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Il Metodo Gaza, appunto
Riprendiamo da Invicta Palestina, https://www.invictapalestina.org/archives/58157 Gaza Inc: dove il genocidio è testato in battaglia e pronto per il mercato GAZA È DIVENTATA LA VETRINA DI TEL AVIV PER LO STERMINIO PRIVATIZZATO, DOVE AZIENDE TECNOLOGICHE, MERCENARI E FORNITORI DI AIUTI UMANITARI COLLABORANO IN UN MODELLO SCALABILE DI GENOCIDIO INDUSTRIALE VENDUTO AGLI ALLEATI IN TUTTO IL MONDO. Fonte: English version Di Aymun Moosavi – 12 settembre 2025 Lo Stato di Occupazione Israeliano ha trasformato la sua guerra contro i palestinesi in un’Industria di Uccisioni privatizzata. Gaza è il luogo in cui aziende tecnologiche, mercenari e giganti della consulenza orchestrano sorveglianza, sfollamenti e Uccisioni di Massa a scopo di lucro. Oltre a essere una Guerra Coloniale, è anche un prototipo per l’esportazione globale di Sterminio su scala industriale, riconfezionato come innovazione in materia di sicurezza. Basato sui dati e incentrato sul profitto, questo modello, testato oggi sui palestinesi, sarà implementato altrove domani. Un numero crescente di aziende private opera ora come la mano invisibile del Genocidio. I loro servizi spaziano dall’identificazione di obiettivi per attacchi aerei all’ingegneria della Carestia e alla facilitazione degli sfollamenti di massa. Gaza è il luogo dove il genocidio incontra il capitalismo Dall’inizio degli anni 2000, le compagnie militari private si sono profondamente insinuate nell’economia bellica. Aziende come Blackwater (ora Academi) e Dyncorp International hanno segnato un cambiamento fondamentale, assumendo ruoli tradizionalmente ricoperti dalle forze armate nazionali. Inizialmente concentrate sulla sicurezza e sulla logistica in Iraq e Afghanistan, queste aziende hanno ampliato le loro operazioni, fornendo supporto operativo e agendo come attori chiave nelle zone di guerra di tutto il mondo, comprese alcune parti dell’Africa, dello Yemen e di Haiti. L’ironia è evidente: gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un nuovo polo per queste compagnie militari private, che trovano rifugio nello Stato del Golfo, dove i mercenari ricevono privilegi speciali dalle autorità locali. Le aziende private si sono evolute da appaltatori distanti ad agenti di guerra attivi, operando impunemente. Questo ha gettato le basi per il modello attuale, in cui il personale non militare influenza i risultati politici senza limiti o regolamentazioni. Un ulteriore livello di supporto proviene dalle organizzazioni non profit private. Un recente rapporto rivela come organizzazioni statunitensi come gli Amici Americani della Giudea e della Samaria e gli Amici di Israele sfruttino il loro status di esenzione fiscale 501(c)(3) per convogliare donazioni direttamente alle operazioni militari e agli insediamenti israeliani. Questi gruppi forniscono attrezzature come droni termici, caschi, giubbotti antiproiettile e corredi di pronto soccorso a unità come la 646a Brigata Paracadutisti, anche all’interno di Gaza. Oltre alla logistica, sostengono Progetti di Insediamento, fanno pressioni per l’annessione della Cisgiordania Occupata, gestiscono campagne educative per promuovere la sovranità israeliana e supportano gli sforzi militari in Libano contro Hezbollah. L’emergere dell’Intelligenza Artificiale ha ampliato la gamma di attori di guerra accettabili, aprendo nuove e redditizie opportunità nella sorveglianza e nella raccolta di informazioni. Israele ha abbracciato questo modello, ma lo ha applicato con agghiacciante precisione. La sua Unità d’élite 8200, il cervello digitale dello Stato di Occupazione, ha fuso la sorveglianza militare con la tecnologia aziendale per creare il primo Genocidio al mondo assistito dall’Intelligenza Artificiale. Strumenti come Lavanda e Vangelo ora analizzano le comunicazioni palestinesi, utilizzando il riconoscimento dialettale e i metadati per generare automaticamente Liste di Uccisioni. Questi strumenti, focalizzati principalmente sui dialetti arabi, sono stati progettati per monitorare i palestinesi e altre popolazioni di lingua araba. Aziende come Palantir, Google, Meta e Microsoft Azure avrebbero facilitato questi progetti, contribuendo allo sviluppo di Lavanda e di altri sistemi di sorveglianza. Gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, investono in aziende tecnologiche di sorveglianza globale che alimentano la Macchina del Genocidio. Con i sistemi di Intelligenza Artificiale che decidono chi vive e chi muore, il confine tra comando militare e algoritmo aziendale è praticamente svanito. L’infrastruttura stessa dell’Occupazione israeliana, dalla sorveglianza all’assassinio, è stata esternalizzata, semplificata e venduta. Dalle armi testate in battaglia all’Apartheid algoritmico L’economia israeliana si basa sul capitalismo militarizzato. I suoi 14,8 miliardi di dollari (12,6 miliardi di euro) di vendite di armi solo quest’anno sono sostenuti da una strategia commerciale tanto cinica quanto efficace: “Testati in Battaglia” sui palestinesi. Un esempio lampante è l’armamento di Smartshooter, un’azienda israeliana, fornito dall’esercito britannico da giugno 2023 in un accordo da 4,6 milioni di sterline (5,3 milioni di euro). La tecnologia di Smartshooter è stata utilizzata dall’unità d’élite Maglan e dalla Brigata Golani dell’Esercito di Occupazione durante l’assalto a Gaza. Il giornalista Antony Loewenstein, citato da Declassified UK, ha dichiarato: “Smartshooter è solo una delle tante aziende israeliane che testano le proprie attrezzature sui palestinesi occupati. È un’attività altamente redditizia e il Massacro a Gaza non ne rallenta il commercio. Anzi, sta aumentando a causa dell’attrazione di molte nazioni verso il modello israeliano di sottomissione e controllo”. Oggi, il settore delle armi e quello della tecnologia israeliani sono indistinguibili. Programmi di sorveglianza, Liste di Uccisioni basate sull’Intelligenza Artificiale e sistemi di puntamento automatizzati sono confezionati insieme a fucili e droni. La guerra è diventata un laboratorio per l’innovazione tecnologica, trasformando Gaza in un laboratorio dove si perfeziona il Genocidio privatizzato. Questa fusione ha permesso a Tel Aviv di industrializzare la sua Occupazione, creando un sistema modulare di sottomissione esportabile a livello globale. Quella che è iniziata come la militarizzazione della tecnologia si è trasformata in qualcosa di molto più pericoloso: la tecnologizzazione del Genocidio. Modello israeliano di genocidio Il Modello Israeliano di Genocidio ha acquirenti internazionali. Un recente titolo di Haaretz, “Perché il futuro della difesa israeliana risiede in India”, ha evidenziato