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Stile e lezioni di Pintor
Il mio rapporto con il gruppo storico del “manifesto” è stato altalenante, perché agli inizi degli anni ’60 le nostre posizioni di opposizione all’interno del Pci erano diverse, accomunate prevalentemente dalla critica della destra amendoliana, ma diverse nel giudizio su Togliatti e nella pratica oppositoria (io ero un “entrista”, figura archeologica imposta dal divieto di correnti organizzate dal basso). Comunque il mio apprendistato nella Fgci l’avevo fatto a “Nuova Generazione” sotto la direzione di Luciana Castellina e di un altro maestro eccezionale di giornalismo, Sandro Curzi. La frequentazione di Ingrao e della sinistra ingraiana veniva dunque da sé, con percorsi paralleli. Il rapporto era più facile con quelli che erano di poco più grandi di me e con Natoli, che per il ruolo politico tenuto a Roma aveva una grande capacità interlocutoria. Rossanda, in apparenza la più inavvicinabile per età, biografia “milanese” e statura intellettuale, aveva invece un’insaziabile curiosità per le idee nuove e per questi “giovani”, stimolando il dialogo e il confronto. Luigi Pintor aveva un carattere più riservato, al limite dell’ostico, ma l’ammiravo moltissimo come giornalista (allora dirigeva il quotidiano del Pci e fu fatto fuori da Alicata, che io consideravo quasi un nemico personale per le mie esperienze al “Contemporaneo”, a “Critica marxista” e sulle questioni ideologiche in generale (ebbe peraltro i suoi meriti resistenziali e prima ancora aveva sceneggiato Ossessione per Visconti). > Pintor, come Natoli, aveva fatto la resistenza antinazista nella Roma occupata > e questo conferiva loro, come ai gappisti di via Rasella, un’aura di rispetto > presso i ragazzi con le magliette a strisce che erano scesi in piazza contro > Tambroni nel 1960 immaginandosi di ripetere Porta San Paolo 1943. Vabbè, sono storie di altri tempi, in cielo volavano ancora gli pterodattili, mica i droni. Poco dopo tornammo tutti, volenti o nolenti, a respirare aria libera. Era arrivato il ’68 – e una mano al suo scoppio gliela avevamo data tutti ma l’evento ci sorpassava di gran lunga ed era internazionale – eravamo ormai fuori del Pci e con la successiva segmentazione (sciagurata ma inevitabile) del movimento in partitini ci trovammo agli estremi opposti dello spettro politico “sovversivo”. Il manifesto quotidiano restava però un punto di riferimento ineludibile e per tanti anni facevo il mio pellegrinaggio affabulatorio una volta a settimana a via Tomacelli, libreria e redazione, passando di stanza in stanza a salutare i compagni, fino a concludere con lunghe conversazioni, al piano e al bar di sotto, con Valentino Parlato – che non era il più “a sinistra” del gruppo, ma una fonte inesauribile di storie e mi raccontava anche della Libia, per me esotica, al punto che andai a vedere dall’esterno la sua casa di allora, quando andai a Tripoli da turista nel 2001, nella vecchia citta-giardino italiana. Anche allora non mi azzardavo a disturbare Pintor, il cui amore per la solitudine e l’avversione alle chiacchiere erano leggendari. Il mio periodo di maggior frequenza e scrittura al “manifesto”, cadde fra il 1988 e il 1991, quando Virno diventò redattore culturale e inaugurò un breve periodo sperimentale di resistenza non nostalgica all’ilare e tossica restaurazione degli anni ‘80. Rossanda chiamava ancora me e Paolo “i giovani”, anche se non lo eravamo più e un’intera generazione, la nostra, era stata massacrata, incarcerata o zittita. Al di là delle relazioni personali, spesso dettate da casualità e impulsi affettivi, resta il giudizio sul politico, sul maestro di stile giornalistico e naturalmente sullo scrittore, altrettanto essenziale e impegnato su un arco di emozioni e ricordi ben più profondi dalle miserie di cronaca su cui un editorialista è costretto a esprimere valutazioni. > Pintor era famoso, ben fuori della sua parte, per i corsivi fulminanti e > tutt’altro che d’occasione, tanto che in alcuni casi potrebbero essere > riproposti oggi tali e quali (su Israele, sulle allocuzioni ministeriali > sollecitanti la formazione di una coscienza alimentare nazionale, sullo > stillicidio degli infortuni sul lavoro). La forza