fantasia biblica. A Sheikh Jarrah, la pulizia etnica viene mascherata da
«disputa immobiliare». A Beita, i coloni costruiscono avamposti in cima alle
colline, i soldati assieme a loro. A Masafer Yatta, un giudice della Corte
Suprema israeliana – lui stesso un colono della Cisgiordania occupata – delibera
di espellere alcune migliaia di palestinesi dalle loro terre ancestrali, che
abitano e coltivano da generazioni. Di tutti i beni saccheggiati, la terra
rimane – senza ombra di dubbio – il più prezioso.
[…]
Per i palestinesi, la Nakba è implacabile e ricorrente. Succede al presente – e
succede ovunque sulla mappa. Non un solo angolo della nostra geografia viene
risparmiato, non una generazione sin dagli anni Quaranta. Per la mia famiglia,
la Nakba è stata l’esperienza di mia nonna, espulsa da Haifa dall’Haganah [«La
Difesa», organizzazione paramilitare sionista creata durante il mandato
britannico e poi integrata nell’IDF] nel 1948 – ma anche i suoi racconti che mi
avvisavano di quello che sarebbe stato inevitabilmente il mio destino quando i
coloni con l’accento di Brooklyn, protetti dall’esercito israeliano, hanno
occupato metà della mia casa a Sheikh Jarrah nel 2009, dichiarandola loro
proprietà per diritto divino. Per altre famiglie, la Nakba è cominciata quando
un’amata nonna è stata espulsa da Giaffa e ha cercato rifugio a Gaza, dove la
Nakba continua nel rombo degli aerei militari che sganciamo bombe sui campi
profughi sovraffollati, facendo conoscere ai suoi nipoti la loro prima (o forse
terza o sesta) guerra. Ci sono le facce di quei nipoti sui poster che non sono
ancora stati stampati.
[…] Una volta, riuscivo a separarmi con facilità dalle classi che a lungo ho
disprezzato, le élite, i borghesi, e quelle per cui la Palestina è una metafora
estetica. Ma una nuova classe è emersa nell’inferno angusto della Striscia di
Gaza: gli affamati e i reietti, cacciati più volte, senza fine, in maniera
implacabile, ed è impossibile essere qualcosa di più di uno spettatore
impotente, impossibile appartenere a quella classe, non senza lividi, non senza
sacrificio.
È una tentazione, quasi una consolazione, in particolare quando guardo il cibo
sulla mia tavola e il tetto sopra la mia testa, concedersi la colpa, ma è un
sentimento improduttivo: non dà vita alle rivoluzioni. […]
In questi giorni sono tormentato da un ritornello meno vistoso, ma più mortale,
una consapevolezza non voluta: Gaza ha il diritto di dimenticarci, di non
perdonarci mai, di sputarci in faccia. Quante guerre ha subìto? Quanti martiri
ha dato? Quanti corpi le sono stati rubati, strappati dall’abbraccio dei loro
padri? E quanti di noi balbettano quando ci viene chiesto della resistenza, o
quanti di noi rinnegano il nostro diritto a resistere, il nostro bisogno di
resistere?
Dal 7 ottobre, molti personaggi pubblici, molti di loro palestinesi, soprattutto
in Occidente, hanno riconsiderato, addirittura rinnegato, la catarsi che hanno
provato vedendo le immagini delle “ruspe palestinesi” che abbattevano pezzi del
muro israeliano di filo spinato che circonda Gaza. (Ho messo “ruspe palestinesi”
tra virgolette perché è una frase incredibile). Molti si sono pentiti di aver
festeggiato i deltaplani a motore che sfuggivano dal loro campo di
concentramento.
[…]
Lo slogan Siamo tutti palestinesi deve abbandonare la metafora e manifestarsi
materialmente. Significa che tutti noi – palestinesi e non palestinesi –
dobbiamo incarnare la condizione palestinese, la condizione di resistenza e
rifiuto, nelle vite che conduciamo e nelle compagnie che frequentiamo. Significa
che respingiamo la nostra complicità in questo bagno di sangue e la nostra
inerzia davanti a tutto quel sangue. Significa che Gaza non può stare da sola
nel sacrificio.
* Non ho alcun problema con il canto di protesta in sé; penso che sia piuttosto
bello.
Una nuova alba
Il sionismo, al di là della facciata della superpotenza impenetrabile che
afferma di essere, oggi è più vulnerabile che mai. E non lo dico ingenuamente:
non chiedo di glissare sulle capacità del nostro nemico o sul potere degli
imperi e dei mercenari che lo sostengono. Né chiedo di banalizzare il peso
schiacciante di centinaia di migliaia di martiri o di rendere glamour gli uomini
che affrontano i carri armati in tuta da ginnastica gravandoli con un peso
maggiore di quello che riescono a gestire. I combattenti per la libertà sanno
che il loro avversario è Golia, che le probabilità giocano a loro sfavore, che
non hanno scelta se non prendere la pietra. Ma questa è una nuova alba. Tramite
un’analisi approfondita – guardando i media di stato, ascoltando la narrazione
globale che sta cambiando, assistendo al rinascimento dei movimenti radicali,
persino leggendo le scritte nei bagni degli aeroporti – scopriamo che questa è
una nuova alba. Il sionismo può restare un avversario formidabile, ma è anche
una bestia tremante, una bestia che sta invecchiando, accecata dal suo stesso
significato, per quanto sia imprevedibile. A volte ti piomba addosso e affonda
le zanne nella tua carne. Altre volte, non è altro che una tigre di carta.
E questa scoperta non soltanto infrange il mito dell’invincibilità coloniale, ma
ci ricorda che la libertà è ottenibile, che il futuro è alla nostra portata. In
mezzo alle incessanti incursioni aeree e al caos delle città demolite, potrebbe
sembrare fatuo concentrare l’attenzione sul gelsomino in fiore. Ma ci meritiamo
di guardare ogni cosa, di cercare ogni cosa. Vedere il quadro con tutti i
particolari. Per quanto sia mortale e infida e inarrestabile, la Nakba non
durerà in eterno. Il mondo sta cambiando, perché deve cambiare. Se i semi sono
in grado di germogliare all’inferno, così fa la rivoluzione.
Non è teocrazia: è il sospiro della creatura oppressa
Al telefono, mia madre mi dice, la pioggia sta arrivando e Dio è onnipotente.
(Brani tratti da Mohammed El-Kurd, Vittime perfette e la politica del
gradimento, Fandango, Roma, 2025)