i reciproci vantaggi del partenariato di difesa tra Israele e India. Per Tel Aviv, riduce la dipendenza dall’Occidente, mentre l’India acquisisce una certa influenza strategica nell’Asia Occidentale. Tra il 2001 e il 2021, l’India ha importato tecnologia di difesa israeliana per un valore di 4,2 miliardi di dollari (3,6 miliardi di euro), inclusi droni avanzati e componenti militari. Più di recente, l’Europa è diventata il principale acquirente di armi di Israele, arrivando a rappresentare fino al 54% delle esportazioni totali nel 2024. Sulla scia della Brexit e dell’imprevedibilità dell’amministrazione del Presidente statunitense Donald Trump, la Gran Bretagna, in particolare, ha rafforzato il coordinamento della difesa con Israele nel tentativo di riposizionarsi come attore chiave e rilevante in un ordine multipolare. Secondo alcune fonti, Londra starebbe preparando un accordo da 2,7 miliardi di dollari (2,3 miliardi di euro) con Elbit Systems, il più grande produttore di armi israeliano, per addestrare 60.000 soldati britannici all’anno. Questo rapporto si è approfondito all’inizio di quest’anno, quando è emerso che un’accademia militare britannica stava addestrando soldati dell’Esercito di Occupazione, molti dei quali sono stati implicati in Crimini di Guerra durante i conflitti di Gaza e del Libano. La stessa Elbit fornisce l’85% dei droni dell’Esercito di Occupazione ed è stata ripetutamente presa di mira dalla Palestine Action, un’organizzazione non governativa, per il suo ruolo diretto nei Crimini di Guerra. Londra non solo ha protetto l’azienda, ma ha anche intensificato le operazioni congiunte. La Gran Bretagna produce anche il 15% di tutti i componenti dei caccia F-35. Questi aerei sono stati utilizzati senza sosta nel Genocidio di Gaza, eppure la loro produzione continua, confermata dai tribunali britannici nonostante le proteste. Lungi dall’essere neutrale, la Gran Bretagna è parte integrante dell’Infrastruttura Genocida di Tel Aviv. L’industria delle armi è ormai diventata un affare globale, che intreccia difesa, tecnologia e oppressione sistemica. Il Modello Israeliano di Genocidio, che trae profitto direttamente da questa intersezione, si è diffuso oltre i suoi confini, con alleati internazionali complici del suo successo. Aiuti militari, riprogettazione di Gaza Gli appaltatori privati sono ormai integrati in ogni livello della Macchina Bellica israeliana, inclusa la sua cinica manipolazione degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza, presumibilmente istituita per facilitare gli aiuti, è stata smascherata per collusione con le Forze di Occupazione, archiviazione di informazioni e dispiegamento di società di sicurezza private con zero credenziali umanitarie. Il ruolo delle aziende private si estende ben oltre la sorveglianza a distanza, infiltrandosi nei meccanismi degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza è stata ripetutamente criticata per aver violato i principi fondamentali della distribuzione degli aiuti, come l’imparzialità e l’indipendenza. È stata colta a sparare sulla folla, a raccogliere informazioni e a collaborare con le autorità israeliane, esternalizzando al contempo società di sicurezza private come Safe Reach Solutions e UG Solutions, due società di sicurezza private guidate da personale privo di competenze umanitarie. Recentemente, è stato scoperto che UG Solutions aveva reclutato membri di una famigerata banda di motociclisti anti-islamici dagli Stati Uniti. In totale, 2.465 palestinesi sono stati uccisi e oltre 17.948 feriti mentre attendevano gli aiuti umanitari a Gaza, secondo il Ministero della Sanità di Gaza. Il problema chiave risiede nel fatto che le aziende private non sono vincolate dagli stessi parametri etici delle organizzazioni umanitarie tradizionali. Questa mancanza di regolamentazione consente loro di funzionare come estensioni dell’Occupazione, promuovendo gli obiettivi di Israele sotto la maschera di aiuti con scarsa o nessuna responsabilità. Gli aiuti privatizzati non sono quindi un dettaglio secondario, ma una componente centrale del Modello di Genocidio Israeliano, che trasforma gli aiuti umanitari in un ulteriore Strumento di Occupazione. Terra bruciata Il piano “Riviera di Gaza” del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la visione di espulsione di massa del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si basano entrambi su una completa rivisitazione di Gaza. Il piano postbellico di Trump richiede una popolazione disposta a trasformarsi in sudditi di un polo economico, mentre Netanyahu immagina una terra ripulita dai palestinesi, su cui poter costruire nuovi insediamenti illegali. A differenza del modello imperiale, il Modello del Genocidio Israeliano richiede la purificazione di una popolazione, poiché è più facile, e più efficiente, eliminarla che renderla servile. Questo rende la privatizzazione di una Gaza postbellica non solo un’opzione, ma una necessità. Secondo il Financial Times, il Gruppo di Consulenza di Boston, la società di consulenza statunitense in parte responsabile della creazione della Fondazione Umanitaria per Gaza, sarebbe stato incaricato di stimare il costo del trasferimento di Gaza nell’ambito di un più ampio piano di ricostruzione postbellica. I rapporti evidenziano anche una maggiore dipendenza dai mercenari statunitensi per gestire il contesto postbellico e controllare il traffico di armi, dimostrando come sia il modello imperiale che il Modello Genocida Israeliano dipendano l’uno dall’altro per sostenersi. Gli aiuti umanitari sono stati determinanti nella realizzazione di questa visione. I quattro siti di “distribuzione degli aiuti”, descritti dai funzionari delle Nazioni Unite come “trappole mortali”, sono diventati zone militarizzate, costringendo i palestinesi a rifugiarsi in enclave ancora più piccole nel Sud di Gaza, contribuendo direttamente all’obiettivo di sfollamento di Israele. Questo non è il futuro della guerra. È il presente. E viene costruito, testato e venduto a Gaza. Aymun Moosavi è un’analista politica con un dottorato in Studi sui Conflitti Internazionali conseguito al King’s College di Londra. Il suo lavoro si concentra sulla Resistenza e la Liberazione nella Regione dell’Asia Occidentale. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
Sulle macerie e sulle coste – Dal colonialismo genocidario israeliano alla villeggiatura in Sardegna
