Tag - Contributi

LA GUERRA È IN CASA NOSTRA
Riceviamo e diffondiamo: UNA STRATEGIA DI LUNGO PERIODO PER LA MILITARIZZAZIONE ECONOMICA Da pochi giorni il Ministero della Difesa ha pubblicato il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025-2027. Si tratta in soldoni dell’aspetto programmatico del comparto bellico italiano. La propaganda del Ministero definisce la Difesa come “volano per innovazione e sviluppo”. Dietro il linguaggio tecnico, si nasconde un piano di espansione strutturale dell’apparato militare: il Ministero si presenta come “motore industriale” del Paese, giustificando l’aumento delle spese con ricadute su occupazione e tecnologia. L’Italia ha aderito alla nuova linea NATO, che prevede di raggiungere per tutti gli Stati membri il 5% delle spese militari così spartito: 3,5% del PIL in spese militari propriamente dette e all’1,5% per la sicurezza o le infrastrutture (vedasi Ponte sullo Stretto, che collegherebbe il confine sud della NATO – la Sicilia, il Muos etc – con il continente). Un livello di spesa potenzialmente superiore a quello del periodo della Guerra Fredda. La Legge di Bilancio 2025-2027 prevede 35,094 miliardi di euro in 15 anni per: * 22,5 miliardi dal Fondo investimenti della Difesa; * 12,6 miliardi dal Ministero delle Imprese (MIMIT). Gli investimenti coprono ogni settore: * Terrestre: nuovi mezzi corazzati, artiglieria, droni armati. * Aereo: caccia di sesta generazione, sistemi missilistici, capacità “Extended Strike”. * Navale: navi d’attacco, sommergibili, droni subacquei. * Cyber e spazio: intelligence digitale, satelliti militari, “Space Domain Awareness”. Di più. L’Italia con la Legge di Bilancio 2025 stanzia 50milioni per la ristrutturazione di tre stabilimenti militari situati a Baiano di Spoleto, Fontana Liri e Capua, gestiti direttamente dall’Agenzia Industrie Difesa. L’obiettivo è aumentare la produzione di componenti critici come la nitroglicerina e la nitrocellulosa, necessari per munizioni di medio calibro, riducendo così la dipendenza dalle forniture estere e rafforzando l’autonomia produttiva nazionale. Ancora più forte appare la saldatura tra Università e Guerra con il Piano Nazionale della Ricerca Militare – PNRM. La guerra futura, che intreccia militare, civile ed economia, è in realtà la guerra odierna. L’Italia è attualmente impegnata in 43 missioni militari (nel solo anno 2025), con più di 12mila soldati utilizzati. La guerra odierna è anche – e forse soprattutto – guerra interna. Come diceva Simone Weil: “Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra […] è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti.” Una parte cruciale del DPP è dedicata alla cosiddetta “funzione sicurezza del territorio”, che affida ai Carabinieri un ruolo centrale nel processo di militarizzazione interna. Soldi per nuove assunzioni, soldi per ammodernamento delle caserme, soldi per nuove armi. Tra le misure previste: * Acquisizione di elicotteri, droni e veicoli tattici con uso duale (militare e civile). * Sistemi di sorveglianza digitale e cyber-investigazione (deep web, criptovalute, digital forensics). * Estensione dell’uso del taser e di armi “non letali” a livelli ordinativi sempre più bassi. * Ruolo crescente nello “Stability Policing”: attività di controllo sociale e gestione di crisi anche in territorio nazionale. Questo spostamento funzionale rafforza il ruolo dei Carabinieri come parte integrante della difesa militare, abbattendo ulteriormente il confine tra sicurezza civile e logica bellica. La militarizzazione non si limita più al piano geopolitico, ma penetra nelle città, nei sistemi informativi e nella gestione dell’ordine pubblico, preparando la società a un modello di sicurezza permanente in tempi di guerra totale. https://controguerra.noblogs.org/post/2025/11/12/la-guerra-e-in-casa-nostra/
Ribaltiamo il 4 novembre e la finta pace!
Anche questo 4 novembre ci ritroveremo circondati dalle celebrazioni muscolari della forza militare italiana, tra fanfare e parate di mezzi corazzati. Anche quest’anno i militari saranno osannati come grandi eroi della patria e, in un ribaltamento totale della realtà, indicati come l’unica via per il raggiungimento della pace. Anche quest’anno la retorica bellica nazionalista proverà a convincerci che i militari inviati in Iraq e Afganistan ieri, in Libano oggi e a Gaza forse domani, non sono andati in guerra, ma in “missioni di pace”. Una pace coloniale, costruita su tonnellate di macerie e centinaia di migliaia di cadaveri, nella totale impunità di criminali di guerra come Blair, Bush e Netanyahu. Fortunatamente anche quest’anno il movimento contro l’occupazione militare della Sardegna e soprattutto il grande movimento popolare di solidarietà nei confronti del Popolo Palestinese non cascheranno in questo vecchio giochetto. Le piazze per la Palestina che da ormai due mesi affollano le nostre città e i nostri paesi sanno bene che la pace non si costruisce con la forza e con le armi (e gli eserciti) occidentali. Sanno che lo stato italiano ha interessi economici da difendere (o conquistare): vedi ENI e WeBuild; alleanze militari imposte dall’alto da rispettare: vedi NATO; industrie “strategiche” da difendere: vedi LEONARDO. Le piazze auto organizzate che hanno superato le grandi organizzazioni partitiche e sindacali sanno anche che la pace non nascerà certo dall’alto grazie ai patti mafiosi di Trump, ma si costruisce tutti i giorni dal basso. Qua in Sardegna la pace si costruisce chiudendo le basi militari dove si preparano le guerre e il genocidio palestinese per mano dell’Israel Defence Force, che qui è di casa a Decimo, come lo è stata per anni a Capo Frasca e Quirra. Si costruisce bloccando gli accordi di ricerca tra università sarde e israeliane. Si costruisce chiudendo la fabbrica di bombe RWM di Domusnovas che produce i droni israeliani. Si costruisce dicendo un forte NO alla sua espansione, decisione che ora è in mano a una Regione governata da forze che a parole si dicono contro il genocidio, e speriamo che ai gesti simbolici ne segua ora uno effettivo e reale. La pace si costruisce banalmente smettendo di vendere armi a Israele, oltre che isolandola diplomaticamente ed economicamente. Liberandoci della filiera bellica sarda e del suo conseguente sottosviluppo contribuiremo alla liberazione della Palestina e di tutti gli altri popoli oppressi dall’occidente, oltre che alla nostra. Ma ad essere liberate devono essere prima di tutto le nostre menti. Liberiamoci dalla narrazione dominante che celebra ogni anno la forza e l’onore militare, la stessa che chiama eroi i militari morti durante le missioni coloniali in Medio Oriente. Ad ammazzare i militari sardi e italiani a Nassirya non sono state le forze locali di resistenza irachena, ma gli interessi politici e industriali italiani che li hanno mandati in un posto in cui non dovevano essere. Esattamente come i sardi mandati sul fronte austriaco nella prima guerra mondiale non sono morti per l’italia, ma per la sua borghesia industriale. Ora, come cento anni fa, l’Europa tutta si sta riarmando, e il motivo è sempre lo stesso: dar fiato a un complesso industriale in crisi, la cui unica via d’uscita paventata è la riconversione bellica, e soprattutto a una classe dirigente priva di una direzione politica, incapace di dare risposte a qualsiasi esigenza sociale, in cerca di un nemico per compensare la sua crescente mancanza di legittimità democratica. La narrazione bellica e l’aria di guerra stanno ormai invadendo tutta la società, a partire dalla scuola. Il Ministero dell’istruzione, mentre spinge sempre più i programmi di propaganda e arruolamento interni agli orari curricolari degli istituti scolastici, ha infatti appena annullato la formazione per docenti “4 novembre, la scuola non si arruola”, tentando di delegittimare l’esercizio della critica alla deriva in atto da parte del personale scolastico. Anche per questo il 4 novembre dobbiamo stringerci vicini a tutti i docenti e gli studenti che si oppongono a tutto ciò. Per tutte queste ragioni invitiamo a disertare e boicottare tutte le manifestazioni militari del 4 di novembre e invece partecipare alle piazze che resistono, per la Palestina e per una Sardegna e una scuola libere dalla narrazione bellica dominante. A FORAS!
Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero
  Riceviamo e diffondiamo: Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero. 30 Ottobre 2025 Di Raúl Zibechi (traduzione Nodo Solidale) Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico. Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha mobilitato 2.500 poliziotti in assetto da guerra, oltre a blindati ed elicotteri per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di due complessi di favelas che superano i 150.000 abitanti, con un’enorme densità di popolazione. Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione delle favelas ha portato nelle piazze più di 50 corpi che non figuravano nel conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il numero supera i 120. Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là dei dati, ci sono fatti rilevanti. Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in esubero”, perché hanno la garanzia dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; la montagna di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare sempre più rapidamente. Dicono narcotrafficanti con la stessa indifferenza con cui dicono palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la storia recente ci mostra che quello che stanno facendo è creare laboratori per il genocidio. Nel tranquillo Ecuador, quando i popoli indigeni li hanno sconfitti nella rivolta del 2019, hanno reagito liberando i più feroci criminali nelle carceri trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che giocavano a calcio con la testa di un decapitato. Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese già di suo violento. Nel territorio mapuche, sia in Cile che in Argentina, i poteri forti hanno deciso che coloro che non si arrendono devono essere definiti “terroristi”, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla. In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e i governi non vogliono farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che ne sottolineano solo la complicità. La violenza sistematica in Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di scandalo. A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narco non è uno Stato parallelo, ma lo Stato realmente esistente. Compresi tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della morte della dittatura militare. Gaza ci pone in un altro luogo, di fronte ad altre sfide. La prima è comprendere che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli, perché nessuno lo farà per noi. Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a Rio, quei corpi distesi sull’asfalto. Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e in torrenti di ribellione. https://nodosolidale.noblogs.org/2025/10/30/gaza-e-rio-de-janeiro-gaza-e-il-mondo-intero/
Dalla Cisgiordania
Riceviamo e diffondiamo un contributo prezioso come pochi: la traduzione della testimonianza di un palestinese che vive in Cisgiordania. Se non contiene particolari elementi di novità per chi già conosce la situazione, non fa poca differenza la precisione con cui viene descritta l’architettura incrementale dell’occupazione e dell’apartheid e la sobrietà con cui emergono l’incrollabile sumud degli oppressi palestinesi e l’incoercibile solidarietà al loro interno. Nell’augurare loro buona lettura, siamo certi che lo sguardo di molti nostri lettori e lettrici su quella terra non sarà più esattamente lo stesso. O almeno, è quello che è capitato a noi leggendo. Qui in pdf: TestimonianzaCisgiordania Riportiamo, con un po’ di ritardo dovuto ai tempi di traduzione, una breve testimonianza e descrizione di quello che sta/stava succedendo in Cisgiordania, all’ 8 ottobre 2025 (ad oggi la situazione potrebbe essere peggiorata e i numeri presenti nel testo potrebbero risultare inesatti). Questo contributo è l’esperienza diretta di un palestinese che vive quei territori e l’occupazione sionista sulla sua pelle da tutta la vita, vedendone l’evoluzione e i cambiamenti. Se a Gaza la mira delle potenze sioniste è di eliminare Gaza, la sua popolazione e la sua memoria, poco più a nord in Cisgiordania l’occupazione israeliana avanza inesorabile, con la presa di sempre più terre da parte dei coloni israeliani e con la riduzione sempre maggiore degli spazi di agibilità e mobilità palestinesi. Non sentiamo la necessità di aggiungere un commento al testo, se non ribadire la nostra totale solidarietà al popolo palestinese che lotta per la sua liberazione e l’intento di dare spazio alle voci palestinesi che arrivano direttamente da quei territori e che molto spesso non giungono fino a noi. ________________________________________________________________________________ La superiorità “razziale” ebraico-israeliana e la persecuzione dei palestinesi in Cisgiordania durante la guerra di genocidio e la pulizia etnica Dalle colline di Ramallah, la sera potevamo vedere le luci di Yafa, se il tempo era sereno potevamo vedere il mare. Abbiamo sempre detto che un giorno saremmo riusciti a raggiungere il mare. Ma ad oggi, dopo due anni di guerra genocida, non possiamo più stare sulle colline. I Coloni e i gruppi estremisti come i “giovani delle colline” e “la terra promessa”, a volte indossando magliette con la scritta “la mia terra è ovunque posso occupare”, impediscono a chiunque di raggiungere le colline, usando le armi che gli sono state distribuite dal Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben-Gvir. La possibilità di vedere il mare ci è stata negata. Negli ultimi due anni, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila armi ai coloni che vivono sulle colline della Cisgiordania. Ha distribuito centinaia di veicoli a quattro ruote motrici per facilitare il loro accesso ai terreni montuosi, che sono stati confiscati dello Stato sionista, e ha finanziato l’installazione di pannelli solari per ogni loro nuovo insediamento. I coloni occupano la terra, le fonti d’acqua e i pozzi artesiani. Hanno rubato il bestiame e i trattori agricoli delle comunità beduine, distruggendo le loro case, espellendoli dalle loro terre e fondando insediamenti al loro posto. I villaggi palestinesi sono stati attaccati da coloni sotto la protezione dell’esercito dell’occupazione israeliano. Case, auto e campi sono stati bruciati e alberi sono stati sradicati, come è successo a Turmus Ayya, al-Mughayyir, Khirbo Abu Falah, Huwara e Qaryut e a Kafar Malik, a 15 km da Ramallah, dove si trova il pozzo principale che fornisce il 40% dell’acqua necessaria alla città di Ramallah e al-Bireh. Lì, i coloni hanno sequestrato la fonte d’acqua e l’hanno trasformata in una piscina e in un luogo dove lavare il loro bestiame. Questi avvenimenti sono stati ripetuti in altri villaggi e province, in contemporanea alla pulizia etnica e alle scene di genocidio e uccisioni trasmesse in diretta al mondo intero. Il campo profughi1 di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, sta venendo silenziosamente sgomberato: oltre 100 famiglie hanno perso le loro case; le infrastrutture fognarie, elettriche e idriche sono state distrutte così che tante persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza di base. La situazione non è diversa nei campi profughi di Nur Shams e di Tulkarem, nella provincia di Tulkarem. I campi profughi sono stati divisi, le strade sono state distrutte e, nel nord, stiamo assistendo a un’ondata di sfollamenti dai tre campi verso i centri delle due città. Con il sostegno legale e politico del governo dell’occupazione sionista, le norme che regolano l’uso di armi da fuoco sono state modificate e ulteriore protezione è garantita ai coloni che commettono omicidi contro i palestinesi. Ciò consente l’uso letale di proiettili (n.d.t. ossia non più di gomma) contro i palestinesi, anche senza “giustificazione”. Ciò fornisce un chiaro riflesso nella profondità del disprezzo dello Stato Occupante per le vite dei palestinesi e costituisce un elemento fondamentale della struttura che consente a Israele di continuare a esercitare il suo controllo violento su milioni di palestinesi. Oltre 14 milioni di persone vivono nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, circa la metà delle quali sono israeliane e l’altra metà palestinesi. La percezione prevalente – nella sfera pubblica e giudiziaria, politica, mediatica e dei giornali – è che queste terre siano divise dalla Linea Verde: la prima metà si trova all’interno dei confini sovrani di Israele, è democratica e stabile e ospita circa nove milioni di persone “tutti cittadini israeliani”; la seconda metà si trova nei territori occupati da Israele nel 1967, il cui status definitivo dovrebbe essere determinato in futuri negoziati tra le due parti. Circa cinque milioni di palestinesi vivono in queste aree sotto occupazione militare temporanea. Tuttavia, questa definizione è diventata sempre più irrilevante nel corso degli anni. Ignora il fatto che questa situazione persiste da oltre settant’anni, ossia praticamente dalla fondazione dello Stato di Israele, ma non tiene conto delle centinaia di migliaia di coloni ebrei residenti in Cisgiordania, il cui numero è aumentato drasticamente in questi due anni trascorsi dall’inizio della guerra di sterminio. Ma, cosa ancora più importante, questa distinzione ignora la realtà di un unico principio del governo applicato in tutto il territorio che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo: il rafforzamento e la perpetuazione della supremazia di un gruppo di persone – gli ebrei israeliani – su un altro – i palestinesi. Tutto ciò porta alla conclusione che non si tratta di due sistemi paralleli che operano casualmente secondo lo stesso principio, ma un sistema unico che governa l’intero territorio, controllando tutte le persone che vi risiedono e operando secondo il principio del governo israiliano. Dall’inizio di questa guerra sono state registrate 1.048 uccisioni in Cisgiordania, di cui 260 bambini. Il sionismo non si è accontentato di questo. Il controllo coloniale basato sull’isolamento e la sottomissione, ha trasformato il territorio palestinese in un arcipelago di isole separate, come se fossero “cantoni” chiusi, separati da cancelli di ferro, soggetti all’autorità assoluta dell’occupante. Migliaia di palestinesi sono stati e sono costretti ogni giorno a percorrere strade alternative, spesso sterrate, casuali e rischiose che a volte non esistono neanche. Queste chiusure delle strade ostacolano l’attività economica e l’accesso ai servizi sanitari e educativi, aumentano l’isolamento delle aree rurali e trasformano il semplice spostamento in un viaggio di sofferenza sistematica. Alla luce di questa realtà, le porte di ferro installate dallo stato Israeliano lungo le strade palestinesi, sono un chiaro simbolo di punizione collettiva e parte di una politica più ampia, il cui obiettivo è: frammentare il tessuto sociale palestinese, spezzarne l’autodeterminazione e radicare la realtà dell’apartheid sul territorio. Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione per la Resistenza contro il muro dell’apartheid, nel settembre 2025, il numero totale di posti di blocco militari e cancelli di ferro installati dall’esercito di occupazione in Cisgiordania ha raggiunto quota 910, di cui installati 83 dall’inizio del 2025. Mentre 247 cancelli di ferro sono stati installati dopo il 7 ottobre 2023. D’altra parte, in un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati del 20 marzo 2025, intitolato “Ultimo Aggiornamento Umanitario n. 274” | riguardo alla Cisgiordania dichiara: “Attualmente, ci sono 849 ostacoli che controllano, limitano e monitorano il movimento dei palestinesi in modo permanente e intermittente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est e l’area di Al Khalil (Hebron) controllata da Israele”. Un’indagine rapida condotta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari a gennaio e febbraio 2025 ha rilevato che nei tre mesi precedenti erano sono stati messi 36 nuovi ostacoli al movimento, la maggior parte dei quali installati in seguito all’annuncio di un cessate il fuoco a Gaza a metà gennaio 2025, ostacolando ulteriormente l’accesso dei palestinesi ai servizi essenziali e ai luoghi di lavoro. Sono state documentate ulteriori chiusure, che si ritiene siano state messe nel 2024. Vale la pena notare che fino ad oggi sono stati installati in totale 29 nuovi varchi stradali in tutta la Cisgiordania. Sono stati costruiti sia nuovi varchi di chiusura a sé stanti che varchi aggiuntivi nei posti di blocco già esistenti, portando il numero totale di varchi stradali aperti o chiusi in Cisgiordania a 288, costituendo un terzo degli ostacoli al movimento. Di questi, circa il 60% (172 su 288) viene chiuso frequentemente. Oltre all’aumento del numero di ostacoli installati, l’aumento del controllo sulla circolazione ha portato interruzioni della circolazione per lunghi periodi, chiusure delle strade principali che collegano i centri abitati in Cisgiordania e un aumento del numero di varchi chiusi frequentemente. In totale, gli ostacoli includono 94 checkpoint con militari 24 ore su 24, 7 giorni su 7; 153 posti di blocco (con militari non sempre presenti) di cui 45 sono spesso chiusi, 205 cancelli stradali di cui 127 spesso chiusi, 101 posti di blocco costruiti con muri di terra e fossati, 180 fatti con cumuli di sacchi terra e 116 ostacoli di altro tipo posti lungo la strada2. Questi dati non includono i check-point lungo la Linea Verde e altre modalità di restrizione, come la chiusura del campo profughi di Jenin agli abitanti che vi facevano ritorno dopo lavoro e le segnalazioni di alcune aree come zone militari chiuse – che non sono sempre caratterizzate da barriere fisiche. Settantasette prigionieri palestinesi sono martiri a causa delle torture nelle carceri israeliane in Cisgiordania, mentre sono stati registrati circa 20.000 arresti dall’inizio della guerra di sterminio due anni fa. I prigionieri sono stati privati del sonno e torturati nelle loro celle. Sono state negate loro le visite. I pasti sono stati limitati a un singolo pasto al giorno a malapena sufficiente per sopravvivere. Sono stati privati delle loro coperte e dei loro vestiti in inverno. Malattie della pelle si sono diffuse tra i prigionieri a causa del divieto di lavarsi e di pulire la loro cella. È stato inoltre negato loro qualsiasi tipo di assistenza medica durante la prigionia. Lo Stato sionista però non si è fermato a queste vessazioni. Considerando che la maggior parte dei terreni agricoli si trova nell’Area C, ai palestinesi è stato vietato raccogliere i frutti dei loro alberi e qualsiasi tipo di prodotto delle loro terre. È stato negato l’accesso all’acqua. I campi coltivati sono stati bruciati e, in alcuni casi, i coloni hanno liberato le loro pecore e mucche per distruggere i raccolti. Le serre che un tempo si estendevano nelle pianure di Tubas, Salfit e nella valle settentrionale del Giordano sono state demolite. Gli agricoltori sono stati fucilati, arrestati e maltrattati. E nonostante ciò Israele non si è accontentato, difatti ha anche impedito alla cassa del Tesoro dell’Autorità Nazionale Palestinese di pagare i dipendenti pubblici, che non ricevono i loro stipendi da almeno nove mesi. Alla luce di tutto ciò, i palestinesi non hanno smesso di riunirsi in gran numero per andare nei loro campi per proteggersi a vicenda. I giovani dei villaggi vicini spesso partecipano alla difesa del villaggio preso di mira dai coloni dopo aver sentito la chiamata dagli altoparlanti della moschea. I palestinesi si spostano tra villaggi, campi e città in gruppi per proteggersi a vicenda dagli attacchi dei coloni. Hanno inventato vari meccanismi di comunicazione, inclusi i gruppi Telegram che fornivano notizie di strada in tempo reale. La partecipazione ai gruppi Telegram è diventata, tuttavia, motivo di percosse e accuse se viene scoperto dell’esercito. Tutta la comunità si mobilita per trovare cibo, alloggio e vestiti. Nessuno proveniente dai campi demoliti nella Cisgiordania settentrionale rimane senza un pezzo di pane o senza un riparo. Nonostante le ripetute incursioni dell’esercito, i palestinesi non hanno smesso di mandare i figli a scuola ogni giorno, né hanno impedito loro di svolgere le loro attività quotidiane. Un esempio: il villaggio beduino di Al-Araqib è stato demolito 200 volte e 200 volte ricostruito. Dei palestinesi rapiti dall’esercito che vengono rilasciati lontano dai loro villaggi per essere torturati, nessuno si trova a dormire senza un riparo, per il senso di comunità e solidarietà tra la gente palestinese. I giovani nei villaggi, nelle città e nei campi profughi non hanno altro che pietre per affrontare la repressione dell’occupazione in Cisgiordania, che viene perpetrata con una forza letale. Nessun scontro con l’occupazione avviene senza caduti e feriti. Il nostro obiettivo ora è rimanere nella nostra terra, nonostante la corruzione politica delle autorità al potere in Cisgiordania, che a volte partecipa alla repressione delle proteste, perchè nonostante il loro controllo sulle risorse governative, la loro preoccupazione principale è diventata la salvaguardia dei loro interessi materiali, che sono legati all’esistenza dell’occupazione sionista stessa. 1N.d.T: I dispositivi che regolano la libertà di movimento dei/delle palestinesi in Cisgiordania hanno varie forme. Quando si parla di ostacoli, oltre ad immaginarsi veri e propri checkpoint, bisogna immaginarsi anche sacchi di terra, barriere in cemento, dossi (anche chiodati) posti lungo le strade percorribili con i mezzi, che inevitabilmente rallentano o impediscono gli spostamenti. Per chiusura totale o parziale, inoltre si intende, che è impossibile attraversare il posto di blocco e che a destinazione non si arriva. 2 Quando si parla di campi profughi, non bisogna immaginarsi una distesa di tende, ma agglomerati di case e palazzine, strade e vicoli – dei veri e propri villaggi che vengono comunque nominati come campi profughi perché creati e costruiti laddove si stabilirono i palestinesi dislocati dalle loro case a cui gli è stato impedito di ritornare durante e dopo la Nakba.
L’architettura digitale del genocidio e i palestinesi come “spazzatura” algoritmica: Gaza nella guerra globale
Segnaliamo questo articolo che contiene un’utile sintesi sull’impiego dell’Intelligenza Artificiale nel genocidio in corso a Gaza, e sull’impatto che il primo sterminio algoritmico della storia sta avendo e avrà sui complessi scientifico-militar-industriali in guerra fra loro (e tutti insieme in guerra contro il vivente). Illusorio e fuorviante auspicare che tale sviluppo possa essere normato. Solo i palestinizzabili del mondo intero possono sabotare i mezzi della disumanità, grazie alla consapevolezza che la propria incarcerazione tecnologica può trasformarsi in annientamento automatizzato: il quadrante dei comandi è lo stesso. https://codice-rosso.net/laboratorio-gaza-intelligenza-artificiale-principale-arma-di-distruzione-di-massa-esercito-israeliano/
Riprenderci il territorio: un’escursione nel territorio del PISQ
Domenica scorsa con alcunə compagnə di A Foras abbiamo partecipato ad un’ escursione naturalistica nel Poligono di Quirra, col desiderio di iniziare a riprenderci la Sardegna a partire dalla conoscenza dei suoi monumenti storici e delle sue bellezze ambientali, proprio dove sono maggiormente minacciate. Questa volta abbiamo iniziato dalla zona del “Poligono a mare” del PISQ. Siamo partiti da Quirra, una frazione del comune di Villaputzu costituita da case sparse, che confina con il “Distaccamento di Capo San Lorenzo” e la fabbrica di armi della Leonardo S.P.A. In questa zona ci sono moltissimi resti archeologici di tutte le epoche, fra cui diversi nuraghi, domus de janas, alcune chiesette romaniche e il castello medievale che si affaccia sull’entroterra e domina la valle alluvionale che scende al mare di Murtas. Il castello di Quirra fu costruito dai giudici di Càlaris nel XII secolo e in seguito fu proprietà di Nino Visconti prima di essere incamerato nei domini di Pisa in Sardegna verso il 1296. Fu conquistato dagli aragonesi dopo un lungo assedio nel 1324 e fu teatro di diversi scontri con i giudici di Arborea. Appena sotto il castello inizia la zona del Poligono Militare, che coincide per oltre due terzi con il Sito di Interesse Comunitario “Stagni di Murtas e S’àcua durci”. Questa zona, con la spiaggia di Murtas è interdetta dal 1 ottobre al 1 giugno. In seguito all’accordo fra la Regione e il Ministero della Difesa, erano stati aperti alcuni chioschi lungo la spiaggia che sembravano poter contribuire a creare un’ economia alternativa, dove in passato c’era solo l’indotto legato alla base, che soffoca l’economia locale e al tempo stesso illude i sardi di tenerli in vita. Purtroppo la scorsa estate non sono state più rilasciate concessioni e quindi al momento non esiste nessuna struttura di ristorazione nella zona, eccetto quella che serve i militari e gli operai della Leonardo. La nostra escursione è terminata alla Torre Spagnola di Murtas, da dove si può vedere la rampa su cui vengono testati i vettori aerospaziali, con la dispersione nell’ ambiente di enormi quantità di sostanze inquinanti. Da lì purtroppo siamo dovuti tornare indietro, ma siamo sempre più convinti che dobbiamo vedere nostra terra libera, senza più filo spinato e stagioni delle bombe.
