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“Adesso racconto quel che non avevo scritto nelle mie cronache dai paesi in guerra”
«Spero di aver dato un contributo utile a spiegare cosa succede veramente dove vengono combattute le guerre», ha esordito Giuliana Sgrena alla presentazione del proprio memoriale nell’incontro a Casale Monferrato ieri sera, 27 novembre, organizzato dalle associazioni cittadine Rete delle Alternative e collettivo Donne Insieme. Le inchieste ‘sul campo’ e corrispondenze ‘dal fronte’ che ha inviato a Il Manifesto hanno raccontato molte pagine della storia di tanti paesi di Medio Oriente e Africa. Inoltre, hanno narrato della vita quotidiana delle loro popolazioni tra una guerra e l’altra, i conflitti tra milizie di fazioni politiche e religiose ed etnie avversarie e le invasioni degli eserciti sconfinanti dalle nazioni vicine o provenienti dall’altra parte del mondo, le forze delle ‘grandi potenze’ armate di mezzi all’avanguardia tecnologica e di troupe televisive addestrate a mostrare all’opinione pubblica la loro ‘versione’ dei fatti. Nelle pagine del libro appena pubblicato da Editori GLF Laterza, intitolato Me la sono andata a cercare. Diario di una reporter di guerra, racconta una storia parallela a quella delle vicende di cui ha riferito per 30 anni, cioè quella della propria vita professionale trascorsa nelle guerre, situazioni in cui un giornalista che si espone ai ‘rischi del mestiere’ viene considerato un eroe, invece di una donna ferita o aggredita mentre fa questo lavoro si dice che ‘se l’è andata a cercare’. «Io non sono mai partita convinta di avere una verità in tasca – ha spiegato Giuliana Sgrena dialogando con Alberto Deambrogio, a sua volta corrispondente di Alernativ@ e Mirella Ruo del collettivo Donne Insieme – Ho sempre cercato di capire i vari tasselli che compongono le realtà complesse come i paesi colonizzati e i conflitti militari». Infatti ha ‘aperto gli occhi’ anche su orizzonti per lei inaspettati: «In Algeria le donne mi hanno insegnato a non “camuffarmi” indossando il velo come fanno le giornaliste occidentali all’arrivo in un paese arabo». Narrando le proprie esperienze ha spiegato come avviene la costruzione dei reportage e come si sono evoluti il giornalismo d’inchiesta e il lavoro dei corrispondenti dalle zone di guerra:«Ho voluto raccontare quello che non ho scritto quando ero impegnata a documentare i fatti mentre ero in luoghi dilaniati e devastati dai conflitti bellici». La realtà con cui si confronta un reporter di guerra infatti non è la stessa che governanti e militari vogliono che sia ‘narrata’ all’opinione pubblica, e Giuliana Sgrena lo ha dimostrato con molti esempi come funziona la propaganda di guerra. Quando lei aveva iniziato a lavorare come inviata dai paesi in guerra doveva anche ingegnarsi per trovare i mezzi con cui inviare le notizie in redazione. Le innovazioni tecnologiche hanno reso possibile comunicare facilmente e rapidamente da ogni posto, anche da trincee e città e zone assediate, perciò i giornalisti indipendenti sono stati man mano sempre più allontati dai fronti e via via anche dai territori e dai paesi in cui vengono combattutte le guerre. In quelle più recenti, come in Ucraina, l’accesso dei reporter è stato ostacolato in molti modi e nella Striscia di Gaza impedito del tutto, mentre i citizen journalist, cioè le persone del posto che inviavano foto, video e notizie alle redazioni, venivano minacciati, bersagliati e massacrati. Con la scusa di proteggerli dai pericoli, in realtà per controllare la divulgazione di informazioni, gli eserciti hanno ‘inglobato’ i corrispondenti dei mass-media istituzionalizzando la figura degli embedded reporter, in pratica ‘arruolando’ i giornalisti in truppe addestrate a produrre notizie in modo funzionale al perseguimento degli obiettivi militari. Finché ci sono persone che la vogliono sapere e giornalisti che la vogliono narrare, e la cercano, la verità può riuscire a trapelare anche dalla spessa corazza di segreti militari e di pretesti, falsità e menzogne che ammanta ogni guerra. Ma le informazioni che le correggono non producono lo stesso effetto delle fake news, come Giuliana Sgrena ha sperimentato anche direttamente. Ad esempio, siccome nei giorni della fine della seconda ‘guerra del Golfo’ era uno dei pochi giornalisti che si trovava a Baghdad, un redattore della RAI la chiamò dall’Italia per farsi raccontare dell’esultanza degli iracheni, enfaticamente esibita dai media americani: «Ma poi non trasmise quello che gli avevo riferito – ha spiegato Giuliana Sgrena – Gli avevo detto che la gente era chiusa in casa e, come anni dopo si è visto nelle immagini non artefatte di un reporter indipendente, al video che mostra l’abbattimento della statua di Saddam Hussein e che è diventato l’immagine simbolo della sconfitta di un dittatore nemico delle democrazie occidentali non c’era la folla che appariva nel filmato divulgato dalla tropue televisiva al seguito dell’esercito americano». Quando un gruppo islamista in Iraq l’aveva sequestra e il suo collega, Nicola Calipari, che si era prodigato per liberarla e l’accompagnava all’aeroporto di Baghdad venne ucciso da un soldato americano, ma i media americani e anche italiani hanno narrato questa vicenda in molte versioni, nessuna aderente e corrispondente al vero. Se un contrattempo non glielo avesse impedito, sarebbe stata a Mogadiscio negli stessi giorni in cui vi venivano uccisi Ilaria Alpi, che conosceva molto bene, Miran Hrovatin che l’accompagnava e la loro scorta. Premettendo che «Tutti i giornalisti che allora lavoravano in Somalia sapevano dell’esistenza del traffico di armi e rifiuti tossici su cui indagava anche Ilaria, che però non aveva scoperto niente di sensazionale, anzi…», Giuliana Sgrena ha spiegato che la reporter e il cameraman erano arrivati nella città in rivolta ignari della situazione e, soprattutto, non sapendo di essere un bersaglio dei ribelli perché erano italiani come i militari che avevano torturato molti somali e gestito una casa di prostituzione. Nel riferire di aver scoperto che i miliziani somali avevano infierito su Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per vendetta, non per sventare la minaccia dei giornalisti ‘insidiosi’, Giuliana Sgrena ricorda di esser riuscita a capirlo con l’aiuto di una coraggiosa donna somala che poi è stata assassinata forse proprio perché testimone di questa verità ‘scomoda’. Di un direttore de Il Manifesto, Luigi Pintor, che quest’anno compirebbe 100 anni, Giuliana Sgrena ha ricordato che da Enrico Berlinguer era considerato il miglior giornalista italiano e che quando lei era Baghdad mentre la situazione precipitava e in ogni redazione si decideva se dire agli inviati di fuggire oppure di restare, lui affermò che nessuna guerra vale la vita di chi la racconta agli altri. Maddalena Brunasti