I fatti, più o meno, li conosciamo. La popolazione palestinese sta subendo un genocidio da parte dello stato di Israele, appoggiato da complici occidentali. La soluzione finale è in corso, come dichiarato dal Primo Ministro israeliano Netanyahu. La guerra di Israele contro la Palestina dura da più di settant’anni, con dei picchi di sterminio che partono dalla Nakba e che oggi superano qualsiasi misura mai conosciuta prima. E da allora la popolazione palestinese resiste. Cosa farne di una terra devastata non è mai stato un gran problema per lo Stato Ebraico. Da mesi si chiacchiera del progetto di costruzione della cosiddetta “Gaza Riviera”, che ora sembra concretizzarsi attraverso un piano di investimenti da parte di Israele e USA: il Washington Post ha reso noto che il Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT) è stato effettivamente steso in un documento di 38 pagine. Ufficialmente “trasferimenti temporanei” e “partenze volontarie”, sono di fatto una deportazione degli oltre 2 milioni abitanti della Striscia a seguito di una guerra che ha raso al suolo il territorio palestinese e sterminato la sua popolazione. La guerra di Israele alla popolazione palestinese è sempre stata riconosciuta nella sua natura di guerra di insediamento coloniale per la realizzazione di un progetto etno-nazionalista, fondamentalista religioso, con la speficifica caratteristica di essere un solido baluardo capitalista occidentale nei paesi arabi. Cosa significa tutto questo è disvelato dagli espliciti discorsi sionisti, dal pronunciato odio verso la popolazione araba, dalla tecnologia militare e dal coinvolgimento totale della popolazione civile israeliana nella guerra. E ultimo, ma non per importanza, dai piani di ricostruzione del futuro della Striscia – futuro di cui i coloni israeliani si sono appropriati- e tra questi piani spicca appunto il GREAT. Così Israele si presenta come avanguardia colonialista per eccellenza, con il caratteristico sincretismo di lusso, investimenti immobiliari, turismo, Hi-tech, tutto sotto stretta sorveglianza militare. Arriviamo al dunque. C’è un filo nemmeno troppo sottile che collega l’industria del turismo di lusso modello israeliano e la Sardegna. Proprio questa estate, mentre a Gaza prosegue il genocidio, viene fatto su un mega yatch a largo della Costa Smeralda un summit con Steve Witkoff, rappresentante diplomatico statunitense, il primo ministro del Qatar e il ministro israeliano Ron Dermer, annunciato come una trattativa per il cessate fuoco a Gaza e conclusosi con un nulla di fatto ma con i tratti di una piacevole villeggiatura. E’ stata poi annunciata per giugno l’inaugurazione della nuova tratta diretta Olbia-Tel Aviv, rinforzata da controlli speciali su passeggeri e bagagli, che saranno gestiti in collaborazione con le autorità israeliane, ovvero agenti in borghese – con tutta probabilità, ci sentiamo di aggiungere, agenti del Mossad. La popolazione sarda durante gli ultimi mesi ha manifestato più volte in mille contesti e con mille strumenti differenti la propria solidarietà verso il popolo palestinese. Una solidarietà fatta da piccole azioni spontanee e individuali come l’esibizione di bandiere e striscioni durante le feste popolari e di mobilitazioni più strutturate da parte del mondo dell’associazionismo, dell’antagonismo, delle realtà politiche indipendentiste e della sinistra di classe fino ad arrivare al mondo cattolico. Anche nel caso degli arrivi da Tel Aviv questa solidarietà non è venuta meno e già dal primo arrivo, in data 27 agosto 2025, i turisti sionisti hanno trovato un nutrito comitato di accoglienza a destinazione. Durante il presidio di domenica 31 agosto circa 200 manifestanti sono addirittura riusciti a bloccare per 3 ore il transito dei turisti israeliani verso il loro hotel, ricevendo sostegno e solidarietà dal personale aeroportuale e da tanti altri turisti in transito all’aeroporto di Olbia. Come spesso accade, in funzione dell’arrivo del 4 settembre, probabilmente sotto pressioni del Mossad, la polizia italiana si è dotata delle dovute contromisure schierando l’antisommossa e scortando gli autobus del turismo sionista fino al loro hotel, arrivando addirittura a identificare 5 cittadine (di cui un bambino) che semplicemente passeggiavano in aeroporto perché riconosciute come solidali alla causa palestinese. La scelta della Sardegna come avamposto di villeggiatura e riposo per civili e militari israeliani non riteniamo sia casuale. Per cominciare, la Costa Smeralda è un baluardo del turismo di lusso, un territorio di fatto inaccessibile alle persone sarde, proibitivo a causa dei costi diretti e indiretti, schiavile nei termini delle condizioni di lavoro con cui nostr3 compaesan3 vengono assunt3 nelle strutture ricettive. Materialmente e moralmente lontano dai nostri desideri su come vivere la nostra terra. A questo si aggiunge la militarizzazione diretta di così tante aree che qualsiasi destinazione turistica si ritrova confinante con basi Nato o altre strutture militari, dato probabilmente rilevante per chi ne fa una questione di sicurezza in un momento così teso dal punto di vista geopolitico. Togliendo le aree di turismo ad alto impatto e le zone militari, si capisce che a noi resta ben poco. Un insulto, per noi, essere la destinazione favorita dai coloni israeliani complici del genocidio. Un insegnamento, per loro, su come ri-valorizzare una terra ormai inaridita ma con un grande potenziale di estrattivismo economico. Così si intersecano senza troppi nodi i fili che legano un genocidio, l’economia della guerra, il colonialismo e il turismo. Da grandi condanne derivano grandi responsabilità: fare di tutto per liberare la Palestina è fare di tutto per togliere le basi alle guerre coloniali e ai grandi capitali partendo dai centri economici delle nostre terre occidentali. La proposta è già in atto ma ha bisogno di qualche chiarimento: l’intento dei presidi e delle azioni di disturbo all’aeroporto non è stato solo quello di esprimere un dissenso, ma quello di portare alla luce dove partono, dove atterrano e che itinerario percorrono i legami dei poteri forti da qui a Gaza. E’ a proposito di itinerari e ospitanti che ci proponiamo quindi di rendere pubbliche alcune informazioni che abbiamo reperito prima e durante le azioni di disturbo. L’obiettivo sarà quello di rendere la Sardegna un luogo dove i complici del genocidio non siano i benvenuti, e quindi la cancellazione della tratta Tel Aviv-Olbia, il rifiuto da parte delle strutture locali di ospitare e accogliere i responsabili della guerra in Palestina, decostruire il mito dell’industria turistica come possibilità di sviluppo; ma anche trasformare il dissenso e la solidarietà fine a se stessa in mobilitazione contro l’occupazione militare, la fabbrica di bombe RWM di Domusnovas, i rapporti economici fra università e istituzioni con lo stato di Israele, la partecipazione della Brigata Sassari a “missioni di pace” che di fatto sostengono l’occupazione sionista del Libano, il boicottaggio delle merci