La Palestina, le radici coloniali del diritto internazionale (e il ruolo delle università)
I due testi che seguono – il primo è un’ampia disamina di come il diritto
internazionale serva da giustificazione al colonialismo in Palestina (e non
solo); il secondo è una sorta di compendio sul ruolo delle università nei regimi
coloniali – mettono in luce degli elementi chiave per la solidarietà
internazionalista con la resistenza palestinese, ma vanno anche al di là. Tutte
le astrazioni del tecno-capitalismo e delle sue nuvole (cloud) si fondano
sull’esproprio delle terre e sulla guerra alle pratiche di sussistenza dei loro
abitanti. La violenza dell’«accumulazione originaria del capitale» non è un
evento, bensì una struttura, che oggi punta a colonizzare altri Pianeti e le
facoltà stesse della specie. Non è certo un caso né che le principali democrazie
liberali siano fondate sul genocidio o sulla pulizia etnica dei popoli nativi,
né che le università in cui si sono formulati i valori e le norme giuridiche
dell’Occidente siano state fisicamente erette sull’esproprio e sulla violenza ai
danni dei terreni e dei corpi delle popolazioni indigene.
LA PALESTINA E LA LOGICA COLONIALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
DI MJRIAM ABU SAMRA E SARA TROIAN
da: https://comune-info.net/la-palestina-e-la-logica-coloniale-del-diritto/?
Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la
questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina
viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento
anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un
mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le
pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni
rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori
condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale.
Tuttavia, questa narrazione è pericolosamente ingannevole in quanto oscura
l’innata presenza del colonialismo nell’ordine mondiale contemporaneo. Lungi
dall’essere un’eccezione, la Palestina rivela invece le fondamenta coloniali
delle relazioni internazionali. Dunque, la perpetrazione del colonialismo da
parte di Israele non rappresenta un’anomalia in un mondo giusto ed equo, ma è,
al contrario, la manifestazione più evidente di un ordine globale concepito e
strutturato per sostenere, proteggere e legittimare dinamiche di potere
(neo)coloniali.
L’architettura coloniale del diritto internazionale
Il diritto internazionale emerse per legittimare la schiavitù di milioni di
africani, la conquista coloniale del cosiddetto “Nuovo Mondo” e la sottomissione
dei popoli indigeni a livello economico, culturale e politico. Per oltre 500
anni, ha modellato la traiettoria della storia europea, contrassegnata da
pratiche di sfruttamento ed esproprio, fungendo da arbitro tra le ambizioni
spesso conflittuali dei diversi imperi e conferendo legittimità all’espansione
territoriale. Le opere di Francisco De Vitoria e Hugo Grotius, considerati i
padri del diritto internazionale, ne sono un esempio paradigmatico. La loro
concezione di “legge naturale” ha definito uno standard di civilizzazione basato
su canoni culturali e politici europei, utilizzati come metro di misura per
giustificare la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei.
Secondo questo standard, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di
conquistare, mentre i “non civilizzati” erano imputati alla schiavitù,
sfruttamento, sottomissione e sterminio. In questa matrice, ogni forma di
resistenza dei “non civilizzati” veniva trattata come barbarie o terrorismo. Lo
standard di civilizzazione si riduceva, di fatto, al potere istituzionalizzato
di colonizzare.
Nel corso del tempo, il diritto internazionale si è progressivamente
trasformato, adattandosi alle mutate forme di dominio coloniale. L’ordine
globale emerso dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sebbene ancora
saldamente controllato dalle superpotenze e dai loro interessi strategici,
veniva presentato come un sistema equo e universale, mascherato da una legalità
apparentemente neutrale e garantito da istituzioni formalmente imparziali, con
l’ONU nel ruolo di custode principale.
L’inclusione del sistema dei Territori sotto mandato nella Carta delle Nazioni
Unite, insieme alle epistemologie eurocentriche che hanno guidato la
codificazione dei trattati internazionali, come la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani o la Convenzione sul Genocidio, tra gli altri, testimonia questa
continuità. Il vecchio standard di civilizzazione è stato riformulato e
riproposto attraverso nuove dicotomie apparentemente più accettabili, come
democrazia/non democrazia, sviluppato/sottosviluppato, liberale/non liberale.
Gli ideali europei di democrazia, sviluppo e liberalismo economico si sono così
convertiti in nuovi dispositivi di legittimazione del controllo e dello
sfruttamento di altre regioni e popoli. In questo quadro, il sistema di veto del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta l’ammissione più evidente
dell’impegno, mai realmente superato, a favore dell’egemonia delle superpotenze
del sistema post-bellico.
L’onda di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Settanta ha portato solo una
liberazione nominale: le ex colonie sono rimaste intrappolate in nuove forme di
dominio, non meno pervasive di quelle precedenti. L’indipendenza politica ha
infatti occultato la persistente subordinazione economica, esercitata attraverso
istituzioni finanziarie, trattati commerciali asimmetrici e l’estrazione
sistematica di ricchezze da parte di multinazionali, supportata dai programmi di
aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale. L’ex presidente del Ghana e teorico politico Kwame Nkrumah ha
denunciato questo periodo come la transizione dal colonialismo classico al
neo-colonialismo. Questa condizione di dipendenza economica è stata legittimata
da narrazioni ideologiche che hanno presentato lo sviluppo capitalistico come
equivalente agli standard universali dei diritti umani, nascondendo la natura
profondamente estrattiva e iniqua di tali processi.