Il genocidio riorganizzatore. Israele, il Guatemala e l’internazionalismo autoritario
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Genocidio riorganizzatore Il genocidio riorganizzatore e la lunga storia dell’internazionalismo autoritario Lo sterminio delle popolazioni maya in Guatemala negli anni Settanta e Ottanta dimostra come l’internazionalismo autoritario come complicità genocida in chiave di riorganizzazione territoriale e integrazione di complessi scientifici-militari-industriail non sia affatto una novità, ma abbia una lunga ed atroce storia. Sotto le dittature di Lucas Garcia (1978-82) e Ríos Montt (1982-83), lo Stato guatemalteco, con il supporto tecnico-militare di Israele, Stati Uniti e Taiwan, perpetrò un atroce genocidio contro le popolazioni originarie, in particolare i Maya Ixil, con l’uso sistematico di napalm, tortura e sparizioni. Durante la sanguinosa guerra civile, l’esercito, in risposta al noto concetto maoista secondo cui “la guerriglia, sostenuta dal popolo, si muove al suo interno come un pesce nell’acqua”, mise in pratica la strategia del “togliere l’acqua al pesce”, ovvero distruggere individui e comunità per annientare il sostegno popolare alla resistenza e spopolare vaste aree di terra da depredare. È così che lo Stato razzista pianificò eseguì e giustificò uno dei genocidi più crudeli e impuniti dell’America Latina, provocando 200mila morti, di cui 130mila nel corso della sola operazione “terra bruciata”, un milione e mezzo di sfollati, 150mila rifugiati in Messico, 50mila desaparecidos. I maya come palestinesi ante litteram, potremmo senz’altro dire. Forse la cifra più significativa della contemporaneità è il fatto che la categoria di nemico interno si sia estesa a situazioni di bassa conflittualità reale, per assumere alle nostre latitudini un carattere sostanzialmente preventivo contro quella “acqua” che non è rappresentata tanto (lo è ancora a Gaza e altrove) da una tenace resistenza popolare, quanto da quella parte di popolazione che è “eccedente”, “sovrannumeraria”, rispetto alle logiche della produzione, del consumo, della valorizzazione finanziaria e dunque, per la sua semplice esistenza, d’intralcio all’ordine del tecno-capitalismo. Un’umanità inutile per il capitale, o forse utile semplicemente per sperimentare sulla sua pelle svariate innovazioni tecnologiche per poi essere eliminata in caso di problemi, magari con gli stessi strumenti di sterminio automatizzati per il cui affinamento è stata cavia. Così si può comprendere l’estensione indeterminata del concetto di terrorismo, in quanto arma del Terrore degli Stati. Un’arma materiale e culturale applicata per difendere gli interessi di apparati scientifici-militari-industriali integrati, come dimostra in maniera emblematica il processo contro la resistenza palestinese, contro Anan, Alì, Mansour, portato avanti dalla DNAA a l’Aquila su mandato di Israele. Per questo è utile la lettura di una parte del seguente testo, che descrive il coinvolgimento di Israele nella politica della “terra bruciata” in Guatemala, sostenendo che le pratiche di tortura e genocidio attualmente osservate in Palestina sono parte integrante della guerra tecno-capitalista. Israele e la terra bruciata in Guatemala A proposito dell’attuale campagna genocida condotta dal complesso militare-industrialei israeliano a Gaza, che secondo le parole della relatrice delle Nazioni Unite Francesca Albanese è destinata a diventare il “più grande atto di pulizia etnica nella storia di questa terra tormentata” (Democracy Now, 2023), dall’America Latina è doveroso denunciare la razionalità storica del “genocidio riorganizzatore”ii (Feierstein, 2007) perpetrato dallo Stato sionista di Israele. Una razionalità che ha segnato momenti atroci della storia recente della nostra regione e in cui il complesso militare-industriale israeliano ha avuto un peso significativo, come nel caso dell’esportazione di armi ai governi militari del Cile (Pérez, Triana, 2023). In questo testo approfondiremo i profondi legami di Israele con il genocidio più atroce della storia recente del subcontinente: la politica della terra bruciata in Guatemala, evento in cui settori dell’estrema destra di quel paese hanno utilizzato espressioni come la “palestinizzazione dei ribelli indigeni Maya” (Black, 2007; Schivone, 2017). La lunga guerra civile guatemalteca scatenata da una serie di colpi di Stato militari di destra sostenuti dalla Central Intelligence Agency (CIA) ha vissuto i suoi anni più crudeli alla fine degli anni ’70 e nella prima metà degli anni ’80. I livelli di crudeltà umana portarono persino alla congestione del governo statunitense, che portò l’amministrazione Carter a cessare formalmente gli aiuti militari al Guatemala nel 1977 (Carmon, 2012). Questo lavarsi le mani da parte degli Stati Uniti non limitò in realtà il sostegno militare alle dittature guatemalteche. I funzionari statunitensi che sostenevano le dottrine “anticomuniste” e le campagne dittatoriali della strategia continentale di “sicurezza nazionale” erano contrari alla cessazione degli aiuti militari al Guatemala e cercarono di colmare questo vuoto “incoraggiando le attività israeliane come mezzo per integrare l’assistenza statunitense ai governi amici in materia di sicurezza” (Taubman, 1983). Sfruttando le buone relazioni diplomatiche esistenti tra Guatemala e Israele, derivanti dal fatto che “il Paese centroamericano è stato il secondo al mondo, dopo gli Stati Uniti, a riconoscere l’esistenza di uno Stato ebraico nel territorio di quella che all’epoca era conosciuta come Palestina, il 14 maggio 1948” (Wallace, 2017), si favorì un coinvolgimento militare israeliano in America Centrale, proprio a partire dal 1977, anno in cui “i presidenti Laugerud García del Guatemala ed Ephraim Katzir di Israele hanno firmato un accordo di supporto militare” (Movimento BDS, 2020). Il supporto militare israeliano allo Stato dittatoriale guatemalteco comportò “principalmente la vendita di armi, l’addestramento militare e la consulenza nelle operazioni di intelligence” (Taubman, 1983), per cui vennero forniti all’esercito guatemalteco i famosi fucili automatici UZI, “11 aerei IAI Arawa, 10 blindati RBY-MK, 15mila fucili Galil, centinaia di mortai da 81 mm, bazooka, lanciagranate, tre guardacoste Dabur, un sistema di trasmissioni tattiche, un circuito radar e 120 tonnellate di munizioni” (Movimento BDS, 2020); venne costruita una fabbrica di armi nella provincia di Alta Verapaz da parte dell’azienda israeliana Eagle Military Gear Overseas (EMGO); si implementò l’addestramento operativo, sia in Israele che in Guatemala, con la fondazione della Scuola di Trasmissioni ed Elettronica dell’Esercito “progettata e finanziata da Israele in Guatemala e inaugurata da Benedicto Lucas García, per addestrare i militari guatemaltechi all’uso delle cosiddette tecnologie di controinsurrezione” (Ibid, 2020). Israele giustificò la propria presenza in Guatemala con la scusa dell’anticomunismo e dell’espansione del proprio mercato di armi (Carmon, 2012). Tra le aziende militari israeliane legate al terrorismo di Stato in Guatemala, possiamo citare la società di sicurezza Sistemas Internacionales de Seguridad y Defensa (ISDS), che ha venduto al governo del Paese centroamericano corsi di “terrorismo selettivo” (Cortés-Gálan et al., 2019). Cortés Galán, Mantovani e Santa Cruz sottolineano che: “(…) l’ISDS si è specializzata negli interrogatori e nella sorveglianza dei prigionieri in America Latina. Nel contesto delle dittature in cui ha operato l’ISDS, l’azienda israeliana è collegata alle pratiche diffuse di tortura e detenzione illegale. (…) Secondo Carl Fehlandt, ex trafficante d’armi dell’ISDS in Guatemala tra il 1982 e il 1986, ‘il governo israeliano controlla l’ISDS e chi comanda è il Ministro della Difesa’.” (Cortés- Galán et al., 2019). L’addestramento israeliano era così approfondito che nel 1982 il militare golpista Efraín Ríos Montt dichiarò in un’intervista alla ABC News che “i soldati israeliani sono il modello dei nostri soldati”, sottolineando che il loro successo militare era dovuto al fatto che “i nostri soldati sono stati addestrati dagli israeliani” (Carmon, 2012). Esistono persino prove che i consulenti militari israeliani abbiano influenzato il colpo di Stato militare che portò Ríos Montt alla presidenza nel 1982 (Movimento BDS, 2020). In questo contesto, nel 1974 è stato creato il corpo d’élite antisovversivo Kaibil, caratterizzato da crudeltà e perdita di ogni umanità, che descrive i propri membri come “macchine per uccidere”. Queste forze, secondo il documento “Memoria del silenzio” (elaborato dalla Commissione per il chiarimento storico guatemalteca), hanno commesso il 93% dei crimini durante gli ultimi 20 anni di guerra (Hernández, 2023) e oggi, secondo le rivelazioni di Guacamaya Leaks, addestrano gruppi di sicari della criminalità organizzata in Messico (Camacho, 2022; Pachico, 2012). Il ruolo storico dell’amministrazione di Ríos Montt passerà alla storia per aver perpetrato un genocidio e crimini contro l’umanità con la sua politica della “terra bruciata” attuata attraverso i piani “Operazione Sofia”, “Victoria 82” e “Fucili e fagioli”. Tramite queste strategie, la popolazione maya del Paese iniziò ad essere classificata come “nemico interno sospetto”iii dello Stato dittatoriale. Queste strategie venivano apertamente descritte con l’espressione “palestinizzazione della popolazione maya ribelle” (Black, 