legate al genocidio. Insomma, lottare per liberare noi stesse e i nostri territori è un contributo attivo e diretto alla libertà del popolo palestinese. Fondamentale è per questo organizzarsi e sostenere chi di noi persone sarde lavora nel settore della ristorazione o nel settore alberghiero in condizioni contrattuali (o non contrattuali!) pessime, le stesse che non permettono di avere forza sindacale per rifiutarsi di far disossare la nostra terra da chi stermina la popolazione palestinese e dai pesci grossi del turismo. Così come la Sumud Flottilla prende il vento per rompere l’assedio grazie al sostegno di migliaia di persone, ognuna che fa il suo pezzo partendo dal proprio quotidiano e dal proprio luogo di studio o di lavoro, anche la Sardegna ha la responsabilità di aggredire le proprie contraddizioni. Rinnovando l’invito a prendere contatti e raccogliere informazioni , elenchiamo alcune delle strutture e infrastrutture coinvolte nell’accoglienza di coloni-turisti israeliani * Geasar, azienda che gestisce l’aeroporto di Olbia * Mangia’s Sardinia Resort, Santa Teresa, Via Antares 1 * Cantina Surrau, Arzachena, località Chilvagghja * Ristorante Pizzeria La Ruota, Arzachena, località Cascioni * Phi Beach Club, Baja Sardinia, località Forte Cappellini * Boutique del Mar, Palau, località Mannena Spiaggia Bruciata Questa invece la compagnia che organizza viaggi per i dipendenti del settore della comunicazione hi-tech, Vaad Cellcom: * https://ui-db.com/en/projects/vaad-cellcom/ * https://www.instagram.com/vaadcellcom?igsh=bjQ5c2dpOXFqbmN4 Alcune di queste strutture, come ad esempio il Mangia’s Sardinia Resort (Aeroviaggi) e il Phi Beach (la cui struttura è proprietà della Regione Sardegna), non rappresentano altro che la forma del colonialismo turistico che noi sarde conosciamo bene e che in questo caso particolare aggravano la loro presenza prepotente sulla nostra terra permettendosi di ospitare coloni di uno stato genocida. Strutture di coloni che ospitano altri coloni e che lucrano da decenni sul nostro territorio in cambio di qualche busta paga da cameriere e lavapiatti. Decostruire il mito dell’industria turistica, smascherarne i ritmi di lavoro disumani, sindacalizzare le lavoratrici, criticarne e combatterne la presenza sul territorio è un obbiettivo urgente che dovremmo porci e quest’ultima gravissima contraddizione ci dà l’occasione di cominciare. In sostanza, sappiamo che il genocidio inizia anche da qui, da dietro casa nostra, dai porti e aeroporti che visitiamo spesso quando costrette ad emigrare, dai luoghi del lusso della Costa Smeralda, cioè il parco giochi dei coloni per altri coloni, dai poligoni e dalle installazioni militari. Dunque, cosa possiamo fare noi? Come anche il BDS suggerisce, le pratiche possono essere tante, diverse e creative. * Presidiare e disturbare i luoghi frequentati dai sionisti, affinché sia evidente che il popolo sardo sa cosa succede e di che crimini siano macchiati. * Essere presenti agli arrivi da Tel Aviv all’aeroporto di Olbia, sia ai presidi pubblici sia individualmente. * Boicottare tutti i locali elencati sopra. * Chiedere loro conto della complicità al genocidio: dal vivo, per e-mail, sui social. Intasiamo i loro canali: ospitano e intrattengono criminali di guerra. * Fare pressione alle amministrazioni locali e regionali affinché si esprimano e blocchino lo scempio in atto. * Diffondere queste informazioni affinché tutte/i possano posizionarsi in merito. * Contattarci per segnalazioni a riguardo, locali o strutture coinvolte, aggressioni sioniste ai danni delle lavoratrici in Gallura. * Organizzare e partecipare alle mobilitazioni contro la guerra. La lotta non è semplice, spesso ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che accade in Palestina, però sappiamo che non siamo sole: i popoli del mondo intero si stanno schierando con i propri corpi contro il genocidio, in ogni modo possibile. Abbiamo amici dappertutto! I governi sostengono lo sterminio, ma le persone no; sta a noi, con la nostra forza e la consapevolezza di essere dalla parte giusta, riconquistare una vita e una terra di libertà, per noi e per il popolo palestinese. E non solo. Il silenzio è complicità. La storia chiederà il conto. Contra sa gherra Palestina libera, Sardigna libera
Al Lago Omodeo si continua a sparare
Abbiamo visto nelle scorse settimane come le attività militari, nonostante gli accordi Stato-Regione del 2017, abbiano continuato incessantemente durante i mesi estivi con il semplice escamotage di evitare le attività a fuoco. Ma mentre gli accordi del 2017 quantomeno vincolano i militari per quanto riguarda le attività a fuoco, lo stesso non si può dire per le altre forze armate. Il Centro Addestramento Istruzione Professionale (CAIP) della Polizia di Stato di Abbasanta, infatti, continua a svolgere “esercitazioni di tiro con armi portatili individuali a tiro teso” nel poligono del Lago Omodeo. Queste attività, svolte tutte le mattine dei giorni feriali (dalle 7:00 alle 14:00) sono continuate per tutto l’anno, con una pausa solo nel mese di agosto. Tra marzo e aprile a queste attività si è affiancata quella dei guastatori direttamente operata dentro il lago. Le persone che vivono nel territorio segnalano il costante rumore delle scariche di munizioni, ma anche rumori più forti, legati probabilmente all’uso di ordigni esplosivi, come già denunciato dai sindaci del circondario in un documento del 2015. Nel poligono non si addestra solo la polizia, ma anche le altre forze armate e contingenti provenienti da paesi esteri. Da un articolo celebrativo del Corriere della Sera del marzo 2024 apprendiamo che in loco si sono addestrate polizie di regime provenienti da mezzo Mediterraneo: Libia, Serbia, Tunisia, Egitto, Emirati Arabi Uniti. Evidentemente il servizio di scorta, punta di diamante delle attività addestrative del CAIP, è un servizio molto richiesto da oligarchi e dittatori. Attualmente la mancanza di trasparenza sul tipo di attività che vengono svolte nel CAIP (chi si addestra, quando, il tipo di strumentazione e munizioni utilizzato, i rischi per l’ambiente) è pressoché totale, e riflette il consueto disinteresse verso il territorio e le garanzie di controllo democratico delle forze armate tutte. Anche l’utilizzo e la devastazione di spazi del territorio, come ad esempio il villaggio ex-ENEL di Santa Chiara, non risulta formalizzato in alcuna maniera. Le servitù legate al CAIP sono tante e variabili a seconda delle esigenze della Polizia di Stato, insomma, in un contesto di totale mancanza di trasparenza. Il poligono all’aperto del CAIP, considerato il “fiore all’occhiello” della struttura, si trova nei pressi del comune di Soddì, su un promontorio che domina la costa