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Storie di calcio e tifosi: viaggio nella Buenos Aires del pallone
Da sempre, quando parli del calcio argentino e di cosa rappresenta questo sport per il popolo del grande paese sud-americano, non riesci a trovare una definizione chiara e completa. Il mondo del pallone a quelle latitudini non è concepito come un semplice passatempo ma come una vera e propria religione social-popolare che viene descritta perfettamente da Osvaldo Bayer, nel suo libro intitolato Futbol. Una storia sociale del calcio argentino. In Argentina, questa forte passione per il mondo del pallone, viene messa in risalto in una città in particolare: Buenos Aires. Per le strade e i vicoli della capitale del paese, che molti non esistano a definire una delle megalopoli di quel continente visto che è abitata da 15 milioni di abitanti in totale (un terzo della popolazione complessiva), giocano ben 21 squadre professioniste nelle prime cinque divisioni del campionato calcistico nazionale.
Compagni che menano
Abner Lloveras compie oggi 43 anni, un’età “considerevole” per chi si cimenta negli sport da combattimento. Ha gli zigomi sporgenti e il volto segnato dalle asprezze della lotta, eppure dopo circa 200 incontri disputati in varie discipline – kick boxing, boxe, mma, bjj, muay thai – si allena ancora con dedizione, senza fare un passo indietro, divertendosi come un bambino che indossa per la prima volta i guantoni. Lloveras è un tipo schietto, uno che non si nasconde dietro un dito: si dichiara apertamente catalano, indipendentista e antifascista. Ha in passato espresso sostegno per la CUP (Candidatura d’Unitat Popular), organizzazione ombrello anticapitalista catalana, firmando un appello-manifesto che incita alla lotta. E questo, più di qualche volta, gli ha procurato qualche problema a livello mediatico.
Ultras in doppiopetto: dalla curva alla tribuna… politica
Che il calcio e la politica siano molto meno separati di quanto si pensi è ormai uno dei topoi narrativi di questo sito declinato un po’ in tutte le salse ma privilegiando sempre una sorta di “orizzontalità” del fenomeno. Dai gruppi ultras che prediligono un’azione dal basso – sia essa di mutualismo, come nella stragrande maggioranza dei casi che abbiamo affrontato, o di vera e propria costituzione di brigate militari contro eserciti nemici come il caso dell’Ucraina o quello dei paesi dell’Ex Jugoslavia – fino ai magnati che hanno usato una squadra di calcio come trampolino per le proprie ambizioni: Berlusconi col Milan è stato il capostipite, ma ha avuto diversi epigoni come ad esempio l’ex presidente argentino Claudio Macrì e il Boca Juniors, ma questi sono solo due esempi nel mucchio, perché le commistioni tra calcio e politica sono innumerevoli.
C’è chi dice no… e si può e si deve fare!
Mentre il mondo del calcio assiste all’ennesima pantomima in cui il Paris Saint Germain fresco campione d’Europa subisce una multa, non per come abbia contribuito a drogare il mercato dei calciatori – a dimostrare la pressoché totale arbitrarietà e inutilità del Fair Play finanziario – ma per uno striscione della propria tifoseria che ha preso posizione in maniera chiara ed esplicita contro il genocidio che si sta perpetrando nella più totale passività della comunità internazionale, da altri sport arrivano segnali di segno opposto. Lo scorso 24 luglio sono stati sorteggiati i gironi di qualificazione per gli Europei femminili di basket del 2027 e il gruppo A prevedeva la presenza di Lussemburgo, Bosnia Erzegovina, Israele e Irlanda. Proprio in seno a quest’ultima nazionale, che il 18 novembre dovrebbe essere ospite di quella israeliana, si è aperto un dibattito sull’opportunità o meno sull’opportunità di scendere in campo contro la selezione di uno Stato che sta portando avanti un massacro indiscriminato: la Federazione cestistica irlandese si è dichiarata allarmata per quanto sta avvenendo a Gaza e dichiara di aspettare dei chiarimenti in merito dalla FIBA; la Federazione internazionale di pallacanestro, dopo che già nel precedente match del Febbraio 2024 le giocatrici irlandesi hanno rifiutato di stringere la mano a quelle israeliane, suscitando un intenso dibattito con prese di posizione di ogni genere. Anche adesso, mentre c’è chi ripete a menadito quasi a porre un freno le sanzioni previste in caso di boicottaggio del match (80.000 di multa per il primo episodio, 100.000 per il secondo oltre che l’esclusione dalla competizione), c’è invece chi si è schierato a favore di un’eventuale presa di posizione drastica come il deputato laburista e portavoce sportivo Rob O’Donoghue che ha chiesto al governo e al Dipartimento dello Sport di sostenere l’eventuale boicottaggio e di coprire i costi della multa, dando voce a quel sentimento di empatia se non proprio fratellanza che accomuna l’Irlanda e la Palestina.