dell’approccio di Pintor, espressa negli editoriali del “manifesto”, stava e resta nel suo tenere insieme la crisi del Pci (e metamorfosi susseguenti) con la dinamica dei movimenti, soprattutto dopo le rotture epocali del 1989 per il primo e del 1978 per i secondi, che facevano venir meno la dialettica, a volte malsana ma in fondo produttiva per cui una serie di istanze rivoluzionarie erano tradotte in importanti riforme negli anni ’70, con una tacita complicità bilaterale (almeno fino al 1977) al di là del dissidio strategico e dalla virulenza del linguaggio. Il muro della “fermezza” eretto dal Pci contro la componente terroristica post-sessantottina finì per tagliar fuori tutto lo spirito del movimento , che in maggioranza dal terrorismo era alieno, compresa l’eterogenea moltitudine che si radunò e si sciolse nel mitico convegno bolognese del 1977. In questa situazione Pci e movimenti si suicidarono ciascuno per conto suo, alla Bolognina e a via Fani. Il neoliberismo, una volta schiacciati i sovversivi (non senza l’aiuto dei riformisti), si dedicò a fagocitare i riformisti e poi a disperderli – il tutto in un contesto internazionale di riflusso in cui la caduta del Muro di Berlino sovradeterminava scioglimenti e rifusioni locali. Pintor non aveva nessuna nostalgia del Pci, pur essendo cresciuto proprio nella costruzione del Partito nuovo a partire dal 1943-1944, ma aveva capito che le periodiche insorgenze dal 1960, del 1968 e di tutti gli anni ’70 in polemica aspra con il Pci implicavano appunto la loro esistenza a sinistra di un corpaccione malandato che faceva opposizione e resistenza fisica ai vari comitati d’affari che la borghesia di volta in volta metteva su, con il sostegno Usa, per tenere insieme il Paese. > I movimenti potevano rifluire temporaneamente e il corpaccione mescolarsi alle > formule di governo, ma le distinzioni di fondo rimanevano e una certa idea di > “sinistra” restava in piedi, checché insinuassero certi estremisti che la > vedevano morta. Lo scioglimento del Pci, sulla scia del crollo del campo socialista e Est, cambia i termini del problema. Non possiamo neppure immaginare cosa avrebbe scritto Luigi del personale politico del Pd attuale sui campi larghe e stretti, ma più interessante è che il verdetto di morte del Pci (sotto il nome ormai di Pds) Pintor lo formula proprio nel momento di massimo fulgore post-Bolognina, durante la segreteria (1994-1998) e ancor più il governo (1998-1999 e 1999-2000) di Massimo d’Alema – eh già, di quel leader maximo che oggi spicca come un gigante in confronto ai piddini prostrati a Biden e von der Leyen. Ne scriveva il 2 giugno 2001: «Evidentemente Massimo D’Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l’aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico». Un cameo validissimo anche per le sue più recenti comparsate in Tv. Compresa la sua olimpica allergia all’autocritica per gli errori commessi in un periodo «difficile ma non sfavorevole», in cui ha insanamente coinvolto l’Italia nelle guerre balcaniche con il bombardamento di Belgrado del 1999 e con i rapporti amichevoli e subalterni con Condoleezza Rice in epoca successiva, da ministro degli Esteri del secondo governo Prodi. D‘Alema – sempre secondo Pintor – aveva leso «l’immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all’elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata». E di ciò il Presidente non aveva mostrato allora «alcun turbamento» e, a dire il vero, non lo mostra neppure oggi, nelle pensose e brillanti interviste che rilascia irridendo giustamente alla miseria della politica corrente. E Pintor profetizza con assoluta puntualità: «Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l’Ulivo ne patirà le conseguenze». > Riprendendo il tema, alla vigilia della morte, nel suo ultimo editoriale > dell’aprile 2003, Pintor afferma seccamente che «la sinistra italiana che > conosciamo è morta», sia essa quercia o margherita o ulivo, per subalternità > irreversibile «non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e > alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno». Il passaggio dall’altra parte si è compiuto nell’89, nel decennio successivo perdendo anche «la faccia e una fisionomia politica credibile». E neppure «facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata». Con la seconda guerra del Golfo era tramontata l’illusione del movimento come seconda potenza mondiale e la politica abituale si era impadronita del movimento di Genova, soffocandolo con ben maggiore efficacia della repressione targata Berlusconi-Fini-De Gennaro.  