del Lago Omodeo, e offre una visuale su gran parte della sua area. L’area è situata dentro la Zona Speciale di Conservazione (ZSC) ITB031104 “Media Valle del Tirso e Altopiano di Abbasanta-Rio Siddu”, che ricomprende tutto il Lago Omodeo. Come per Capo Teulada, Capo Frasca, l’area di Capo San Lorenzo, La Maddalena, la sovrapposizione tra aree militarizzate e zone di protezione ambientale è una regola dell’occupazione militare della Sardegna. L’attuale poligono è dotato di parapalle, dune di sabbia che dovrebbero garantire la mancata dispersione dei bossoli nell’ambiente. Secondo l’articolo del Corriere citato in precedenza, i bossoli verrebbero contati uno per uno per essere recuperati. Ci permettiamo di esprimere quantomeno scetticismo su questa evenienza: la zona interdetta al passaggio dei civili durante l’addestramento è infatti molto più ampia del poligono, questo perché evidentemente esiste la possibilità della dispersione di proiettili fuori bersaglio, i quali sono destinati a ricadere sulla superficie del lago. Non conoscendo nel dettaglio le attività poste in essere dentro il poligono, non abbiamo modo di sapere quanto sia grave e reiterata questa forma inevitabile di inquinamento. Va da sé che il Lago Omodeo è il principale bacino idrico della Sardegna, la sua importanza è enorme dal punto di vista dell’approvvigionamento di tutta la Sardegna centro-occidentale, e il fatto che si sia sparato e si spari dentro e intorno a questo bacino è una palese assurdità e mancanza di buonsenso. La distesa di bossoli che riemerge nei periodi di secca dal fondale del Lago Omodeo L’attuale poligono ne sostituisce uno precedente situato sulla sponda opposta del Lago Omodeo, nei territori dei comuni di Sorradile e Bidonì. Questo poligono è stato chiuso nel 2004, ma l’eredità ambientale dei rifiuti abbandonati o sepolti sul fondo del lago permane ancora oggi. Occasionalmente lo scandalo della distesa di bossoli e ogive che riemerge dal fondo del lago in secca riemerge sui media, ma ancora ad oggi nessuna procedura di bonifica è stata attuata. Per decenni non si è adottata nessuna azione di mitigazione del danno ambientale, e anzi si è lasciato i rifiuti delle attività addestrative in loco, confidando di averli sepelliti per sempre nel fondo del lago. Il lago infatti è rimasto in collaudo per decenni, e ancora oggi non raggiunge la capienza che avrebbe in teoria dovuto raggiungere con la costruzione della nuova diga. Fosse stato sfruttato a pieno regime, oggi non avremmo modo di raccogliere testimonianza delle attività svolte nel poligono del CAIP tra gli anni sessanta e il 2004. Per svolgere in ZSC attività con un rischio elevato di impatto ambientale, quali sono quelle addestrative a fuoco delle forze armate, bisognerebbe svolgere una Valutazione di Incidenza Ambientale (VINCA) che tenga conto degli impatti cumulati dall’attività in oggetto nel tempo e nello spazio. Ad oggi non è mai stata presentata nessuna richiesta di VINCA da parte delle autorità competenti per le attività nel poligono Nel Piano di Gestione della ZSC, aggiornato con decreto dell’Assessore per la difesa dell’ambiente della Regione Sardegna del 9 novembre 2023, i due poligoni sul Lago Omodeo sono citati come elementi di impatto per la “riduzione e/o perdita di qualità dell’habitat di specie”, con riferimento particolare al rischio di inquinamento delle acque del lago dovuto alla dispersione di bossoli e materiali utilizzati durante le esercitazioni. Un elemento invece sottovalutato, e che pensiamo dovrebbe avere una valutazione propria, è quello dell’inquinamento acustico dovuto all’attività di fuoco pressoché ininterrotta per tutte le ore mattutine dei giorni feriali, la quale comporta sicuro stress per tutte le specie animali, compresa la specie umana. Come azioni per mitigare gli impatti dovuti alle attività del CAIP nella ZSC, sono previste dal Piano di gestione due azioni differenti: per l’area del vecchio poligono si prevede di procedere con le operazioni di bonifica dell’area inquinata, per il nuovo poligono si prevede di stilare un disciplinare d’uso condiviso con le amministrazioni locali, che consideri anche l’uso di siti alternativi per le esercitazioni. Ambedue queste azioni non sono state ancora attivate, nonostante siano previste come prioritarie e inserite in un cronoprogramma di rispettivamente due e tre anni dall’approvazione del Piano di Gestione. L’ostacolo principale a queste azioni è la necessità di interfacciarsi con il Ministero dell’Interno e la mancanza di una previsione di spesa utile a reperire risorse nei bilanci dello stato. L’inerzia politica dell’ente regionale probabilmente costituisce un altro ostacolo. Come A Foras mettiamo in questione l’utilità di strutture come il CAIP e il suo poligono, o la necessità di avere quel tipo di struttura in quello spazio preciso. Da troppo tempo l’utilità e la necessità di queste strutture è totalmente sottratta al discorso politico, per essere abbandonata al monologo delle istituzioni interessate: ministeri, prefetture e corpi delle forze armate. Certamente, visto la limitata dimensione del poligono, il suo spostamento in area più idonea sarebbe anche un fatto facile. Ma per noi la questione va oltre un semplice spostamento, che sposterebbe solamente i problemi altrove. Riteniamo che ci sia una grave questione politica a monte, quella della trasparenza e del controllo democratico sull’operato delle forze armate. È assurdo che anche fatti di minimo buonsenso risultino totalmente estranei al dibattito pubblico, quando si tratta delle forze armate. Non è normale che si rischi di inquinare a casaccio un bacino idrico strategico per la popolazione, che non si pulisca lo schifo lasciato in 40 anni di attività irresponsabili, che non ci si senta minimamente in dovere di sanare e risarcire il danno fatto. Non dovrebbe essere normale che le attività delle forze armate si svolgano al di sopra e aldilà della legge che vige per il resto della popolazione. Pretendiamo che vengano svolte le procedure di Valutazione di Incidenza Ambientale per l’attività del poligono del CAIP, e che queste procedure vengano svolte non come pro-forma, ma con attenzione alla sostanza delle necessità di protezione ambientale che presiedono all’istituzione delle Zone Speciali di Conservazione. Pensiamo che in generale si debba aprire un dibattito complessivo e aperto sul ruolo e la presenza delle forze armate in Sardegna: se l’occupazione militare e l’ipertrofia degli apparati legati alla Difesa è un fenomeno abbastanza conosciuto e dibattuto, manca consapevolezza e dibattito sulla presenza e il ruolo degli apparati di sicurezza legati al Ministero degli Interni, spesso non meno ingombrante e fuori luogo.