2007; Schivone, 2017). L’attuazione di tali piani “ha provocato morti, violenze, sfollamenti, persecuzioni, bombardamenti e sottomissione distruzione del gruppo etnico Maya Ixil”iv (Azevedo, 2016). In modo sistematico, sono stati commessi massacri nei villaggi delle popolazioni indigene, giustificati con la logica controinsurrezionale del “togliere l’acqua al pesce”v, durante i quali sono state trovate prove del sostegno israeliano, come nel caso del massacro di Dos Erres nel Petén, in cui durante un’esumazione ordinata dal tribunale, gli investigatori che lavoravano per la Commissione per la Verità del 1999 hanno citato quanto segue nella loro relazione forense: “Tutte le prove balistiche recuperate corrispondevano a frammenti di proiettili di armi da fuoco e capsule di fucili Galil, fabbricati in Israele” (Movimento BDS, 2020). Secondo le stime del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico del Guatemala (CEH), questa politica ha causato la morte di 200.000 esseri umani, di cui circa l’83% erano Maya, motivo per cui è stata classificata come genocidio. Al contempo, i sopravvissuti sono fuggiti in Messico o sono stati trasferiti in villaggi strategici chiamati “villaggi modello”, dove sono stati indottrinati con un’ideologia anticomunista e predicazioni evangelichevi. Alcuni territori svuotati dalla terra bruciata sono diventati zone di concessioni petrolifere, dove i militari esercitano un grande potere decisionale. Aviva Chomsky sottolinea che la distribuzione delle terre tra generali e compagnie petrolifere è talmente rilevante che un distretto dell’Alta Verapaz, destinato all’estrazione di petrolio, è persino denominato “l’area dei generali” (Chosmky, 2021), il che permette di inferire un legame tra anticomunismo, razzismo e l’attuazione di un modello capitalista militarista alimentato dal terrore, dal genocidio riorganizzatore. Oggi, le relazioni diplomatiche del Guatemala con lo Stato di Israele sono molto solide, con la firma dell’accordo di libero scambio tra i due paesi nel 2022 e il trasferimento dell’ambasciata guatemalteca a Gerusalemme nel 2018 (due giorni dopo gli Stati Uniti). La promozione del mercato degli armamenti israeliano continua a destare preoccupazione con la firma di questi accordi di libero mercato, così come la sua presenza simbolica nella “guerra culturale” che si sta combattendo contro le cosmovisioni Maya in questo paese. […] Alberto Hidalgo [2023] iSistema o insieme di organizzazioni, imprese ed enti correlati che attuano produzione, sviluppo e gestione in ambito militare, il che include la fabbricazione di armi, attrezzature militari, tecniche di guerra, nonché la ricerca e lo sviluppo nel campo della difesa e della sicurezza nazionale. iiFeierstein utilizza il concetto di genocidio riorganizzatore poiché sostiene che esso non ha solo lo scopo di distruggere i corpi di una comunità definita come “l’altro – il nemico”, ma cerca anche di distruggere le relazioni sociali e spaziali per imporre un nuovo ordine o modello di territorialità secondo gli obiettivi del perpetratore, in questo caso l’occupazione illegale del territorio palestinese. iiiAlfred Kaltschmitt, ex funzionario pubblico durante l’amministrazione Montt, in un’intervista per il film “El buen cristiano” sottolinea che “le cellule (guerrigliere) composte da famiglie trasformavano giovani e bambini in combattenti, quindi non si faceva distinzione tra combattenti e non combattenti”, un concetto che ha scatenato l’uccisione indiscriminata. (Acevedo, 2016) ivTestimonianza del procuratore per i diritti umani del Ministero pubblico del Guatemala Orlando López durante il processo per genocidio contro il generale Ríos Montt. (Acevedo, 2016) vMetafora utilizzata dalla controinsurrezione per alludere al fatto che consideravano i guerriglieri come pesci e le popolazioni indigene come l’acqua in cui si rifugiavano. vi La Prensa Comunitaria Km 169 sottolinea che in questi villaggi costruiti dall’esercito «ad ogni angolo c’era un palo con altoparlanti attraverso i quali, 24 ore su 24, si ascoltavano prediche e inni evangelici cristiani“, perché i villaggi erano stati costruiti con denaro dello Stato e delle chiese evangeliche statunitensi, con le quali l’allora dittatore Efraín Ríos Montt intratteneva stretti rapporti” (2019).
Il Metodo Gaza, appunto
Riprendiamo da Invicta Palestina, https://www.invictapalestina.org/archives/58157 Gaza Inc: dove il genocidio è testato in battaglia e pronto per il mercato GAZA È DIVENTATA LA VETRINA DI TEL AVIV PER LO STERMINIO PRIVATIZZATO, DOVE AZIENDE TECNOLOGICHE, MERCENARI E FORNITORI DI AIUTI UMANITARI COLLABORANO IN UN MODELLO SCALABILE DI GENOCIDIO INDUSTRIALE VENDUTO AGLI ALLEATI IN TUTTO IL MONDO. Fonte: English version Di Aymun Moosavi – 12 settembre 2025 Lo Stato di Occupazione Israeliano ha trasformato la sua guerra contro i palestinesi in un’Industria di Uccisioni privatizzata. Gaza è il luogo in cui aziende tecnologiche, mercenari e giganti della consulenza orchestrano sorveglianza, sfollamenti e Uccisioni di Massa a scopo di lucro. Oltre a essere una Guerra Coloniale, è anche un prototipo per l’esportazione globale di Sterminio su scala industriale, riconfezionato come innovazione in materia di sicurezza. Basato sui dati e incentrato sul profitto, questo modello, testato oggi sui palestinesi, sarà implementato altrove domani. Un numero crescente di aziende private opera ora come la mano invisibile del Genocidio. I loro servizi spaziano dall’identificazione di obiettivi per attacchi aerei all’ingegneria della Carestia e alla facilitazione degli sfollamenti di massa. Gaza è il luogo dove il genocidio incontra il capitalismo Dall’inizio degli anni 2000, le compagnie militari private si sono profondamente insinuate nell’economia bellica. Aziende come Blackwater (ora Academi) e Dyncorp International hanno segnato un cambiamento fondamentale, assumendo ruoli tradizionalmente ricoperti dalle forze armate nazionali. Inizialmente concentrate sulla sicurezza e sulla logistica in Iraq e Afghanistan, queste aziende hanno ampliato le loro operazioni, fornendo supporto operativo e agendo come attori chiave nelle zone di guerra di tutto il mondo, comprese alcune parti dell’Africa, dello Yemen e di Haiti. L’ironia è evidente: gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un nuovo polo per queste compagnie militari private, che trovano rifugio nello Stato del Golfo, dove i mercenari ricevono privilegi speciali dalle autorità locali. Le aziende private si sono evolute da appaltatori distanti ad agenti di guerra attivi, operando impunemente. Questo ha gettato le basi per il modello attuale, in cui il personale non militare influenza i risultati politici senza limiti o regolamentazioni. Un ulteriore livello di supporto proviene dalle organizzazioni non profit private. Un recente rapporto rivela come organizzazioni statunitensi come gli Amici Americani della Giudea e della Samaria e gli Amici di Israele sfruttino il loro status di esenzione fiscale 501(c)(3) per convogliare donazioni direttamente alle operazioni militari e agli insediamenti israeliani. Questi gruppi forniscono attrezzature come droni termici, caschi, giubbotti antiproiettile e corredi di pronto soccorso a unità come la 646a Brigata Paracadutisti, anche all’interno di Gaza. Oltre alla logistica, sostengono Progetti di Insediamento, fanno pressioni per l’annessione della Cisgiordania Occupata, gestiscono campagne educative per promuovere la sovranità israeliana e supportano gli sforzi militari in Libano contro Hezbollah. L’emergere dell’Intelligenza Artificiale ha ampliato la gamma di attori di guerra accettabili, aprendo nuove e redditizie opportunità nella sorveglianza e nella raccolta di informazioni. Israele ha abbracciato questo modello, ma lo ha applicato con agghiacciante precisione. La sua Unità d’élite 8200, il cervello digitale dello Stato di Occupazione, ha fuso la sorveglianza militare con la tecnologia aziendale per creare il primo Genocidio al mondo assistito dall’Intelligenza Artificiale. Strumenti come Lavanda e Vangelo ora analizzano le comunicazioni palestinesi, utilizzando il riconoscimento dialettale e i metadati per generare automaticamente Liste di Uccisioni. Questi strumenti, focalizzati principalmente sui dialetti arabi, sono stati progettati per monitorare i palestinesi e altre popolazioni di lingua araba. Aziende come Palantir, Google, Meta e Microsoft Azure avrebbero facilitato questi progetti, contribuendo allo sviluppo di Lavanda e di altri sistemi di sorveglianza. Gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, investono in aziende tecnologiche di sorveglianza globale che alimentano la Macchina del Genocidio. Con i sistemi di Intelligenza Artificiale che decidono chi vive e chi muore, il confine tra comando militare e algoritmo aziendale è praticamente svanito. L’infrastruttura stessa dell’Occupazione israeliana, dalla sorveglianza all’assassinio, è stata esternalizzata, semplificata e venduta. Dalle armi testate in battaglia all’Apartheid algoritmico L’economia israeliana si basa sul capitalismo militarizzato. I suoi 14,8 miliardi di dollari (12,6 miliardi di euro) di vendite di armi solo quest’anno sono sostenuti da una strategia commerciale tanto cinica quanto efficace: “Testati in Battaglia” sui palestinesi. Un esempio lampante è l’armamento di Smartshooter, un’azienda israeliana, fornito dall’esercito britannico da giugno 2023 in un accordo da 4,6 milioni