Una storia italiana: il campionato libico... a Milano
Chissà se sfruttando il periodo vacanziero Pulcinella, la storica maschera da carnevale napoletano, abbia colto la palla al balzo per andare a farsi un giro a Milano; perché quello che sta succedendo nel capoluogo lombardo (anzi sarebbe più opportuno parlare del suo hinterland) ha tutti i crismi per essere annoverato tra i suoi classici segreti. Ci riferiamo alle Final Six del campionato libico che si stanno disputando “in gran segreto” qui in Italia e precisamente tra Meda, Sesto San Giovanni e l’Arena Civica di Milano. Proprio quanto successo nel primo week end di Agosto allo stadio Breda di Sesto ha gettato un’ingombrante luce sull’evento sportivo meno pubblicizzato nella storia recente del nostro Paese. Ci riferiamo agli scontri tra gli ultras dell’Al-Ittihad (i Teha Boys), la squadra legata storicamente alla famiglia di Muhammad Gheddaffi e quelli dell’Al-Ahly (i Flame Boys). Le due tifoserie di Tripoli, storicamente rivali, non hanno perso occasione per sfidarsi in campo neutro con lancio di oggetti e corpo a corpo a cui ha fatto da corollario anche un’aggressione in metropolitana a danno di figure di spicco dei Flame Boys. Ma al di là del feticismo da scontri, la domanda importante è un’altra: cosa ci fa il campionato libico in Italia?
Sventolano bandiere palestinesi
Giovedì scorso, 30 maggio 2025, cadeva la ricorrenza del 600° giorno di genocidio sionista a Gaza. Nella striscia abitata dal popolo palestinese, ma anche nella zona conosciuta con il nome di Cisgiordania, i soldati dell’IDF (Israel Defense Forces) stanno mettendo  in atto una vera e propria pulizia etnica senza che nessuno faccia nulla. Da parte della politica mainstream infatti non è stata presa nessuna decisione concreta verso il governo di ultra-destra di Tel Aviv guidato da Benjamin Netanyahu. Anche le poche decisioni che provavano a mettere in dubbio i numerosi trattati, soprattutto economici e legati alla vendita di armi, che legano la maggior parte dei paesi “democratici” europei con il governo sionista, non hanno ricevuto l’appoggio del Vecchio Continente. Germania e Italia, ad esempio, non hanno firmato una semplice sollecitazione fatta dall’alto rappresentante Ue Kallas che chiedeva di “condurre una revisione del rispetto dell’articolo 2 dell’accordo di associazione con Israele”. Guarda caso si sono opposti i due stati che furono la culla del fascismo e del nazismo; ma sì sa che la storia è sempre quella! Anche le parole spese dai maggiori leader politici europei lasciano il tempo che trovano. Se poi non si passa immediatamente dalle parole ai fatti si parla semplicemente di pura e schifosa ipocrisia.