A Teulada l’occupazione militare non va in vacanza
Da qualche anno, rispondendo alla pressione dei movimenti contro l’occupazione militare della Sardegna, le Forze Armate commissionano studi di campionamento sui valori soglia di inquinanti derivanti dalle attività a fuoco. Tutto questo avviene in un contesto di scarsissima trasparenza, con leggi e regolamenti che consentono a chi svolge le attività inquinanti di monitorare il proprio stesso inquinamento dove e quando vuole farlo, e svolgere una “bonifica” secondo termini e condizioni decise da sé senza il controllo di entità indipendenti. È in questo quadro che dobbiamo leggere la ordinanza prefettizia del 18 luglio che ha interdetto le aree del Poligono di Capo Teulada date in concessione per attività agropastorali, lasciando invece a disposizione della Difesa le aree per il suo uso eclusivo. Un’ordinanza cautelativa a fronte del superamento dei valori soglia per cadmio, piombo, arsenico e tallio che riguarda varie aree del Poligono. Un’ordinanza tanto cautelativa che, apprendiamo dall’Unione Sarda, risponde a campionamenti effettuati 6 mesi prima! I valori soglia sono stati superati applicando tabelle destinate alle zone industriali, con valori fino a 100 volte più elevati della norma per una zona agricola, grazie ad un favore del governo Renzi alla lobby della Difesa. Era il 2014, nel pieno del processo e dell’indagine per disastro ambientale rispettivamente nei poligoni di Quirra e Capo Teulada, quando si è consentito con un tratto di penna di modificare i valori soglia applicabili per le zone militari, nonostante all’interno dei poligoni insistano Zone di Conservazione Speciale (ZCS) facenti parte della Rete Natura 2000, considerate importanti per la conservazione di Habitat e specie animali endemiche e a rischio. Si sperava evidentemente di mettere a tacere una volta per tutte le problematiche relative all’inquinamento dovuto alle attività militari. Ci si sbagliava anche così, ma noi non possiamo dimenticare questo sfregio del diritto: i valori soglia che stanno venendo applicati sono totalmente incompatibili con una Zona di Conservazione Speciale come quella “Isola Rossa e Capo Teulada” al 90% ricompresa nel poligono, o come quella “Promontorio, dune e zona umida di Porto Pino” che al poligono è adiacente. Questi valori soglia sono totalmente incompatibili con aree nelle quali viene consentito il pascolo degli animali, con aree nellle quali d’estate si consente il transito dei turisti e la balneazione. Usare valori soglia del genere è già, di per sé, un cosciente mettere a rischio la salute di persone e animali, un sintomo di disprezzo per il territorio e chi lo abita. Da febbraio giace negli uffici della Regione Sardegna una procedura di Valutazione di Incidenza Ambientale (VINCA) per le attività del poligono di Capo Teulada. In un documento di 35 pagine abbiamo espresso tutti i motivi per cui le attività del poligono di Capo Teulada sono incompatibili con qualsiasi attività di conservazione ambientale. L’applicazione di valori soglia di contaminazione applicati per le zone industriali è uno dei motivi più chiari ed evidenti di incompatibilità. Il loro superamento un motivo in più per chiedere alla Regione di fare presto, e chiudere questa procedura con un diniego. Apprendiamo dall’Unione Sarda (la quale ha avuto accesso ai documenti del monitoraggio dell’esercito) che l’inquinamento diffuso nel poligono apparirebbe “inspiegabile”, in particolare per la presenza di metalli pesanti in aree nelle quali non si spara, e che si ipotizzerebbe dei movimenti di terra da una parte all’altra del poligono. Noi una spiegazione semplice per questi movimenti di terra la abbiamo: le esplosioni. Lanciare decine di migliaia di proiettili da terra, aria, mare, di qualsiasi calibro, comporta un enorme movimento di terreno dovuto alle esplosioni. Questa terra non si deposita in situ, ma si muove con i venti e le correnti d’aria, per un perimetro molto ampio, che può tranquillamente eccedere i confini dell’area militarizzata. In sede di VINCA, l’esercito ha totalmente ignorato gli impatti ambientali dovuti alle esplosioni del munizionamento durante le esercitazioni, noi così ci esprimevamo su questo fatto: > “Le esplosioni sono di per sé un trauma ambientale che viene inflitto al > paesaggio e all’ambiente che non riguarda solamente il cono direttamente > interessato dall’esplosione: le esplosioni derivanti dall’impiego di > bombardamenti e altri sistemi d’arma generano, a causa delle elevatissime > temperature raggiunte in fase d’urto, delle polveri estremamente sottili e > penetranti che condensandosi costituiscono le nanoparticelle (che viaggiano e > si depositano nell’ambiente, potendo essere ingerite tramite il cibo ovvero > inalate) che hanno la caratteristica di essere inorganiche e non > biocompatibili. Queste possono depositarsi anche a notevole distanza dai > luoghi dell’esplosione, costituendo una sicura causa di inquinamento. > D’altronde l’impatto al suolo dei proiettili di grosso calibro comporta, oltre > alla distruzione del suolo legata all’esplosione, ulteriori disturbi a più > ampio raggio dovuti alle vibrazioni. Queste attività, al dunque, distruggono e > sottraggono spazio vitale alle specie oggetto di protezione, intaccando gli > spazi di rifugi, tane, nidi, le aree di riproduzione, le aree di diffusione > delle specie vegetali, i suoli. Inoltre, è evidente la presenza costante del > rischio di uccisione diretta, in seguito agli effetti delle esplosioni, al > colpimento di proiettili vaganti, all’impatto con i mezzi in manovra (a terra, > in cielo e in mare). Questi fatti piuttosto ovvi sono completamente e > inspiegabilmente ignorati” Noi non abbiamo attualmente ancora modo di sapere dove e come siano stati svolti i campionamenti e, soprattutto, come e dove verranno svolti i futuri campionamenti per confermare o meno l’inquinamento. La mancanza di trasparenza di tutto il processo di governance è un fattore in più di incompatibilità della presenza militare con qualsiasi gestione sostenibile del territorio. Questa situazione di opacità si presta a qualsiasi abuso e gioco di potere da parte delle forze armate: è evidente come pubblicare a luglio dati di campionamenti presi a gennaio si presti ad un gioco di ricatto verso il territorio, ma è comunque desolante apprendere che la preoccupazione principale dei rappresentanti eletti nel Comune di Teulada sia quella del “danno di immagine” nel pieno della stagione turistica, invece che la generale situazione di inquinamento e sottomissione alle esigenze militari del loro territorio. Il danno è un danno reale, non di immagine, quantificabile nel territorio sottratto agli ecosistemi come agli usi produttivi, nell’ovvio inquinamento determinato dall’esplosione di migliaia di ordigni ogni anno, nell’asservimento di un intero territorio a logiche di guerra che ne ipotecano qualsiasi ipotesi di sviluppo e, nel lungo termine, anche di sopravvivenza economica e demografica. Non si può pretendere che l’estate sia una parentesi nella quale le conseguenze di ciò che avviene d’inverno scompaiono senza lasciare traccia. D’altra parte, come dimostrano i fatti di questa estate, l’occupazione militare non va mai in vacanza. Certo, si può e si deve rivendicare con orgoglio che Teulada non è un poligono militare, bensì un paese con una lunga storia, un territorio vasto e bellissimo che merita di essere vissuto, visitato e restituito nella sua integrità all’uso della comunità, ma per farlo occorre fronteggiare il problema causato dall’occupazione militare. Chiudere gli occhi e fingere che questo mostro non ci sia non lo farà certo sparire.