di sterline (5,3 milioni di euro). La tecnologia di Smartshooter è stata utilizzata dall’unità d’élite Maglan e dalla Brigata Golani dell’Esercito di Occupazione durante l’assalto a Gaza. Il giornalista Antony Loewenstein, citato da Declassified UK, ha dichiarato: “Smartshooter è solo una delle tante aziende israeliane che testano le proprie attrezzature sui palestinesi occupati. È un’attività altamente redditizia e il Massacro a Gaza non ne rallenta il commercio. Anzi, sta aumentando a causa dell’attrazione di molte nazioni verso il modello israeliano di sottomissione e controllo”. Oggi, il settore delle armi e quello della tecnologia israeliani sono indistinguibili. Programmi di sorveglianza, Liste di Uccisioni basate sull’Intelligenza Artificiale e sistemi di puntamento automatizzati sono confezionati insieme a fucili e droni. La guerra è diventata un laboratorio per l’innovazione tecnologica, trasformando Gaza in un laboratorio dove si perfeziona il Genocidio privatizzato. Questa fusione ha permesso a Tel Aviv di industrializzare la sua Occupazione, creando un sistema modulare di sottomissione esportabile a livello globale. Quella che è iniziata come la militarizzazione della tecnologia si è trasformata in qualcosa di molto più pericoloso: la tecnologizzazione del Genocidio. Modello israeliano di genocidio Il Modello Israeliano di Genocidio ha acquirenti internazionali. Un recente titolo di Haaretz, “Perché il futuro della difesa israeliana risiede in India”, ha evidenziato i reciproci vantaggi del partenariato di difesa tra Israele e India. Per Tel Aviv, riduce la dipendenza dall’Occidente, mentre l’India acquisisce una certa influenza strategica nell’Asia Occidentale. Tra il 2001 e il 2021, l’India ha importato tecnologia di difesa israeliana per un valore di 4,2 miliardi di dollari (3,6 miliardi di euro), inclusi droni avanzati e componenti militari. Più di recente, l’Europa è diventata il principale acquirente di armi di Israele, arrivando a rappresentare fino al 54% delle esportazioni totali nel 2024. Sulla scia della Brexit e dell’imprevedibilità dell’amministrazione del Presidente statunitense Donald Trump, la Gran Bretagna, in particolare, ha rafforzato il coordinamento della difesa con Israele nel tentativo di riposizionarsi come attore chiave e rilevante in un ordine multipolare. Secondo alcune fonti, Londra starebbe preparando un accordo da 2,7 miliardi di dollari (2,3 miliardi di euro) con Elbit Systems, il più grande produttore di armi israeliano, per addestrare 60.000 soldati britannici all’anno. Questo rapporto si è approfondito all’inizio di quest’anno, quando è emerso che un’accademia militare britannica stava addestrando soldati dell’Esercito di Occupazione, molti dei quali sono stati implicati in Crimini di Guerra durante i conflitti di Gaza e del Libano. La stessa Elbit fornisce l’85% dei droni dell’Esercito di Occupazione ed è stata ripetutamente presa di mira dalla Palestine Action, un’organizzazione non governativa, per il suo ruolo diretto nei Crimini di Guerra. Londra non solo ha protetto l’azienda, ma ha anche intensificato le operazioni congiunte. La Gran Bretagna produce anche il 15% di tutti i componenti dei caccia F-35. Questi aerei sono stati utilizzati senza sosta nel Genocidio di Gaza, eppure la loro produzione continua, confermata dai tribunali britannici nonostante le proteste. Lungi dall’essere neutrale, la Gran Bretagna è parte integrante dell’Infrastruttura Genocida di Tel Aviv. L’industria delle armi è ormai diventata un affare globale, che intreccia difesa, tecnologia e oppressione sistemica. Il Modello Israeliano di Genocidio, che trae profitto direttamente da questa intersezione, si è diffuso oltre i suoi confini, con alleati internazionali complici del suo successo. Aiuti militari, riprogettazione di Gaza Gli appaltatori privati sono ormai integrati in ogni livello della Macchina Bellica israeliana, inclusa la sua cinica manipolazione degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza, presumibilmente istituita per facilitare gli aiuti, è stata smascherata per collusione con le Forze di Occupazione, archiviazione di informazioni e dispiegamento di società di sicurezza private con zero credenziali umanitarie. Il ruolo delle aziende private si estende ben oltre la sorveglianza a distanza, infiltrandosi nei meccanismi degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza è stata ripetutamente criticata per aver violato i principi fondamentali della distribuzione degli aiuti, come l’imparzialità e l’indipendenza. È stata colta a sparare sulla folla, a raccogliere informazioni e a collaborare con le autorità israeliane, esternalizzando al contempo società di sicurezza private come Safe Reach Solutions e UG Solutions, due società di sicurezza private guidate da personale privo di competenze umanitarie. Recentemente, è stato scoperto che UG Solutions aveva reclutato membri di una famigerata banda di motociclisti anti-islamici dagli Stati Uniti. In totale, 2.465 palestinesi sono stati uccisi e oltre 17.948 feriti mentre attendevano gli aiuti umanitari a Gaza, secondo il Ministero della Sanità di Gaza. Il problema chiave risiede nel fatto che le aziende private non sono vincolate dagli stessi parametri etici delle organizzazioni umanitarie tradizionali. Questa mancanza di regolamentazione consente loro di funzionare come estensioni dell’Occupazione, promuovendo gli obiettivi di Israele sotto la maschera di aiuti con scarsa o nessuna responsabilità. Gli aiuti privatizzati non sono quindi un dettaglio secondario, ma una componente centrale del Modello di Genocidio Israeliano, che trasforma gli aiuti umanitari in un ulteriore Strumento di Occupazione. Terra bruciata Il piano “Riviera di Gaza” del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la visione di espulsione di massa del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si basano entrambi su una completa rivisitazione di Gaza. Il piano postbellico di Trump richiede una popolazione disposta a trasformarsi in sudditi di un polo economico, mentre Netanyahu immagina una terra ripulita dai palestinesi, su cui poter costruire nuovi insediamenti illegali. A differenza del modello imperiale, il Modello del Genocidio Israeliano richiede la purificazione di una popolazione, poiché è più facile, e più efficiente, eliminarla che renderla servile. Questo rende la privatizzazione di una Gaza postbellica non solo un’opzione, ma una necessità. Secondo il Financial Times, il Gruppo di Consulenza di Boston, la società di consulenza statunitense in parte responsabile della creazione della Fondazione Umanitaria per Gaza, sarebbe stato incaricato di stimare il costo del trasferimento di Gaza nell’ambito di un più ampio piano di ricostruzione postbellica. I rapporti evidenziano anche una maggiore dipendenza dai mercenari statunitensi per gestire il contesto postbellico e controllare il traffico di armi, dimostrando come sia il modello imperiale che il Modello Genocida Israeliano dipendano l’uno dall’altro per sostenersi. Gli aiuti umanitari sono stati determinanti nella realizzazione di questa visione. I quattro siti di “distribuzione degli aiuti”, descritti dai funzionari delle Nazioni Unite come “trappole mortali”, sono diventati zone militarizzate, costringendo i palestinesi a rifugiarsi in enclave ancora più piccole nel Sud di Gaza, contribuendo direttamente all’obiettivo di sfollamento di Israele. Questo non è il futuro della guerra. È il presente. E viene costruito, testato e venduto a Gaza. Aymun Moosavi è un’analista politica con un dottorato in Studi sui Conflitti Internazionali conseguito al King’s College di Londra. Il suo lavoro si concentra sulla Resistenza e la Liberazione nella Regione dell’Asia Occidentale. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
Sulle macerie e sulle coste – Dal colonialismo genocidario israeliano alla villeggiatura in Sardegna
I fatti, più o meno, li conosciamo. La popolazione palestinese sta subendo un genocidio da parte dello stato di Israele, appoggiato da complici occidentali. La soluzione finale è in corso, come dichiarato dal Primo Ministro israeliano Netanyahu. La guerra di Israele contro la Palestina dura da più di settant’anni, con dei picchi di sterminio che partono dalla Nakba e che oggi superano qualsiasi misura mai conosciuta prima. E da allora la popolazione palestinese resiste. Cosa farne di una terra devastata non è mai stato un gran problema per lo Stato Ebraico. Da mesi si chiacchiera del progetto di costruzione della cosiddetta “Gaza Riviera”, che ora sembra concretizzarsi attraverso un piano di investimenti da parte di Israele e USA: il Washington Post ha reso noto che il Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT) è stato effettivamente steso in un documento di 38 pagine. Ufficialmente “trasferimenti temporanei” e “partenze volontarie”, sono di fatto una deportazione degli oltre 2 milioni abitanti della Striscia a seguito di una guerra che ha raso al suolo il territorio palestinese e sterminato la sua popolazione. La guerra di Israele alla popolazione palestinese è sempre stata riconosciuta nella sua natura di guerra di insediamento coloniale per la realizzazione di un progetto etno-nazionalista, fondamentalista religioso, con la speficifica caratteristica di essere un solido baluardo capitalista occidentale nei paesi arabi. Cosa significa tutto questo è disvelato dagli espliciti discorsi sionisti, dal pronunciato odio