Il mondo si è diviso in due parti per il sentire, ma non per l’agire, rispetto a cui i movimenti sono impotenti. E comunque questa spaccatura non segue più le linee divisive di un tempo: «Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine». E, alla fine della vita, Luigi Pintor suggerisce di sostituire a una bandiera una «pratica di vita», non un’organizzazione formale bensì una «formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza», – una moltitudine, ­vorremmo dire con termine che l’autore non usava – di “compagne e compagni” non gelosi di stretto riconoscimento ma «senza confini», propensi in tempi più lunghi di domani a «reinventare la vita» di cui il neoliberalismo ci priva giorno dopo giorno. Apocalittico? Pessimista? Disfattista? No, presa d’atto di una chiusura di ciclo. Però i movimenti sono sopravvissuti e si sono ripresi, dopo un letargo più che decennale, senza una dialettica con il sistema dei partiti (dissolto nell’astensionismo oggi maggioritario e nella perdita di progettualità),dunque oggettivamente indeboliti (e qui il pessimismo di Pintor ci aveva colto), ma definitivamente liberati dalla nostalgia di quella forma, incerti ed espansivi, in parte autonomi dei vincoli destinali della geopolitica. Una pagina bianca, chissà. La copertina è di Livio Senigalliesi/Archivio il manifesto. L’immagine è disponibile all’interno dello speciale “essenzialmente Pintor” distribuito da il manifesto SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Stile e lezioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Le invenzioni di Pintor
Un giornale è un giornale è un giornale è un giornale diceva Luigi Pintor parafrasando Gertrude Stein. Torneremo sulle ragioni di questa frase molto cara al fondatore del “manifesto”. Ora vorrei tentare di “leggere” quella forma atipica, forse eretica (secondo una diffusa convinzione) di giornale che fin dalla sua nascita ha dichiarato la propria carta di identità con la testatina “quotidiano comunista” con alcuni brevi esempi, a cominciare dai titoli. > Io non c’ero quando il manifesto quotidiano è nato, era il 28 aprile 1971. > Sono arrivata sette anni dopo, alla fine del 1978 passando per altre impervie > strade della comunicazione e in particolare per Radio città futura. Dico “impervia” non perché non sia stata una esperienza importante ma perché è stata, anche quella, una strada accidentata e perfino pericolosa, come forse ricorderà qualcuno, a causa dell’assalto di un gruppuscolo dei Nar con molotov e pistole alla nostra sede di San Lorenzo. Ma questa è un’altra storia. Dal 1978 e per un lungo periodo il mio contributo al manifesto è stato quello di lavorare agli allegati: “Antigone”, innanzitutto, la rivista voluta da Rossana Rossanda dopo il 7 aprile e il teorema Calogero, che aveva bollato come terrorismo tutto ciò che si muoveva alla sinistra del Pci. E poi “Nautilus”, in collaborazione con Psichiatria Democratica, e ancora “Fuori Luogo”, con la rimpianta Grazia Zuffa e Franco Corleone sulle dipendenze. Non è finita, il “manifesto” ha anche dato vita a una rivista mensile e a un settimanale, “Extra”, sempre alla ricerca di luoghi della discussione e dell’approfondimento che un quotidiano, perdipiù esile (in molti sensi) non avrebbe potuto proporre. Insomma, di allegato in allegato, arriviamo al 1994 quando il giornale decide di darsi una nuova veste grafica passando da giornale “lenzuolo” (o broadsheet come dicono quelli che ci capiscono) a tabloid. Quella profonda trasformazione non solo grafica non venne accolta inizialmente con favore dall’intero collettivo: il tabloid, sostenevano alcuni, avrebbe perso l’eleganza, la raffinatezza che gli aveva impresso uno dei più prestigiosi grafici del tempo, Giuseppe Trevisani che lo aveva disegnato nel ‘71. Il tabloid, di un altro grande grafico italiano, Piergiorgio Maoloni, evocava, dicevano alcuni, i quotidiani popolari e scandalistici inglesi