Il genocidio nel pallone
Da circa 600 giorni la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, che insieme compongono lo stato di Palestina, sono sotto attacco quotidiano da parte dell’esercito di Tel Aviv. I sionisti stanno compiendo un vero e proprio genocidio in quelle terre, contro la popolazione locale e le infrastrutture di base, per rispondere all’azione di Hamas del 7 ottobre 2023 in cui 1200 cittadini israeliani hanno perso la vita e circa 250 sono stati presi in ostaggio. Da quella data si contano più di 50 mila morti tra la popolazione gazawi, di cui un gran  numero è rappresentato da donne e bambini, ma anche la distruzione sistematica di ogni tipo di supporto per rendere la piccola lingua di terra al confine con l’Egitto praticamente invivibile per i palestinesi. Al contempo a ogni ente internazionale, che avrebbe il permesso di entrare nella Striscia per portare aiuti umanitari alla popolazione, non viene concesso il lasciapassare, lasciando persone di ogni età e genere a morire di fame fra le strade di Gaza.
Un prete del popolo a San Lorenzo
Poche settimane fa in Italia si è festeggiato l’ottantesimo anniversario della Liberazione del Belpaese dall’occupazione nazi-fascista. È stato un 25 aprile molto sentito e partecipato che ha portato in piazza migliaia di persone di ogni età ed estrazione sociale nonostante la richiesta di festeggiare con sobrietà tale avvenimento, vista la scomparsa di papa Bergoglio e i 5 giorni di lutto nazionale imposti dal governo (questo lungo periodo di lutto non era mai stato concesso finora tenendo conto della laicità garantita dalla nostra Costituzione ma questo è un altro paio di maniche”). Oltre alla rotondità dell’anniversario sono state molte le iniziative in gran parte dello Stivale che non hanno mancato di citare anche un’altra situazione che, per molti, rappresenta un vero e proprio caso di Resistenza dell’epoca attuale: quella del popolo palestinese della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, contro il genocidio messo in atto dal governo sionista di Tel Aviv. La Resistenza partigiana in Italia infatti, nonostante si provi a descriverla come un qualcosa messa in atto dai soli comunisti, è un movimento che interessò e distrusse la vita di moltissimi ceti sociali che, in alcuni casi temevano assai la falce e martello sulla bandiera rossa.
Il camerata Conor McGregor
Se tutto è politica, ricevere Conor McGregor alla Casa Bianca nel giorno di San Patrizio non può essere casuale. Molti potrebbero considerare l’ex campione irlandese della Ufc (Ultimate Fighting Championship), recentemente condannato per stupro, un impresentabile. Evidentemente non il presidente Trump che più volte ha manifestato non solo apprezzamento verso il trascorso sportivo di McGregor, ma anche vicinanza umana e stima professionale. Ormai lontano da parecchio tempo dall’ottagono McGregor ha infatti creato un piccolo impero fatto di attività immobiliari e società, dal whiskey alla birra, alle promotion di sport da combattimento. Ha dismesso i panni del combattente, scegliendo le sete pregiate degli abiti di sartoria della buona borghesia.
Un giorno di gloria per l’Osasuna
Un successo inaspettato negli ottavi di finale di Copa del Rey ha regalato all’Osasuna il primo giorno di gloria del 2025. Una vittoria inebriante, inutile negarlo, amplificata dalla sublime condizione di partire sfavoriti nel pronostico. Un booster tutto particolare dal sapore intenso di rivalsa. Sconfiggere 2-3 i campioni uscenti dell’Athletic Bilbao in casa, nel tempio del San Mamés, in una partita tirata con tentativi di rimonta e capovolgimenti di fronte – impreziosita dalla rivalità del derby basco contro la squadra più titolata di Euskadi – è un’impresa che restituisce ai tifosi navarri una gioia rumorosa culminata in una nottata spensierata di festeggiamenti. Il trionfo dei gorritxoakm, i “rossi”, la squadra di Pamplona, è avvenuto però in un giorno speciale che lega con un filo ancora più rosso l’Osasuna alla storia del popolo basco. Ironia della sorte infatti proprio il 16 gennaio, giorno della vittoria contro l’Athletic, ricorreva l’anniversario della fucilazione di Eladio Zilbeti Azparren, avvenuta nel 1937, per mano dei franchisti.