In Sudan l’emorragia non si ferma
Cosa sta succedendo in Sudan? È impossibile rispondere davvero a questa domanda
se intesa in termini politici oltre che umanitari, o almeno lo è da una
prospettiva europea. C’è chi legge la situazione sudanese come il risultato di
scontri etnici ereditati dall’epoca coloniale, chi significa la guerra come
frutto di conflitti d’interesse legati alla ricchezza di risorse presenti sul
territorio (oro, terre rare, gomma arabica, petrolio) e chi invece vede la crisi
umanitaria e politica come figlia di un vuoto di potere emerso durante e dopo la
lotta di liberazione dalla dittatura di Omar al-Bashir.
Sicuramente tutte queste ipotesi hanno un fondo di verità, tutte sono necessarie
ma non sufficienti a spiegare la più grande crisi umanitaria al mondo e i più
terribili crimini contro l’umanità della storia recente. Le Forze di supporto
rapido (Rsf) sono l’eredità della milizia Janjaweed, che nei primi anni Duemila
si è macchiata di crimini di guerra, contro l’umanità e persecuzioni di matrice
etnica: nel 2013, infatti, il governo a guida al-Bashir ha formalizzato il
gruppo paramilitare delle Rsf organizzando così l’allora formazione “a briglie
sciolte” Janjaweed sotto un’autorità più controllabile. Lo stesso Mohamed Dagalo
– detto Hemedti, attuale leader delle Rsf – era una figura di spicco tra le loro
fila. I gruppi che subivano le violenze dei Janjaweed, come i Masalit e i Fur,
sono gli stessi che subiscono le stragi delle Rsf.
Inizialmente le Forze di supporto rapido erano incaricate di sopprimere i
movimenti di insurrezione ed effettuare operazioni di “controllo dei confini”,
incarichi ben presto trasformatisi persecuzione etnica e crimini contro
l’umanità, per i quali sono sotto indagine dal 2023 presso la Corte Penale
Internazionale, in riferimento alle azioni all’interno del conflitto scoppiato
nell’aprile dello stesso anno. Anche le Forze armate sudanesi (Saf, esercito
nazionale “regolare”), non sono senza macchia: inizialmente sotto il controllo
del governo al-Bashir, di cui erano letteralmente il braccio armato, poi con la
guida di Abdel Fattah al-Burhan al fianco dei ribelli e delle Rsf nel suo
rovesciamento nel 2019. Dopo la destituzione del dittatore trentennale hanno
mantenuto la fragile alleanza con le Rsf, formando un governo di transizione con
una componente civile durato solo fino al 2021.
> Con un altro colpo di stato hanno assunto un potere di natura militare, ma la
> coalizione con la milizia – già di per sé problematica – ha retto solo fino al
> 2023: il 15 aprile è scoppiata la guerra civile che ancora oggi devasta il
> paese. Qui si comprende qualcosa di quel vuoto di potere, o meglio di quelle
> rivendicazioni di potere strabordanti e irriducibili fra loro, di cui sopra.
La ricchezza di risorse ha portato questo conflitto a eccedere i confini del
Sudan, interessando il Ciad, la Libia, il Sud Sudan e, soprattutto, gli Emirati
Arabi. Anche l’Egitto fa buon viso a cattivo gioco con il governo di al-Burhan,
basti considerare che il Nilo, prima di raggiungere il territorio egiziano,
passa per il Sudan: lì, infatti, confluiscono Nilo bianco e Nilo azzurro.
L’attore più controverso rimane Abu Dhabi: da sempre accusato dal governo di
Khartoum di foraggiare la guerra sostenendo le Rsf, a cui fornirebbe armi e
mercenari (anche internazionali, in particolare colombiani) in cambio di
risorse, ha di volta in volta rimandato le accuse al mittente, ma le prove di un
coinvolgimento sono ormai schiaccianti. Numerosi rapporti delle Nazioni Unite,
un primo datato gennaio 2024, un secondo aprile 2025, dimostrano una catena
logistica che dagli Emirati arriva fino a Nyala – capitale del Darfur del Sud
sotto il controllo delle Rsf – passando per Ciad orientale, Sud Sudan e Libia.
I report indicano un tracciamento di aerei cargo non registrati che, in
direzione Am Djarass (aeroporto del Ciad nordorientale), spariscono per qualche
ora dai radar all’altezza di Nyala, per poi ricomparire ad Am Djarass. Pur non
riuscendo a verificare il contenuto dei voli cargo, la catena logistica è
innegabile. Da Nyala si irradia la rete infrastrutturale che raggiunge tutte le
roccaforti della milizia, da ultima El Fasher. Da un altro report, questo
confidenziale ma pubblicato in esclusiva sul “Guardian“, emerge il ritrovamento
di passaporti emiratini sul campo di battaglia, nelle zone dello stato di
Khartoum precedentemente controllate dalle Rsf e poi riconquistate
dall’esercito.
> Lo stesso documento indica che gli Emirati potrebbero aver fornito droni
> modificati per lo sgancio di bombe termobariche, artiglieria controversa e con
> capacità di distruzione molto maggiori rispetto ad altri tipi di arsenale
> dello stesso calibro, testimoniate poi dalla sofferenza e dalla morte dei
> sudanesi che ne hanno subito gli effetti.