verso la popolazione araba, dalla tecnologia militare e dal coinvolgimento totale della popolazione civile israeliana nella guerra. E ultimo, ma non per importanza, dai piani di ricostruzione del futuro della Striscia – futuro di cui i coloni israeliani si sono appropriati- e tra questi piani spicca appunto il GREAT. Così Israele si presenta come avanguardia colonialista per eccellenza, con il caratteristico sincretismo di lusso, investimenti immobiliari, turismo, Hi-tech, tutto sotto stretta sorveglianza militare. Arriviamo al dunque. C’è un filo nemmeno troppo sottile che collega l’industria del turismo di lusso modello israeliano e la Sardegna. Proprio questa estate, mentre a Gaza prosegue il genocidio, viene fatto su un mega yatch a largo della Costa Smeralda un summit con Steve Witkoff, rappresentante diplomatico statunitense, il primo ministro del Qatar e il ministro israeliano Ron Dermer, annunciato come una trattativa per il cessate fuoco a Gaza e conclusosi con un nulla di fatto ma con i tratti di una piacevole villeggiatura. E’ stata poi annunciata per giugno l’inaugurazione della nuova tratta diretta Olbia-Tel Aviv, rinforzata da controlli speciali su passeggeri e bagagli, che saranno gestiti in collaborazione con le autorità israeliane, ovvero agenti in borghese – con tutta probabilità, ci sentiamo di aggiungere, agenti del Mossad. La popolazione sarda durante gli ultimi mesi ha manifestato più volte in mille contesti e con mille strumenti differenti la propria solidarietà verso il popolo palestinese. Una solidarietà fatta da piccole azioni spontanee e individuali come l’esibizione di bandiere e striscioni durante le feste popolari e di mobilitazioni più strutturate da parte del mondo dell’associazionismo, dell’antagonismo, delle realtà politiche indipendentiste e della sinistra di classe fino ad arrivare al mondo cattolico. Anche nel caso degli arrivi da Tel Aviv questa solidarietà non è venuta meno e già dal primo arrivo, in data 27 agosto 2025, i turisti sionisti hanno trovato un nutrito comitato di accoglienza a destinazione. Durante il presidio di domenica 31 agosto circa 200 manifestanti sono addirittura riusciti a bloccare per 3 ore il transito dei turisti israeliani verso il loro hotel, ricevendo sostegno e solidarietà dal personale aeroportuale e da tanti altri turisti in transito all’aeroporto di Olbia. Come spesso accade, in funzione dell’arrivo del 4 settembre, probabilmente sotto pressioni del Mossad, la polizia italiana si è dotata delle dovute contromisure schierando l’antisommossa e scortando gli autobus del turismo sionista fino al loro hotel, arrivando addirittura a identificare 5 cittadine (di cui un bambino) che semplicemente passeggiavano in aeroporto perché riconosciute come solidali alla causa palestinese. La scelta della Sardegna come avamposto di villeggiatura e riposo per civili e militari israeliani non riteniamo sia casuale. Per cominciare, la Costa Smeralda è un baluardo del turismo di lusso, un territorio di fatto inaccessibile alle persone sarde, proibitivo a causa dei costi diretti e indiretti, schiavile nei termini delle condizioni di lavoro con cui nostr3 compaesan3 vengono assunt3 nelle strutture ricettive. Materialmente e moralmente lontano dai nostri desideri su come vivere la nostra terra. A questo si aggiunge la militarizzazione diretta di così tante aree che qualsiasi destinazione turistica si ritrova confinante con basi Nato o altre strutture militari, dato probabilmente rilevante per chi ne fa una questione di sicurezza in un momento così teso dal punto di vista geopolitico. Togliendo le aree di turismo ad alto impatto e le zone militari, si capisce che a noi resta ben poco. Un insulto, per noi, essere la destinazione favorita dai coloni israeliani complici del genocidio. Un insegnamento, per loro, su come ri-valorizzare una terra ormai inaridita ma con un grande potenziale di estrattivismo economico. Così si intersecano senza troppi nodi i fili che legano un genocidio, l’economia della guerra, il colonialismo e il turismo. Da grandi condanne derivano grandi responsabilità: fare di tutto per liberare la Palestina è fare di tutto per togliere le basi alle guerre coloniali e ai grandi capitali partendo dai centri economici delle nostre terre occidentali. La proposta è già in atto ma ha bisogno di qualche chiarimento: l’intento dei presidi e delle azioni di disturbo all’aeroporto non è stato solo quello di esprimere un dissenso, ma quello di portare alla luce dove partono, dove atterrano e che itinerario percorrono i legami dei poteri forti da qui a Gaza. E’ a proposito di itinerari e ospitanti che ci proponiamo quindi di rendere pubbliche alcune informazioni che abbiamo reperito prima e durante le azioni di disturbo. L’obiettivo sarà quello di rendere la Sardegna un luogo dove i complici del genocidio non siano i benvenuti, e quindi la cancellazione della tratta Tel Aviv-Olbia, il rifiuto da parte delle strutture locali di ospitare e accogliere i responsabili della guerra in Palestina, decostruire il mito dell’industria turistica come possibilità di sviluppo; ma anche trasformare il dissenso e la solidarietà fine a se stessa in mobilitazione contro l’occupazione militare, la fabbrica di bombe RWM di Domusnovas, i rapporti economici fra università e istituzioni con lo stato di Israele, la partecipazione della Brigata Sassari a “missioni di pace” che di fatto sostengono l’occupazione sionista del Libano, il boicottaggio delle merci legate al genocidio. Insomma, lottare per liberare noi stesse e i nostri territori è un contributo attivo e diretto alla libertà del popolo palestinese. Fondamentale è per questo organizzarsi e sostenere chi di noi persone sarde lavora nel settore della ristorazione o nel settore alberghiero in condizioni contrattuali (o non contrattuali!) pessime, le stesse che non permettono di avere forza sindacale per rifiutarsi di far disossare la nostra terra da chi stermina la popolazione palestinese e dai pesci grossi del turismo. Così come la Sumud Flottilla prende il vento per rompere l’assedio grazie al sostegno di migliaia di persone, ognuna che fa il suo pezzo partendo dal proprio quotidiano e dal proprio luogo di studio o di lavoro, anche la Sardegna ha la responsabilità di aggredire le proprie contraddizioni. Rinnovando l’invito a prendere contatti e raccogliere informazioni , elenchiamo alcune delle strutture e infrastrutture coinvolte nell’accoglienza di coloni-turisti israeliani * Geasar, azienda che gestisce l’aeroporto di Olbia * Mangia’s Sardinia Resort, Santa Teresa, Via Antares 1 * Cantina Surrau, Arzachena, località Chilvagghja * Ristorante Pizzeria La Ruota, Arzachena, località Cascioni * Phi Beach Club, Baja Sardinia, località Forte Cappellini * Boutique del Mar, Palau, località Mannena Spiaggia Bruciata Questa invece la compagnia che organizza viaggi per i dipendenti del settore della comunicazione hi-tech, Vaad Cellcom: * https://ui-db.com/en/projects/vaad-cellcom/ * https://www.instagram.com/vaadcellcom?igsh=bjQ5c2dpOXFqbmN4 Alcune di queste strutture, come ad esempio il Mangia’s Sardinia Resort (Aeroviaggi) e il Phi Beach (la cui struttura è proprietà della Regione Sardegna), non rappresentano altro che la forma del colonialismo turistico che noi sarde conosciamo bene e che in questo caso particolare aggravano la loro presenza prepotente sulla nostra terra permettendosi di ospitare coloni di uno stato genocida. Strutture di coloni che ospitano altri coloni e che lucrano da decenni sul nostro territorio in cambio di qualche busta paga da cameriere e lavapiatti. Decostruire il mito dell’industria turistica, smascherarne i ritmi di lavoro disumani, sindacalizzare le lavoratrici, criticarne e combatterne la presenza sul territorio è un obbiettivo urgente che dovremmo porci e quest’ultima gravissima contraddizione ci dà l’occasione di cominciare. In sostanza, sappiamo che il genocidio inizia anche da qui, da dietro casa nostra, dai porti e aeroporti che visitiamo spesso quando costrette ad emigrare, dai luoghi del lusso della Costa Smeralda, cioè il parco giochi dei coloni per altri coloni, dai poligoni e dalle installazioni militari. Dunque, cosa possiamo fare noi? Come anche il BDS suggerisce, le pratiche possono essere tante, diverse e creative. * Presidiare e disturbare i luoghi frequentati dai sionisti, affinché sia evidente che il popolo sardo sa cosa succede e di che crimini siano macchiati. * Essere presenti agli arrivi da Tel Aviv all’aeroporto di Olbia, sia ai presidi pubblici sia individualmente. * Boicottare tutti i locali elencati sopra. * Chiedere loro conto della complicità al genocidio: dal vivo, per e-mail, sui social. Intasiamo i loro canali: ospitano e intrattengono criminali di guerra. * Fare pressione alle amministrazioni locali e regionali affinché si esprimano e blocchino lo scempio in atto. * Diffondere queste informazioni affinché tutte/i possano posizionarsi in merito. * Contattarci per segnalazioni a riguardo, locali o strutture coinvolte, aggressioni sioniste ai danni delle lavoratrici in Gallura. * Organizzare e partecipare alle mobilitazioni contro la guerra. La lotta non è semplice, spesso ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che accade in Palestina, però sappiamo che non siamo sole: i popoli del mondo intero si stanno schierando con i propri corpi contro il genocidio, in ogni modo possibile. Abbiamo amici dappertutto! I governi sostengono lo sterminio, ma le persone no; sta a noi, con la nostra forza e la consapevolezza di essere dalla parte giusta, riconquistare una vita e una terra di libertà, per noi e per il popolo palestinese. E non solo. Il silenzio è complicità. La storia chiederà il conto. Contra sa gherra Palestina libera, Sardigna libera