tutti forma urlata e niente contenuto. Mentre il “manifesto”, fino ad allora, aveva prediletto, anche nella titolazione, uno stile discorsivo, un racconto pacato, un sommarione. Soprattutto il titolo di apertura diceva, in due, tre, perfino quattro righe, di cosa quel giorno il quotidiano aveva scritto, quali le priorità. > Il giornale lenzuolo si componeva all’inizio di sole quattro pagine ma quelle > quattro pagine mostravano che il panorama delle notizie non è “dato” una volta > per tutte e che si tratta sempre di scelte che corrispondono a criteri e > convinzioni ben definiti. Chi ancora crede che i giornali si limitino a riferire i fatti? Il manifesto ribaltava le sacre gerarchie dell’informazione “ufficiale” (o mainstream come dicono quelli che ci capiscono) e sceglieva di stare dalla parte di quelli che sui giornali di solito ci finivano solo se commettevano qualche reato. Una formula, quella del “manifesto” delle origini, ripresa dal “Foglio”, quotidiano fondato da Giuliano Ferrara nel ’96, anche se il direttore non lo ha mai ammesso. Del resto, la “Settimana enigmistica” lo scrive come elemento di successo di vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Ma bisognava essere sufficientemente sicuri di sé per fare in modo che uno con la carta di identità di Ferrara potesse riconoscere questa ovvietà e evidentemente lui non lo è stato. Per tornare al 1994, il “manifesto” diventa tabloid. Il che significa banalmente che non si poteva continuare a fare i titoli/sommarione perché avrebbero riempito l’intera pagina. Occorreva inventare una forma più stringata ma non meno densa per reggere quella che definimmo “la copertina”: poche parole, più che altro suggestioni ma sempre dall’altra parte, quella “del torto”. Nasce così quella forma spregiudicata, ironica senza mai essere sprezzante, di titolazione basata sul “détournement”, cioè sul deviare o cambiare di senso per sovvertire il significato originale. Il “manifesto” diventa a volte “situazionista” alla maniera di Guy Debord, sferzante, allusivo. Altre volte sembra quasi richiamare Emile Zola e il suo J’accuse. Niente di nuovo, dunque? Il situazionismo è della metà degli anni ’50, Zola e la sua difesa di Dreyfus addirittura del 1898. > Invece, nel panorama dell’editoria il “manifesto” crea una discontinuità > mettendo assieme l’Uomo morde cane di Umberto Eco con la denuncia verso i > poteri, ma sempre con stile. Due esempi, quello politico è del 23 novembre 1994 a pagina intera c’è una grande targa stradale in marmo, come quelle di Roma e di tante città. La scritta è: “Via S. Berlusconi. E sotto: Presidente del consiglio 1994-1994”. La copertina si riferisce alle inchieste di Milano e Roma sull’allora presidente del consiglio. E poi le due indelebili nella memoria di molte e molti: 25 aprile 1994: una manifestazione indetta il 7 aprile da una prima pagina interamente scritta da Pintor. È il Si potrebbe che portò a Milano centinaia di migliaia di persone. Altrettanto dirompente la copertina per il giorno della Liberazione, il 25 aprile: una doppia copertina a “incartare” letteralmente la giornata. Il titolo: Che Liberazione. Chi altri avrebbe potuto fare una simile sgrammaticatura? E perché due copertine? Ecco, nella risposta a queste domande sta un po’ il cuore di quel vascello corsaro in grado di fare sortite nei territori nemici restando sempre sul pelo dell’onda, qualche volta cavalcandola, qualche volta rischiando di essere sommerso. Eppure, quella aporia chiamata “manifesto” la cui possibilità di soluzione era di per sé impossibile poiché nasceva dalla contraddizione, ha lasciato qualche traccia indelebile. Per esempio, c’era sempre qualcuno che ti chiedeva, elogiando i titoli: chi è che li fa? Senza capire che per sua natura e per scelta si trattava di un “fatto” collettivo, la cui paternità e maternità risiedeva nell’insieme delle persone che ci lavoravano e che in fine di giornata si riunivano (e chiunque poteva dire la sua) e cominciavano a tirar fuori parole in libertà e attraverso approssimazioni successive (brainstorming come dicono quelli che ci capiscono) si arrivava a comporre la musica. Oggi quella forma la si trova molto di frequente su molti media, segno che l’irriverenza, l’ironia senza sarcasmo, ha “bucato”. Peccato però che se non è accompagnata da una intenzionalità forte resta solo un gioco di parole. Intenzionalità come la intendeva Husserl ovvero «l’attitudine costitutiva del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto a un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe». > Oltre alla titolazione, Luigi Pintor è stato in grado di introdurre, nel > lessico giornalistico, alcune suggestioni linguistiche che hanno fatto scuola. A cominciare da quella mutuata dalla poetessa Gertrude Stein su «un giornale è un giornale è un giornale è un giornale» come «una rosa è una rosa, è una rosa è una rosa». Una tautologia ma al tempo stesso un indirizzo volto, tra l’altro, a dire che ogni regola, per essere violata, ha bisogno di essere confermata. E anche, come scriveva Umberto Eco, una voluta ridondanza per generare tensione e con essa catturare l’attenzione. Pintor ne scriveva in una carteggio tra lui e Rossana, quando si trattava di definire cosa sarebbe stato il quotidiano a cui volevano dare vita, a proposito della necessità o meno di un direttore. Un po’ come il direttore d’orchestra di cui parla Karl Marx nel Capitale, in cui a prevalere non è il concetto di proprietà (il direttore d’orchestra non è il proprietario degli strumenti ovvero dei mezzi di produzione) ma colui che coordina e dirige verso un obiettivo comune, la creazione di un prodotto finale. Forse non tutte e tutti sanno che Pintor amava la musica ed era un bravissimo pianista per questo la metafora del direttore d’orchestra non è casuale. > Una seconda frase “topos” riguarda la natura di un quotidiano: «Che a > mezzogiorno – diceva Pintor – è buono solo per incartare il pesce». E aggiungeva «ogni numero dura poche ore, scivola come acqua fresca, non lascia tracce, e quindi deve proporsi al massimo di esercitare una “suggestione”». Cadono le liturgie attorno a una professione che, nel bene e nel male, è stata oggetto di centinaia di film e di romanzi e che nell’immaginario collettivo ha un alto valore simbolico. Non che nella realtà non ci siano e non ci siano stati giornalisti e giornaliste che hanno saputo comunicare al di là dell’effimero, del contingente. Ma è la forma giornale che Pintor voleva relativizzare senza però sminuirla. E questo ha cercato di essere il “manifesto”, una suggestione, una comunicazione orizzontale e al tempo stesso uno scandalo voluto non per stupire con gli effetti speciali ma per dare concretezza alle idee che, senza infingimenti, dichiarava: essere, insomma, dalla parte del torto, come recitava una fortunata campagna pubblicitaria ideata con il contributo fondamentale dell’agenzia Fca di Sandro Baldoni. La campagna ebbe un certo successo come l’ebbe la più delicata ma altrettanto situazionista “La rivoluzione non russa” con l’immagine di un paffuto neonato. C’è un terza metafora cara a Pintor, quella del calabrone. Secondo le leggi della fisica, diceva Pintor, il calabrone con il suo grosso corpo e le ali piccole e corte non dovrebbe poter volare eppure vola. Lo diceva innanzitutto per sottolineare l’anomalia “manifesto” ma anche per dire della determinazione che può rendere possibile ciò che è ritenuto impossibile. In realtà gli studi della fisica hanno dimostrato che i calabroni possono tranquillamente volare perché il battito delle ali molto veloce e il particolare movimento creano la spinta necessaria. Tutto questo oggi può apparire fuori tempo massimo, giornali nati da una spinta così determinata non ne esistono forse più e i calabroni pare siano in via di estinzione, così come le rose di Gertrude Stein sono appassite ed è ormai proibito incartare il pesce con il giornale. Eppure, le ragioni per continuare a credere che l’informazione possa ancora oggi nutrirsi di libertà e autodeterminazione sono ancora più necessarie che in passato. E forse ancora più che in passato, ci sarebbe bisogno di titoli come quello del primo numero della rivista del “manifesto”, era il 1969, Praga è sola che costò la radiazione dal Pci a Pintor, Rossanda, Magri, Castellina. Ma oggi la Palestina è sola. In copertina il murales che ritrae Luigi Pintor a Orgosolo, dove è nato SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le invenzioni di Pintor proviene da DINAMOpress.