In sostanza, il diritto internazionale e le sue istituzioni hanno sancito una
liberazione simbolica, ma non una reale emancipazione materiale dal
colonialismo.
Le condizioni storiche e materiali dell’oppressione
Il diritto umanitario internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra
del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977, incarnano una contraddizione
strutturale. Il tentativo di regolamentare la lotta anticoloniale all’interno
degli stessi quadri giuridici creati per disciplinare i conflitti tra Stati
sovrani finisce per riprodurre – e spesso aggravare – lo squilibrio di potere
intrinseco ai rapporti coloniali, anziché correggerne le disuguaglianze.
Sebbene queste norme si presentino come universalistiche nella loro
applicazione, esse impongono una simmetria giuridica formale tra colonizzatori e
colonizzati, tra potenze occupanti e coloro che resistono alla loro dominazione.
In tal modo, ignorano le profonde asimmetrie strutturali e le dinamiche di
potere che definiscono le relazioni coloniali. Trattando la resistenza dei
popoli colonizzati secondo le stesse restrizioni legali imposte agli eserciti
statali, questi strumenti giuridici oscurano le condizioni storiche e materiali
dell’oppressione da cui origina tale resistenza.
Inoltre, queste norme spesso operano come strumenti di delegittimazione e
criminalizzazione della resistenza anticoloniale, rafforzando la supremazia
strutturale del colonizzatore. Il principio di distinzione – concepito per
proteggere i civili – non considera come i regimi coloniali confondano
deliberatamente obiettivi militari e civili, né affronta la violenza sistemica
insita nell’occupazione stessa. Analogamente, il divieto di determinati metodi
di combattimento limita in modo sproporzionato le possibilità di autodifesa dei
popoli colonizzati, mentre lascia intatte le superiori capacità belliche
dell’oppressore.
Questo impianto normativo, pertanto, non agisce come arbitro imparziale della
giustizia, ma come uno strumento di consolidazione delle stesse gerarchie di
potere che pretende di regolare. Regolando la violenza secondo un principio di
falsa equivalenza tra chi domina e chi resiste, il diritto umanitario consente
alle potenze coloniali di dipingere i popoli oppressi come soggetti incapaci di
aderire ai princìpi giuridici fondamentali. Così facendo, rende di fatto
inammissibili le guerre di liberazione anticoloniali nei parametri del diritto
internazionale.
La guerra del diritto internazionale contro la Palestina
La questione palestinese rappresenta l’essenza egemonica del diritto
internazionale. L’ideologia del colonialismo di insediamento sionista è emersa e
continua a operare all’interno del contesto politico ed economico della storia
imperiale europea, radicandosi nel sistema internazionale stesso.
La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha diviso la
Palestina, legittimato la confisca delle terre e integrato il colonialismo di
insediamento nel diritto internazionale. Nonostante fosse giuridicamente
viziata, poiché eccedeva l’autorità dell’Assemblea Generale dell’ONU e non era
vincolante, la risoluzione è divenuta la colonna portante della legittimazione
indiscutibile di Israele e dell’eredità coloniale del sistema internazionale. La
storia moderna della Palestina riflette dunque questa dialettica tra sistemi di
dominazione legalizzati a livello internazionale e la resistenza al quadro
coloniale che li sorregge.
Il quadro di Oslo ha mantenuto questa dicotomia, rafforzando ulteriormente il
colonialismo di insediamento sionista dietro la facciata di “negoziati di
pace”. Si tratta di una manovra politica concepita per cristallizzare il
colonialismo di insediamento e neutralizzare la resistenza palestinese,
promuovendo l’ambiziosa, seppur paradossale, aspirazione di ottenere la
legittimazione del sionismo attraverso l’accettazione da parte dei colonizzati
palestinesi stessi. Con questa strategia e attraverso la narrativa
dell’“approccio pragmatico”, la comunità internazionale presenta il colonialismo
di insediamento come una “soluzione giusta ed equa”, annientando i diritti e le
aspirazioni di liberazione, giustizia e ritorno della popolazione indigena. In
tale contesto, il controllo e l’oppressione coloniale vengono ulteriormente
radicati attraverso una dipendenza economica e politica neoliberista che
normalizza la violenza e la dominazione sotto le spoglie di costruzione statale.
Si formalizza così la relazione coloniale, istituzionalizzando una classe
collusa di colonizzati – l’Autorità Palestinese (AP) – investita del ruolo di
intermediaria custode del potere coloniale. Questo rafforza, infine,
l’architettura della violenza coloniale di Israele. La continua campagna di
espulsioni di massa e distruzione nel nord della Cisgiordania – la più estesa e
feroce dal 1967 – condotta congiuntamente con l’AP rappresenta una testimonianza
lampante di questa realtà persistente.