DOSSIER: STUDIARE LA LONGEVITÀ IN MEZZO AL DISASTRO
COME LA PROPAGANDA MILITARE TENTA DI USARE LA SCIENZA CONTRO LA SCIENZA NEL POLIGONO INTERFORZE DEL SALTO DI QUIRRA Leggi e scarica il dossier L’11 giugno 2024 si è inaugurato a Perdasdefogu un“Polo di ricerca scientifica e della salute in Ogliastra”, situato dentro le strutture del Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ). Un’iniziativa di questo tipo somiglia tanto a una provocazione, considerata la mole di evidenze aneddotiche e scientifiche inerenti i problemi ambientali e sanitari provocati dalle attività del Poligono che non hanno mai beneficiato di indagini scientifiche appropriate. I problemi sollevati da questa iniziativa sono molteplici: * c’è una militarizzazione della ricerca scientifica, che comporta la creazione di conflitti di interessi legati alla provenienza di finanziamenti da parte della Difesa (che finanzia questo centro con mezzi propri, offrendo la sede). * c’è un problema connesso di etica della ricerca legato al cosiddetto “uso duale”: l’uso duale non è un qualcosa che riguarda solo i possibili usi militari di tecnologie ad uso civile (o viceversa), ma riguarda la struttura sociale e la pratica della scienza. Quando si fa ricerca in un contesto militarizzato, non si può pretendere di non considerare le finalità che l’autorità militare intende dare alla collaborazione, nascondendosi dietro alla “neutralità” della scienza o alla lontananza dei temi di ricerca dalle applicazioni militari. La domanda è: quale finalità assume la ricerca sulla longevità, fatta dentro il PISQ? * c’è un problema di inquinamento della narrazione pubblica del discorso scientifico. Il tentativo, in atto da diversi anni, è infatti quello di sostituire la narrazione sui danni della presenza militare del PISQ, con quella sulla longevità della popolazione ogliastrina. In questo breve dossier sviluppiamo una serie di ragionamenti sull’operazione propagandistica che si è inteso fare con l’apertura di questo centro di ricerca, allargando il campo ad una serie di questioni inerenti il rapporto tra militarizzazione della società, ricerca scientifica e narrazioni con cui leggiamo e descriviamo il territorio in cui viviamo.
Perché lottare contro l’occupazione militare e per i diritti Queer?
Come nodo sassarese di A Foras aderiamo al Pride 2025. Di seguito riassumiamo il nostro contributo politico al Pride, che vuole collegare in maniera intersezionale la lotta per la liberazione della Sardegna dall’occupazione militare con quella per i diritti Queer. * La de-colonizzazione dei territori è inseparabile dalla de-colonizzazione dei corpi. Il militarismo è la cultura della violenza esercitata su corpi e territori per ottenerne il controllo. In Sardegna lo vediamo all’opera costantemente, con il 65% delle servitù militari presenti sul nostro territorio, distrutto a livello economico, sociale ed ambientale. Le armi che vanno a portare morte ad altri popoli vengono progettate, sperimentate e collaudate nei poligoni militari e nella fabbrica di bombe RWM. * L’ideologia militarista rappresenta una delle espressioni del sistema cis-etero patriarcale. In questo contesto, il sistema bellico è il braccio armato del patriarcato. I due sistemi sono co-dipendenti: senza il militarismo il patriarcato non potrebbe perpetrarsi, senza il patriarcato il militarismo perderebbe la sua ragion d’essere: quella di affermare tramite la violenza i confini di proprietà su terre e corpi. * Patriarcato e militarismo sono sistemi basati sulla differenza binaria tra maschile e femminile, e sulla sopraffazione di uno sull’altra, dove la scelta è essere o schiavo o padrone, o donna o uomo, o colonizzat* o colonizzatore. * Il militarismo ha radici culturali, uno dei suoi primi veicoli è la scuola che tende sempre più a trasformarsi in una “replica” di una caserma militare, dove si instaurano rapporti di potere basati sulla sopraffazione sulle minoranze e delle persone più deboli, annientando la libertà altrui e instillando nelle persone più giovani la cultura militarista. * Con la nuova corsa agli armamenti e il dilagare della cultura militarista stiamo andando verso nuovi conflitti. La storia ci ha insegnato che in tempo di guerra i diritti civili vengono meno, e quindi anche i diritti Queer sono da considerarsi a rischio. Per questo chiediamo a chi li ha a cuore e partecipa al Pride si schieri contro guerre e occupazione militare. Attualmente in Europa la parola d’ordine è “riarmo”. Per contrastarlo serve estirpare queste radici, fare un lavoro mirato nei luoghi di istruzione, costruire nuove alternative di vita civile e sociale, dove il rapporto non si basi su gerarchie di stampo militaresco. Non vogliamo generali, non siamo arruolat* e non siamo arruolabili, partiamo dal margine per diventare centro, per riprenderci i nostri spazi, le nostre terre libere e liberate, anche e soprattutto dalla presenza materiale delle basi militari, le nostre vite libere e liberate dell’ideologia della guerra, del militarismo e del patriarcato. + (diritti) QUEER – (poligono di) QUIRRA A Foras – Contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna Nodo di Sassari
QUANTO COSTA LA GUERRA?
L’altro ieri, a quasi 20 giorni dalla conclusione dell’esercitazione interforze Joint Stars 2025, è stata resa pubblica dai giornali sardi la presenza di due ordigni inesplosi nelle acque fronte ai territori occupati dal Poligono Interforze del Salto di Quirra. La notizia proviene da due ordinanze della Capitaneria di porto di Arbatax, pubblicate rispettivamente il 30 maggio e il 3 giugno che fanno riferimento alla presenza di due missili a carica esplosiva, lanciati durante l’esercitazione Joints Star. Si tratterebbe di un STINGER e un ASTER30, rispettivamente a 100 e 600 metri di profondità, di cui il primo in linea con la spiaggia di Murtas, anche se distante dalla riva, e il secondo più al largo, secondo quanto comunicato nelle due ordinanze. Il secondo di questi, l’ASTER30, come viene riportato dai giornali, appartiene al sistema di missili SampT, fornito dall’Europa all’Ucraina. Di fabbricazione italo-francese (Eurosam) ha un costo di 2.000.000 di euro per missile ed è stato recentemente oggetto di acquisto – si parla di circa 220 unità –, da parte di Regno Unito, Francia e Italia, nell’ambito del programma ReArm Europe, per un totale, stimiamo, di circa 440.000.000 di euro. Se 440.000.000 di euro ci sembrano molti, quanti sono gli 800 miliardi che l’Europa ha richiesto per il suo programma bellicista? I costi della guerra sono tanti; in primis nei luoghi in cui la guerra viene importata, foraggiando l’industria bellica con le violenze compiute su corpi e territori. A seguire nei luoghi dove lo Stato preferisce investire in armamenti più che in sanità, in armi più che nell’istruzione, dove la terra che poteva essere coltivata è resa incalpestabile a causa delle sperimentazioni, dove natura e ecosistemi, vita umana e non, diventano sacrificabili per il solo motivo di poter garantire la riproduzione di un sistema che da cinquecento anni opprime, sfrutta, violenta e uccide in tutto il mondo. E così degli ordigni inesplosi nel nostro mare risultano solo un piccolo danno collaterale, non degno di essere reso noto. Per lo Stato italiano la nostra salute e la nostra sicurezza, nostre e dei nostri territori, sono da sempre un piccolo danno collaterale, anche esso non degno di essere noto. Vorrebbero una Sardegna vuota, alcun* già pensano sia così. Ma si sbagliano. Ci vediamo domani, 19 giugno, a Nuoro, ore 18, fronte Stazione dei treni. In Pratza pro sa Palestina. Per la Palestina, contro il genocidio, e contro la guerra. Uniti e solidali a tutt* “i piccoli danni collaterali” del mondo.
