Totalitarismo: futuro, presente, passato. Xi, Trump, Franco
Il denominatore comune di questa settimana è il totalitarismo nazionalista nella
sua diversa composizione: nell’immediato futuro vede contrapposta la pretesa
nazionalista assodata da convenzioni più che trentennali che riconoscono Formosa
come parte dell’Unica Cina, che si contrappone all’altrettanto pretestuosa
posizione nipponica di una nostalgica dei criminali di Hiro Hito divenuta
premier a Tokyo che confonde anacronistiche rivendicazioni su isole a pretese
supremazie sull’area che si manifesta con scomposte minacce interventiste a
difesa del nazionalismo di Taiwan, per compiacere rivendicazioni ancora più
imperialiste e colonialiste della potenza unipolare dal crollo del Muro e che
sta per “esportare democrazia” questa volta nel patio trasero, ovvero la
riproposizione trumpiana di soffocare la rivoluzione bolivariana in Venezuela,
sostenendo però i punti di accordo ucraino trasmessi dal Cremlino. Tutto ciò
capita nel cinquantennale della morte del caudillo per antonomasia: Francisco
Franco è l’emblema dell’autoritarismo nazionalista, pervicacemente persecutore
di indipendentismi, afflati libertari, pulsioni all’autodeterminazione e alla
emancipazione dall’oscurantismo che tutti questi protagonisti incarnano.
Abbiamo quindi interpellato Rolando D’Alessandro sul mai risolto rapporto con il
quarantennio di cappa franchista sulla Spagna; Lorenzo Lamperti sulle strategie
che smuovono il quadrante indopacifico – e gli equilibri interni alla Cina di Xi
Jinping; Salvatore Minolfi ci aiuta a comprendere la scomposta e squilibrata
politica statunitense
COMINCIAMO DAL PRESENTE: UCRAINA E ALTRE PRIORITÀ DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP
Si è aperta la saga del fantomatico documento dei 28 punti proposti da Trump per
regolare la guerra in Europa, gira la storiella delle origini russe del
documento che se fosse realmente fondata, non si comprende come mai ci siano dei
punti inaccettabili per i russi. Questo documento dei 28 punti, molto
raffazzonato sembra essere un tentativo fatto da una parte dell’amministrazione
americana per riaprire il problema, il capitolo del negoziato, di fronte a due
grandi emergenze. Da una parte quello che sta succedendo sul campo di
battaglia, che ha preso una piega abbastanza chiara, dall’altra quello che
succede nel mondo politico ucraino, perché tutto questo polverone sul documento
dei 28 punti è riuscito a mettere tra parentesi o di lato, insomma, lo scandalo
nel quale l’amministrazione ucraina si era cacciata. Al momento in cui
pubblichiamo questo podcast si è dimesso travolto dallo scandalo Yermak, uomo
potentissimo e molto vicino a Zelensky nonchè mediatore nelle trattative.
Però il fatto che su questo documento si sia sollevato questo polverone e ci sia
stato un tale impazzimento di ricostruzioni è ancora una volta fondamentalmente
il segno della debolezza politica di Trump, perché il presidente non riesce ad
elaborare una proposta in grado di costruire un consenso. E la debolezza
politica di Trump su questo punto è il riflesso di un conflitto che è interno al
mondo politico americano e in particolare interno alla maggioranza che guida
adesso gli Stati Uniti.
Esiste un blocco senatoriale che si appoggia a Rubio, segretario di stato, che
non vuole arrivare a patti con la Russia. C’è un altra corrente all’ interno
all’amministrazione americana che invece ha un’idea completamente diversa.
Questa corrente è patrocinata da JD Vance, dal vicepresidente, che ha i suoi
punti di forza piazzati dentro l’amministrazione. Noi oggi vediamo questo
sconosciuto Dan Driscoll, inviato a Kiev per negoziare, che per questioni di
affinità generazionale è vicino a JD Vance e che è segretario dell’esercito, una
carica prevalentemente burocratica. Driscoll è a Kiev con l’idea che possa
invece rimettere tutto il processo negoziale su quella linea che è auspicata dal
vicepresidente che non è come Trump, è una persona che ha le idee abbastanza
chiare.
Il riferimento più importante di J.D. Vance all’interno dell’amministrazione è
il vicesegretario alla difesa, Elbridge Colby , che è stato nominato in quella
posizione ad aprile scorso. Contro la corrente che fa capo ai senatori Elbridge
Colby è il rappresentante lucido, formato, istruito di una tendenza che da anni
sostiene la necessità per gli Stati Uniti di disimpegnarsi dall’Europa e dal
Medio Oriente e di concentrare tutte le proprie risorse che vanno riprogettate
nel Pacifico. Cioè è la persona che più coerentemente incarna la visione del
pivot to Asia. Colby è fondamentalmente il capofila dei teorici della priorità
coloro credono che allo stato attuale dei rapporti di forza mondiali è rinata
una competizione tra grandi potenze, una competizione che era scomparsa nei 25
anni del dominio unipolare e che quindi nel contesto attuale di questa rinascita
della competizione tra grandi potenze, gli Stati Uniti devono fare delle scelte
e fare delle scelte è una cosa che gli americani hanno disimparato a fare .
La debolezza di Trump ,la divisione nell’amministrazione ,il retaggio dei
neocon, la difficoltà a dismettere la politica globalista generano caos ed
incertezza e il caos non gestito puo’ essere molto pericoloso .
Ne parliamo con Salvatore Minolfi autore del libro ” Le origini della guerra
russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione”.
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SVILUPPO TECNOLOGICO, RAFFORZAMENTO DEL MERCATO INTERNO, STABILITÀ POLITICA… E
“UNA CINA”
Il “consenso del 1992” ha permesso la convivenza contraddittoria del regime di
Taipei e di quello di Pechino nel principio irrisolto ma riconosciuto da tutti
di “una sola Cina”, finché la contesa a livello di maxipotenze sull’Indopacifico
non ha cominciato a far scricchiolare l’equilibrio. Stavolta tocca al
rinfocolato nazionalismo dell’arcipelago nipponico il compito di contrapporsi
alla possibile escalation in concomitanza del centenario del Pla, l’esercito
popolare dei lavoratori e del riarmo di Taiwan che ha promesso a Trump di
investire in armi americane 40 miliardi. L’avvento della fanatica revisionista
Takaichi Sanae aiuta Trump a spartirsi con Xi aree di influenza: The Donald
mette il guinzaglio alla scalpitante neopremier di Tokyo e Xi benedice i punti
del piano americano in Ucraina, un accordo probabilmente accennato a Busan e poi
sancito durante la telefonata tra Xi e Trump di qualche giorno fa. Si può
immaginare che sui vari piatti si trovino Ucraina, Medio Oriente, Taiwan a
sancire le sfere di influenza delle grandi potenze? Di questo abbiamo parlato
con Lorenzo Lamperti, sinologo di stanza a Taipei, allargando il discorso alla
cooperazione energetica sino-russa, che vede Pechino avvalersi di gas e petrolio
a un prezzo quasi dimezzato rispetto a quello che pagava l’Europa; inoltre a
livello interno si è svolto poco tempo fa l’insolito Plenum economico, che ha
visto il compiersi anche di nuove epurazioni a sancire un controllo ancora più
stretto di Xi sul Partito e sul paese, impostando le priorità a sviluppo di alta
qualità, autosufficienza tecnologica e sicurezza economica nel rafforzamento del
mercato interno e della stabilità politica
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