Memoria, voce e resistenza: le donne afghane nella Biblioteca sociale “La Casa di Francesca”
Napoli-Barra, 24 novembre 2025 – In occasione della Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne
La memoria non è solo ricordo: è voce che resiste al silenzio, è ponte tra vite
lontane, è responsabilità. A Barra, periferia orientale di Napoli, questa voce
si è trasformata in un incontro pubblico, in un’esperienza condivisa e in un
ascolto reciproco. Non in un’aula istituzionale, ma in una biblioteca sociale
nata per custodire storie e restituire dignità: La Casa di Francesca.
Uno spazio speciale, perché nato dal dolore trasformato in impegno civile. Lo
hanno fondato due insegnanti in pensione, Mariarosaria Izzo e Matteo Speraddio,
per dare continuità all’idea della figlia Francesca, scomparsa dieci anni fa.
Francesca immaginava una biblioteca come luogo capace di accogliere, di
ascoltare, di mettere in relazione. Non come servizio, ma come presenza. Oggi
quello spazio è realtà: libero, aperto, abitato da bambini, studenti, famiglie,
migranti, cittadini del quartiere in cerca di un luogo dove sentirsi parte.
Il 24 novembre, proprio in questa biblioteca, si è tenuto l’incontro pubblico
“Dialogo con Conny Del Monaco sulla condizione delle donne afghane”. A moderare,
Matteo Speraddio. Non una presentazione formale, ma un dialogo che ha
trasformato una tesi universitaria in strumento collettivo, vivo, civile.
Conny Del Monaco ha presentato alcuni passaggi del suo lavoro di laurea, “Donne
Afghane tra resistenza e memoria: i racconti di Homeira Qaderi e Fawzia Koofi”,
discusso all’Università Federico II di Napoli. Una tesi che non nasce solo da
studio, ma da un’urgenza: restituire spazio a voci che non hanno spazio; far
emergere vite raccontate dall’esilio che, senza narrazione, rischiano di essere
dimenticate.
Protagoniste dei memoir analizzati sono due donne afghane: Homeira Qaderi,
autrice di Dancing in the Mosque, e Fawzia Koofi, autrice di The Favored
Daughter e prima vicepresidente del Parlamento afghano. Entrambe hanno scritto
in inglese, non per allontanarsi dalla propria cultura, ma per renderla visibile
al mondo. La scrittura diventa per loro un modo per attraversare i confini e
opporsi alla cancellazione.
Nei loro testi, non si racconta solo l’oppressione, ma anche la contraddizione.
Quando i talebani presero il potere negli anni ’90, molti li accolsero come
portatori di ordine dopo il caos della guerra civile. Solo in seguito emerse che
quell’ordine si fondava su rigide restrizioni, soprattutto per le donne:
istruzione vietata, lavoro e movimento limitati, parola negata nello spazio
pubblico. Ma anche in quel contesto alcune donne resistettero. Qaderi, appena
tredicenne, organizzava scuole clandestine per bambine. Koofi, contro ogni
aspettativa familiare e sociale, portava la propria voce fino al Parlamento. Per
entrambe, scrivere è diventato un modo per non scomparire.
Un punto centrale affrontato durante l’incontro riguarda l’origine
dell’oppressione. Non è la religione, ha spiegato Conny, ma una tradizione
culturale patriarcale che usa la religione come giustificazione. Esiste infatti
un femminismo islamico che interpreta i testi sacri come luogo di dignità,
giustizia e responsabilità reciproca, e non come strumento di subordinazione.
Da questo sono nate domande e riflessioni, non solo per comprendere meglio la
condizione delle donne afghane, ma per misurare quanto siamo disposti a
riconoscere quelle storie come parte della nostra storia. Quanto siamo disposti
a considerarle presenti, e non lontane.
L’incontro non si è limitato a trasmettere informazioni, ma ha sollecitato un
modo diverso di stare dentro le storie: non solo ascoltarle, ma farsene carico.
Non soltanto comprenderle, ma riconoscerle.
Luoghi come La Casa di Francesca ricordano che la cultura non è un ornamento ma
un gesto di responsabilità. Mettere in circolo storie, ascoltarle, riconoscerle
significa restituire volto e dignità a chi rischia di essere dimenticato. Non
basta leggerle: bisogna farle vivere.
Lucia Montanaro