Non è un caso che “la campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina”
venga rilanciata ogni volta che il potere coloniale è sfidato nella sua essenza
e la mobilitazione decoloniale risorge, facendo risaltare i limiti strutturali e
le incoerenze del sistema internazionale. Questa campagna è la continuazione
genealogica della partizione della Palestina. Il momento attuale ne è
testimonianza: con un genocidio in diretta streaming, l’unica risposta che
emerge a livello internazionale è, paradossalmente, il riferimento a “soluzioni
legittime” e a “quadri giuridici” che non mettono in discussione i fondamenti
coloniali della depredazione palestinese, ma li accettano come un fatto
compiuto. Questa traiettoria strategica si maschera da tentativo di implementare
meccanismi di responsabilità e giustizia tramite l’intervento delle istituzioni
internazionali, che, lungi dall’essere “super partes”, sono vettori di egemonia
coloniale.
Emblematiche in questo contesto sono le ordinanze di arresto emesse dalla Corte
Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant – che inizialmente furono
richieste anche per Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar, e Mohammad Deif, se non
fossero stati uccisi dalla stessa autorità coloniale contro cui stavano
lottando, prima che gli ordini di arresto fossero ratificati. Mentre il mondo ha
acclamato questa decisione che, pur mancando di esecuzione, è stata definita
storica, essa ha svolto un ruolo strumentale nel livellare e normalizzare le
relazioni di potere asimmetriche tra colonizzati e colonizzatori, mettendo i
leader della resistenza anticoloniale sullo stesso piano delle autorità statuali
che ordinano e implementano massacri coloniali per sradicare ed eliminare un
intero popolo. Questo approccio “bipartisan” e l’insistenza sull’“obiettività”
si configurano come la regola che sottomette ogni tentativo di denunciare e
invertire le relazioni di potere sbilanciate.
Le fondamenta coloniali del diritto internazionale hanno neutralizzato la
relazione colonizzato-colonizzatore, occultandola in retoriche e pratiche
di bothsidesism (finta equidistanza) che favoriscono sempre il più potente
colonizzatore, che non solo tiene il coltello dalla parte del manico, ma detiene
anche il controllo sulla narrativa.
Smantellare la casa del padrone
La colonizzazione della Palestina non è un’anomalia in questo ordine globale, ma
rappresenta la sua accusa più evidente. Essa mette in luce l’ipocrisia di un
sistema internazionale che, pur condannando retoricamente il colonialismo, lo
istituzionalizza e lo legittima nella pratica. I quadri giuridici internazionali
e i modelli di governance, progettati dai e per i poteri coloniali, hanno sempre
dato priorità alla conservazione delle gerarchie di potere, celandole sotto la
facciata di legalità e giustizia. Tali strutture riaffermano il colonialismo di
insediamento come un presupposto legittimo delle relazioni internazionali.
Dal 7 ottobre 2023, la presunta universalità del sistema internazionale è stata
messa in discussione, rivelandone le contraddizioni intrinseche. Il discorso
evolutivo e i meccanismi del diritto internazionale hanno esposto i loro limiti
e la continua alleanza con il dominio coloniale e i suoi corollari: il
privilegio razziale, le disuguaglianze sistemiche e l’accumulo di capitale.
Questo momento richiede una rivalutazione critica dei quadri concettuali e
pratici che sostengono la giustizia e la liberazione. L’affermazione di Audre
Lorde che “gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone.
Possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo stesso gioco, ma non ci
permetteranno mai di portare un vero cambiamento” sottolinea la necessità di
ripensare questi paradigmi. Il cammino da percorrere richiede una profonda
trasformazione strutturale, che affronti e smantelli i sistemi di diritto
internazionale e governance che perpetuano l’oppressione. Al loro posto, devono
essere sviluppati paradigmi alternativi, fondati sull’uguaglianza autentica,
sulla lotta comune e sulla giustizia decoloniale. La lotta palestinese per la
liberazione incarna questa sfida più ampia, forzando un confronto con le radici
coloniali dell’ordine globale e immaginando un mondo in cui la giustizia non
resti mera retorica, ma diventi realtà per tutti.
«Iniziare dalla terra su cui sono state erette»
Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo
fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli
insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese
istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada,
dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati
coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non
ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari
di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle
università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o
finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university
(università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university
(università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni.
Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862
facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università
e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono
vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo,
costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite
mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e
propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra,
destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi
500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù
nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle
università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro
tratta.
Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di
terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia
del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali
canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla
fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca
delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la
base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre
aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le
università coloniali.
In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione
dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti
sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche.
Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la
segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni
riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle
mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì
università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo
amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La
segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi
accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le
università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come
infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro
posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa
oltremodo ardua.
In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e
l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore.
Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta,
si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene
che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie
responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni,
le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando
i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e
oppressione violenta.
Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli
dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si
inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di
terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate
per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le
distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di
esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di
apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare
attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con
le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare
l’oppressione.
(da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane
sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)