Al Lago Omodeo si continua a sparare
Abbiamo visto nelle scorse settimane come le attività militari, nonostante gli accordi Stato-Regione del 2017, abbiano continuato incessantemente durante i mesi estivi con il semplice escamotage di evitare le attività a fuoco. Ma mentre gli accordi del 2017 quantomeno vincolano i militari per quanto riguarda le attività a fuoco, lo stesso non si può dire per le altre forze armate. Il Centro Addestramento Istruzione Professionale (CAIP) della Polizia di Stato di Abbasanta, infatti, continua a svolgere “esercitazioni di tiro con armi portatili individuali a tiro teso” nel poligono del Lago Omodeo. Queste attività, svolte tutte le mattine dei giorni feriali (dalle 7:00 alle 14:00) sono continuate per tutto l’anno, con una pausa solo nel mese di agosto. Tra marzo e aprile a queste attività si è affiancata quella dei guastatori direttamente operata dentro il lago. Le persone che vivono nel territorio segnalano il costante rumore delle scariche di munizioni, ma anche rumori più forti, legati probabilmente all’uso di ordigni esplosivi, come già denunciato dai sindaci del circondario in un documento del 2015. Nel poligono non si addestra solo la polizia, ma anche le altre forze armate e contingenti provenienti da paesi esteri. Da un articolo celebrativo del Corriere della Sera del marzo 2024 apprendiamo che in loco si sono addestrate polizie di regime provenienti da mezzo Mediterraneo: Libia, Serbia, Tunisia, Egitto, Emirati Arabi Uniti. Evidentemente il servizio di scorta, punta di diamante delle attività addestrative del CAIP, è un servizio molto richiesto da oligarchi e dittatori. Attualmente la mancanza di trasparenza sul tipo di attività che vengono svolte nel CAIP (chi si addestra, quando, il tipo di strumentazione e munizioni utilizzato, i rischi per l’ambiente) è pressoché totale, e riflette il consueto disinteresse verso il territorio e le garanzie di controllo democratico delle forze armate tutte. Anche l’utilizzo e la devastazione di spazi del territorio, come ad esempio il villaggio ex-ENEL di Santa Chiara, non risulta formalizzato in alcuna maniera. Le servitù legate al CAIP sono tante e variabili a seconda delle esigenze della Polizia di Stato, insomma, in un contesto di totale mancanza di trasparenza. Il poligono all’aperto del CAIP, considerato il “fiore all’occhiello” della struttura, si trova nei pressi del comune di Soddì, su un promontorio che domina la costa del Lago Omodeo, e offre una visuale su gran parte della sua area. L’area è situata dentro la Zona Speciale di Conservazione (ZSC) ITB031104 “Media Valle del Tirso e Altopiano di Abbasanta-Rio Siddu”, che ricomprende tutto il Lago Omodeo. Come per Capo Teulada, Capo Frasca, l’area di Capo San Lorenzo, La Maddalena, la sovrapposizione tra aree militarizzate e zone di protezione ambientale è una regola dell’occupazione militare della Sardegna. L’attuale poligono è dotato di parapalle, dune di sabbia che dovrebbero garantire la mancata dispersione dei bossoli nell’ambiente. Secondo l’articolo del Corriere citato in precedenza, i bossoli verrebbero contati uno per uno per essere recuperati. Ci permettiamo di esprimere quantomeno scetticismo su questa evenienza: la zona interdetta al passaggio dei civili durante l’addestramento è infatti molto più ampia del poligono, questo perché evidentemente esiste la possibilità della dispersione di proiettili fuori bersaglio, i quali sono destinati a ricadere sulla superficie del lago. Non conoscendo nel dettaglio le attività poste in essere dentro il poligono, non abbiamo modo di sapere quanto sia grave e reiterata questa forma inevitabile di inquinamento. Va da sé che il Lago Omodeo è il principale bacino idrico della Sardegna, la sua importanza è enorme dal punto di vista dell’approvvigionamento di tutta la Sardegna centro-occidentale, e il fatto che si sia sparato e si spari dentro e intorno a questo bacino è una palese assurdità e mancanza di buonsenso. La distesa di bossoli che riemerge nei periodi di secca dal fondale del Lago Omodeo L’attuale poligono ne sostituisce uno precedente situato sulla sponda opposta del Lago Omodeo, nei territori dei comuni di Sorradile e Bidonì. Questo poligono è stato chiuso nel 2004, ma l’eredità ambientale dei rifiuti abbandonati o sepolti sul fondo del lago permane ancora oggi. Occasionalmente lo scandalo della distesa di bossoli e ogive che riemerge dal fondo del lago in secca riemerge sui media, ma ancora ad oggi nessuna procedura di bonifica è stata attuata. Per decenni non si è adottata nessuna azione di mitigazione del danno ambientale, e anzi si è lasciato i rifiuti delle attività addestrative in loco, confidando di averli sepelliti per sempre nel fondo del lago. Il lago infatti è rimasto in collaudo per decenni, e ancora oggi non raggiunge la capienza che avrebbe in teoria dovuto raggiungere con la costruzione della nuova diga. Fosse stato sfruttato a pieno regime, oggi non avremmo modo di raccogliere testimonianza delle attività svolte nel poligono del CAIP tra gli anni sessanta e il 2004. Per svolgere in ZSC attività con un rischio elevato di impatto ambientale, quali sono quelle addestrative a fuoco delle forze armate, bisognerebbe svolgere una Valutazione di Incidenza Ambientale (VINCA) che tenga conto degli impatti cumulati dall’attività in oggetto nel tempo e nello spazio. Ad oggi non è mai stata presentata nessuna richiesta di VINCA da parte delle autorità competenti per le attività nel poligono Nel Piano di Gestione della ZSC, aggiornato con decreto dell’Assessore per la difesa dell’ambiente della Regione Sardegna del 9 novembre 2023, i due poligoni sul Lago Omodeo sono citati come elementi di impatto per la “riduzione e/o perdita di qualità dell’habitat di specie”, con riferimento particolare al rischio di inquinamento delle acque del lago dovuto alla dispersione di bossoli e materiali utilizzati durante le esercitazioni. Un elemento invece sottovalutato, e che pensiamo dovrebbe avere una valutazione propria, è quello dell’inquinamento acustico dovuto all’attività di fuoco pressoché ininterrotta per tutte le ore mattutine dei giorni feriali, la quale comporta sicuro stress per tutte le specie animali, compresa la specie umana. Come azioni per mitigare gli impatti dovuti alle attività del CAIP nella ZSC, sono previste dal Piano di gestione due azioni differenti: per l’area del vecchio poligono si prevede di procedere con le operazioni di bonifica dell’area inquinata, per il nuovo poligono si prevede di stilare un disciplinare d’uso condiviso con le amministrazioni locali, che consideri anche l’uso di siti alternativi per le esercitazioni. Ambedue queste azioni non sono state ancora attivate, nonostante siano previste come prioritarie e inserite in un cronoprogramma di rispettivamente due e tre anni dall’approvazione del Piano di Gestione. L’ostacolo principale a queste azioni è la necessità di interfacciarsi con il Ministero dell’Interno e la mancanza di una previsione di spesa utile a reperire risorse nei bilanci dello stato. L’inerzia politica dell’ente regionale probabilmente costituisce un altro ostacolo. Come A Foras mettiamo in questione l’utilità di strutture come il CAIP e il suo poligono, o la necessità di avere quel tipo di struttura in quello spazio preciso. Da troppo tempo l’utilità e la necessità di queste strutture è totalmente sottratta al discorso politico, per essere abbandonata al monologo delle istituzioni interessate: ministeri, prefetture e corpi delle forze armate. Certamente, visto la limitata dimensione del poligono, il suo spostamento in area più idonea sarebbe anche un fatto facile. Ma per noi la questione va oltre un semplice spostamento, che sposterebbe solamente i problemi altrove. Riteniamo che ci sia una grave questione politica a monte, quella della trasparenza e del controllo democratico sull’operato delle forze armate. È assurdo che anche fatti di minimo buonsenso risultino totalmente estranei al dibattito pubblico, quando si tratta delle forze armate. Non è normale che si rischi di inquinare a casaccio un bacino idrico strategico per la popolazione, che non si pulisca lo schifo lasciato in 40 anni di attività irresponsabili, che non ci si senta minimamente in dovere di sanare e risarcire il danno fatto. Non dovrebbe essere normale che le attività delle forze armate si svolgano al di sopra e aldilà della legge che vige per il resto della popolazione. Pretendiamo che vengano svolte le procedure di Valutazione di Incidenza Ambientale per l’attività del poligono del CAIP, e che queste procedure vengano svolte non come pro-forma, ma con attenzione alla sostanza delle necessità di protezione ambientale che presiedono all’istituzione delle Zone Speciali di Conservazione. Pensiamo che in generale si debba aprire un dibattito complessivo e aperto sul ruolo e la presenza delle forze armate in Sardegna: se l’occupazione militare e l’ipertrofia degli apparati legati alla Difesa è un fenomeno abbastanza conosciuto e dibattuto, manca consapevolezza e dibattito sulla presenza e il ruolo degli apparati di sicurezza legati al Ministero degli Interni, spesso non meno ingombrante e fuori luogo.