È bene ricordare, a questo proposito, che i bombardamenti non hanno mai
risparmiato siti civili: ne sono un esempio gli attacchi, perpetrati anche nei
primi mesi di quest’anno, sui mercati di El Fasher e Omdurman, che hanno
provocato decine di morti e centinaia di feriti. El Fasher, poi, è stata teatro
della più grande strage degli ultimi anni in Sudan: la sua capitolazione a fine
ottobre, per mano delle Rsf, ha comportato migliaia di morti e dispersi, decine
di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati.
Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e
Amnesty International, invocano un’indagine per crimini contro l’umanità sulle
azioni delle Rsf a El Fasher, che hanno rievocato e superato per crudeltà
l’assedio sul campo profughi di Zamzam (l’offensiva più devastante è avvenuta ad
aprile 2025). Senza un sostegno esterno, la milizia non avrebbe potuto
perpetrare queste atrocità, né conquistare tutto questo terreno: controlla
infatti ormai quasi tutta la regione del Darfur e parte del Kordofan – dove ha
già raggiunto alcune delle principali città, come Bara, e punta alla capitale El
Obeid.
IL COINVOLGIMENTO USA ED EUROPEO
Nel frattempo, l’aspirante Nobel per la pace Donald Trump ha messo in piedi una
task force dedicata alla crisi sudanese: il gruppo Quad vede tra le sue fila
Arabia Saudita, Egitto, Stati Uniti, e non potevano mancare proprio gli Emirati
Arabi. Si comprende come le proposte di un cessate il fuoco avanzate dal team
Quad avessero già perso in partenza, Al-Burhan ha definito l’ultima «la peggiore
ricevuta finora», perché, oltre alla presenza compromessa di Abu Dhabi, non
prevede il ritiro e disarmo delle Rsf, che hanno invece accettato volentieri il
piano, dichiarando unilateralmente un cessate il fuoco di tre mesi lunedì 24
novembre.
Tregua che già martedì 25 novembre è stata violata dalla milizia e i suoi
alleati: il Movimento popolare per la liberazione del Sudan del Nord (Splm-N),
parte del governo parallelo guidato da Hemedti, ha rapito oltre 150 ragazzi, tra
cui svariati minori, dalla miniera di Zallataya (Kordofan sud); le Rsf, invece,
hanno attaccato una base militare nel Kordofan occidentale (secondo una
dichiarazione dell’esercito che non è ancora stata verificata
indipendentemente).
Il consigliere speciale Usa per l’Africa Massad Boulos, inviato ad Abu Dhabi per
discutere di Sudan, ha invitato «tutte le parti ad accettare il piano così com’è
stato proposto, senza precondizioni», bocciando da subito le richieste di
al-Burhan di prevedere quantomeno il disarmo della milizia. L’Unione Europea,
dal canto suo, condivide le lacrime di coccodrillo trumpiane: dopo aver imposto
delle sanzioni al numero due delle Rsf, Abdelrahim Dagalo, emesse dal Consiglio
affari esteri, il Parlamento di Strasburgo il 27 novembre ha convocato una
votazione su una Risoluzione legata alle ingerenze esterne nella guerra in
Sudan.
> Se la prima bozza condannava direttamente il coinvolgimento degli Emirati,
> proponendo addirittura di interrompere il trattato di libero commercio delle
> armi con Abu Dhabi (che sarebbe semplicemente una mossa ottemperante
> all’embargo sulle armi e alla legislazione internazionale in materia di
> commercio bellico in teatri di guerra), il documento finale che è stato
> approvato non nomina neanche lo stato del Golfo persico.
La presenza, nelle vesti di osservatori, dei diplomatici emiratini durante il
voto parla da sé rispetto a questa virata angolare e repentina: Lana Nusseibeh,
l’inviata di Abu Dhabi per l’Europa, è volata a Strasburgo insieme al suo
entourage, dove ha partecipato a incontri con numerosi membri del Parlamento
europeo. A tracciare la sottile linea rossa che ha determinato la cancellazione
degli Emirati dalla risoluzione è stato il PPE, ma anche Marit Maij –
negoziatrice capo per il gruppo S&D (socialisti e democratici) – ha ammesso a
Politico di aver incontrato la delegazione emiratina su richiesta di
quest’ultima, affermando però di avergli fatto presente che gli elementi del
loro supporto alle Rsf sono schiaccianti.
Il sito europeo ha ironicamente sottotitolato il servizio: «Gli ufficiali
emiratini hanno condotto una spinta lobbista eclatante mentre i parlamentari
pasticciano una risoluzione sul devastante conflitto africano». Nel frattempo,
il 19 novembre, l’italiana Leonardo spa ha ufficializzato una Joint Venture con
il gruppo Edge (Emirati Arabi), di cui quest’ultimo deterrà il 51% e ne
commercializzerà i prodotti in casa.
Da tutto ciò emerge un filo di legami politici, economici e finanziari che
esulano dal contesto sudanese e rendono molto difficile individuare gli
interessi concreti che muovono gli attori esterni a interferire nel conflitto e
soprattutto la catena di beneficiari che non finisce certo ad Abu Dhabi.
Tracciare il profilo delle dinamiche estrattiviste, lobbiste e quasi sempre
neocoloniali non è semplice, ma a pagarle da più di cent’anni rimane il popolo
sudanese.
La copertina ritrae il campo profughi di Khor Abeche (Sud Darfur) dopo un
attacco delle Rapid Support Force avvenuto il 22 marzo 2014. L’immagine è di
Enough project (Flickr)
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