L’Occidente dell’ipocrisia
L’Occidente dell’ipocrisia: guerre, armi, bambini violati e il Sud del mondo
sotto ricatto
Mentre l’Occidente pontifica sulla pace, sui diritti umani e sulla democrazia,
continua a fabbricare e vendere strumenti di morte, a decretare sofferenze e
carestie nei Paesi del Sud del mondo. È un paradosso che si ripete da decenni:
da una parte palazzi e media diffondono parole di condanna verso i conflitti
“altrui”, dall’altra i governi, le multinazionali e le lobby belliche lucrano
sulla guerra, progettandola, alimentandola, controllandola.
La verità è cruda: l’Occidente vuole il Sud sotto schiaffo, perché un Sud
destabilizzato, affamato e militarizzato è più facilmente soggetto a
sfruttamento economico, politico e sociale. Le guerre “d’altri” sono il terreno
su cui si coltiva la propria supremazia: materie prime sottratte, risorse
naturali controllate, popoli privati di autodeterminazione. Chi parla di pace
senza denunciare chi produce e commercia armi, chi parla di diritti umani senza
guardare alle bombe che esporta, mente. È un’ipocrisia sistemica, funzionale
agli interessi di pochi e devastante per molti.
Guardando ai teatri di conflitto in Africa, Medio Oriente, America Latina o
Asia, emerge un filo rosso evidente: le armi occidentali arrivano sempre prima
delle missioni umanitarie, e spesso le precedono. Le stesse democrazie che
condannano l’invasione di un Paese sono le prime a vendere missili, droni, bombe
intelligenti e munizioni a chi alimenta quei conflitti. È un circolo vizioso che
garantisce profitti ingenti e mantiene il Sud del mondo in una condizione di
dipendenza e di vulnerabilità permanente.
Ma le conseguenze non sono solo geopolitiche: la guerra produce traumi,
disperazione e disperazione psicologica, soprattutto tra i giovani e gli
adolescenti. Per loro, il mondo appare ingiusto e incomprensibile: immagini di
bombardamenti, reportage di civili uccisi, notizie di carestie pilotate
dall’avidità economica costruiscono un orizzonte di paura e impotenza. Eppure,
educatori e operatori sociali continuano a testimoniare che si può coltivare
resilienza, senso critico e coscienza politica, anche di fronte all’orrore,
purché si denunci senza filtri la verità sui veri responsabili.
L’Occidente predica l’ordine globale, ma la sua pace è un’illusione pagata con
il sangue altrui. La vera giustizia richiederebbe di smettere di fabbricare
armi, di cessare il commercio internazionale delle armi, di interrompere il
ricatto economico e militare sui Paesi del Sud. Solo allora il concetto di
“pace” non sarà più una parola svuotata e i “diritti umani” non verranno più
usati come strumenti retorici per coprire interessi inconfessabili.
Fino a quel momento, il compito di chi scrive e di chi educa è chiarissimo:
denunciare, spiegare, rendere visibile la rete di potere e profitto che sta
dietro la guerra. E stimolare una nuova generazione di ragazzi e ragazze a non
accettare la menzogna come normalità, a leggere la realtà senza filtri e a
pensare un mondo dove la pace non sia un lusso per pochi, ma un diritto
universale.
L’Occidente può continuare a parlare di valori, ma la verità resta: la sua
guerra è la guerra degli affari, e i popoli del Sud sono il suo laboratorio
permanente. E finché questa ipocrisia perdurerà, parlare di democrazia e umanità
resterà un insulto a milioni di vittime silenziose.
Educazione, infanzia ferita e il dovere di proteggere i più vulnerabili
A pagare il prezzo più alto di questa ipocrisia sono i bambini. I conflitti
alimentati dal commercio internazionale di armi privano intere generazioni della
possibilità di crescere, imparare, immaginare il futuro. Nelle scuole bombardate
o trasformate in rifugi, l’infanzia diventa un miraggio: i bambini imparano
presto il linguaggio della paura, molto prima di quello della lettura e della
scrittura.
Molti sopravvivono a bombardamenti e carestie, ma restano segnati da ferite
invisibili: incubi ricorrenti, mutismo selettivo, regressioni emotive, perdita
di fiducia negli adulti. Questi traumi non sono accidenti della storia: sono la
conseguenza diretta delle scelte politiche, economiche e militari dei Paesi che
continuano a vendere armi sapendo perfettamente dove finiranno.
L’educazione, in questi contesti, diventa un atto di resistenza. Insegnare
significa restituire dignità, offrire strumenti critici, costruire anticorpi
culturali contro la violenza strutturale. Le maestre e gli educatori, spesso
volontari o operatori locali, sono i veri custodi di un futuro possibile: creano
spazi di apprendimento in cui i bambini possono sentirsi sicuri, protetti,
ascoltati.
Ma non basta. Occorre che le società occidentali guardino in faccia la realtà:
ogni bomba fabbricata porta con sé un bambino ferito, ogni arma venduta sottrae
un banco di scuola, un libro, una possibilità. L’impegno educativo e sociale
deve affiancarsi a una radicale critica del sistema bellico ed economico che
continua a generare conflitti.
Solo quando l’Occidente smetterà di produrre armi e inizierà a sostenere davvero
istruzione, sviluppo, cooperazione e dignità, allora i bambini del Sud del mondo
potranno crescere non come vittime ma come protagonisti del proprio destino.
Fino a quel momento, la nostra civiltà non potrà dirsi civile.
Laura Tussi