Anne Carson / Classico e moderno, scrittura ibrida
Uno degli elementi rilevanti di questo volume di Anne Carson (pubblicato da
Crocetti nella traduzione e cura di Patrizio Ceccagnoli) edito nel 1995 con il
titolo Plainwater, sta nella involontaria distopia letteraria che esso
rappresenta, per i lettori italiani, comparendo trent’anni dopo. Carson ha già
rivelato questa sua capacità di una contemporaneità aumentata già in Eros the
Bittersweet (1986) e Glass Irony, God (1995) che conferma con questo quarto
libro, spingendo verso l’urgenza di cambiare metodo, prospettiva e tanto
sprofondare nella storia poetica, tanto liberarsene, attraverso l’exit strategy
della persona singolare. Si dirà: ma allora è “lirico-assertiva”? O
“autofiction”? A mio avviso no.
La sua contemporaneità è nel modo singolare e unico con cui mescola materia
letteraria, classici senza tempo, registrazioni di vissuto, descrizioni del
mondo attorno a sé, sottraendosi a tutto, lasciando frantumare ogni categoria,
recinto e classificazione di lirica, antilirica e archeologia polemica varia. Si
affida alla scrittura. Un’analisi stilistica, formale, più completa di un testo
straniero, dovrebbe essere fatta sull’originale. Anche in traduzione però si
possono apprezzare le molte qualità letterarie e in particolare per Carson la
struttura logica del discorso, le sue capacità di sorprendere, come anche la
qualità di analisi psicologica e il lessico.
Una materia composita, che va dal calco di una frammentazione interrogativa, tra
lirica e filosofia, riscrivendo i fragmenta del poeta greco Mimnermo alle
micro-didascalie dell’inafferrabile che sono i magnifici “Discorsi brevi”, in
cui si tirano in ballo da dettagli laterali, autori come Ovidio, Kafka (e la
sorella Ottla), Silvia Plath, le sorelle Brontë, per dei brevi pronunciamenti
tanto affermativi nella struttura, quanto spiazzanti nel dire qualcosa che non
si ferma al concetto, in un procedere metaforico e ragionativo assieme, con
accostamenti impervi di deriva dal surrealismo poetico-filosofico (alla Char) e
insieme l’applicazione di quella forza ragionativa non consequenziale e non
ordinaria con la quale molti filosofi nutrono la loro prosa di poesia. Sono
proprio i “Discorsi brevi”, insieme all’“Antropologia dell’acqua” (già
pubblicato con altre traduzioni da Donzelli anni fa) il risultato più alto di
questo libro, che contiene anche l’ampia sezione di “La vita nelle città” in cui
il meccanismo formale sembra incedere, usando qui un “tic formale” (l’uso del
punto alla fine di ogni verso) che forza e distorce, interrompendo di fatto
l’enjambement e anche la connessione sintattica, creando una spezzatura
innaturale. Non diversa da altri “scarti dalla norma” novecentesca, certo, ma
Carson migliora sé stessa, in questo libro composito, proprio là dove esce dalla
necessità di mostrare che la gabbia è rotta, perché sempre nella gabbia si
resta.
Invece Carson pratica in poesia al meglio quello che già da quegli anni stava
succedendo nella letteratura, un processo di liberazione dagli steccati di
genere di fatto in un’unica grande categoria ovvia: scrittura. Unica, polimorfa.
Si tratta di una liberazione e forse la rottura dell’enjambement dice anche
questo: da un lato, fare a meno di tutta la tradizione anche formale, ma
compresi i post-formalismi “installativi” che praticano le rotture specchiandosi
nel “senhal” meta-poetico della rottura, essa stessa “gabbia” tanto quanto un
sonetto, perché esibito, ostentato, programmatico, poet-ideologico. Invece
Carson pratica, in questa capacità libera di affidarsi nient’altro che all’
esattezza della scrittura e al caso della composizione o montaggio, un cinema di
poesia restituito alla poesia, che produce meraviglia, pensiero.
Carson attinge a materiali vari, esperienze che legge di volta in volta in forma
di breve narrazione, di notazione saggistica, di icastica fraseologia in “a
capo” o no, ma sempre immettendo una lente personale ma sempre inafferrabile,
lasciando spazi di immaginazione all’io-minimo che non vuole definire nessun
“Io” maiuscolo, e irrompe con riflessioni su sé, sui propri amori sulle proprie
relazioni dentro questo spazio di ricerca e composizione che fa la scrittura.
Ceccagnoli cita una definizione per Carson emblematica: “poetry is aversion of
conformity in the pursuit of New forms”. Nella lettura scritta il gioco di
parole evidenzia come “l’avversione” del poeta che si ponga volutamente contro,
sia di fatto anche “una versione” di conformismo, che sta già dentro la ricerca
di nuove forme.
Carson invece utilizza quello che sempre Ceccagnoli definisce la “idiosincrasia”
a nessun a-version, sottraendosi e praticando una mescolanza irriducibile di
tutti i generi. Un flusso costante, qui fluidità Come l’acqua, per l’appunto,
parola chiave per questa poesia ben prima che diventasse parola-baule, ed
etichetta dei nostri anni iper-identitari. La fluidità di Carson è
antropologica, cerca vita minuta dentro la classicità dai greci, nella grande
pittura, nella letteratura del ’900, con una continua libera combinazione in cui
il testo diventa lo spazio che si apre nel pensiero, approfitta di angoli e
spigoli logici, di cortocircuiti concettuali e percettivi di una persona-mente
che vive e vede il mondo intorno a sé e lo reinterpreta. La scrittura è o,
meglio, diventa scrivendo, come un continuo appunto
saggistico-frammentario-diaristico, la continua sperimentazione di quella
realtà, da cui emerge questa compartecipazione attiva di una soggettività. Certo
è un soggetto che fa, che ha fatto letture plurali ma è come se si nutrisse, e
assorbisse in sé, un “noi”, attraverso quello che ha lasciato depositato dentro
il “noi” anche se in una intervista Carson ha detto che “il linguaggio è molto
molto personale e privato”. Facendola finita con enjambement e altri punti fermi
di ciò che è poesia (l’“acapo”, ineliminabile anche se si pratica una confluenza
di parole intercettate o un “dripping” alla Pollock in parole.
L’idiosincrasia radicale della soggettività di Carson alla fine porta a una
letteratura che torna a misurarsi con il dato interiore ed emotivo, senza nella
registrazione narcisistica di palpitazioni di dolori affanni proiettate dall’ego
al mondo. Carson è autrice vivente che a costo di una produzione anche
abbondante, se non strabordante, ricca e stratificata di scritture, mostra la
continua vitalità e trasformazione dell’atto disperato di voler significare
qualcosa di fronte all’enigma continuo che ti pone la vita e il visibile. Una
continua energia che rischia l’errore, che si fa erranza, ma anche libertà di
cammino fuori da ogni ossessione normativa così come da ogni forma canonica, ma
nella ricchezza dei materiali. Non è la liberazione del poeta delle
semplificazioni, spacciate per sacra semplicità a lettori poco esigenti. Si
scende nelle pieghe di una coscienza, ma non si erige nessuna statua della
stessa. Eccolo il processo di decreazione al centro di un libro che scriverà
tredici anni dopo questo. Mentre parlo, compongo, e mi sfaldo. Divento ciò che
dissipo, disseto il mare, dopo aver portato ad essere foce la sorgente.
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