La Palestina, le radici coloniali del diritto internazionale (e il ruolo delle università)
I due testi che seguono – il primo è un’ampia disamina di come il diritto internazionale serva da giustificazione al colonialismo in Palestina (e non solo); il secondo è una sorta di compendio sul ruolo delle università nei regimi coloniali – mettono in luce degli elementi chiave per la solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese, ma vanno anche al di là. Tutte le astrazioni del tecno-capitalismo e delle sue nuvole (cloud) si fondano sull’esproprio delle terre e sulla guerra alle pratiche di sussistenza dei loro abitanti. La violenza dell’«accumulazione originaria del capitale» non è un evento, bensì una struttura, che oggi punta a colonizzare altri Pianeti e le facoltà stesse della specie. Non è certo un caso né che le principali democrazie liberali siano fondate sul genocidio o sulla pulizia etnica dei popoli nativi, né che le università in cui si sono formulati i valori e le norme giuridiche dell’Occidente siano state fisicamente erette sull’esproprio e sulla violenza ai danni dei terreni e dei corpi delle popolazioni indigene. LA PALESTINA E LA LOGICA COLONIALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DI MJRIAM ABU SAMRA E SARA TROIAN da: https://comune-info.net/la-palestina-e-la-logica-coloniale-del-diritto/? Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale. Tuttavia, questa narrazione è pericolosamente ingannevole in quanto oscura l’innata presenza del colonialismo nell’ordine mondiale contemporaneo. Lungi dall’essere un’eccezione, la Palestina rivela invece le fondamenta coloniali delle relazioni internazionali. Dunque, la perpetrazione del colonialismo da parte di Israele non rappresenta un’anomalia in un mondo giusto ed equo, ma è, al contrario, la manifestazione più evidente di un ordine globale concepito e strutturato per sostenere, proteggere e legittimare dinamiche di potere (neo)coloniali. L’architettura coloniale del diritto internazionale Il diritto internazionale emerse per legittimare la schiavitù di milioni di africani, la conquista coloniale del cosiddetto “Nuovo Mondo” e la sottomissione dei popoli indigeni a livello economico, culturale e politico. Per oltre 500 anni, ha modellato la traiettoria della storia europea, contrassegnata da pratiche di sfruttamento ed esproprio, fungendo da arbitro tra le ambizioni spesso conflittuali dei diversi imperi e conferendo legittimità all’espansione territoriale. Le opere di Francisco De Vitoria e Hugo Grotius, considerati i padri del diritto internazionale, ne sono un esempio paradigmatico. La loro concezione di “legge naturale” ha definito uno standard di civilizzazione basato su canoni culturali e politici europei, utilizzati come metro di misura per giustificare la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei. Secondo questo standard, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di conquistare, mentre i “non civilizzati” erano imputati alla schiavitù, sfruttamento, sottomissione e sterminio. In questa matrice, ogni forma di resistenza dei “non civilizzati” veniva trattata come barbarie o terrorismo. Lo standard di civilizzazione si riduceva, di fatto, al potere istituzionalizzato di colonizzare. Nel corso del tempo, il diritto internazionale si è progressivamente trasformato, adattandosi alle mutate forme di dominio coloniale. L’ordine globale emerso dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sebbene ancora saldamente controllato dalle superpotenze e dai loro interessi strategici, veniva presentato come un sistema equo e universale, mascherato da una legalità apparentemente neutrale e garantito da istituzioni formalmente imparziali, con l’ONU nel ruolo di custode principale. L’inclusione del sistema dei Territori sotto mandato nella Carta delle Nazioni Unite, insieme alle epistemologie eurocentriche che hanno guidato la codificazione dei trattati internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o la Convenzione sul Genocidio, tra gli altri, testimonia questa continuità. Il vecchio standard di civilizzazione è stato riformulato e riproposto attraverso nuove dicotomie apparentemente più accettabili, come democrazia/non democrazia, sviluppato/sottosviluppato, liberale/non liberale. Gli ideali europei di democrazia, sviluppo e liberalismo economico si sono così convertiti in nuovi dispositivi di legittimazione del controllo e dello sfruttamento di altre regioni e popoli. In questo quadro, il sistema di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta l’ammissione più evidente dell’impegno, mai realmente superato, a favore dell’egemonia delle superpotenze del sistema post-bellico. L’onda di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Settanta ha portato solo una liberazione nominale: le ex colonie sono rimaste intrappolate in nuove forme di dominio, non meno pervasive di quelle precedenti. L’indipendenza politica ha infatti occultato la persistente subordinazione economica, esercitata attraverso istituzioni finanziarie, trattati commerciali asimmetrici e l’estrazione sistematica di ricchezze da parte di multinazionali, supportata dai programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. L’ex presidente del Ghana e teorico politico Kwame Nkrumah ha denunciato questo periodo come la transizione dal colonialismo classico al neo-colonialismo. Questa condizione di dipendenza economica è stata legittimata da narrazioni ideologiche che hanno presentato lo sviluppo capitalistico come equivalente agli standard universali dei diritti umani, nascondendo la natura profondamente estrattiva e iniqua di tali processi. In sostanza, il diritto internazionale e le sue istituzioni hanno sancito una liberazione simbolica, ma non una reale emancipazione materiale dal colonialismo. Le condizioni storiche e materiali dell’oppressione Il diritto umanitario internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977, incarnano una contraddizione strutturale. Il tentativo di regolamentare la lotta anticoloniale all’interno degli stessi quadri giuridici creati per disciplinare i conflitti tra Stati sovrani finisce per riprodurre – e spesso aggravare – lo squilibrio di potere intrinseco ai rapporti coloniali, anziché correggerne le disuguaglianze. Sebbene queste norme si presentino come universalistiche nella loro applicazione, esse impongono una simmetria giuridica formale tra colonizzatori e colonizzati, tra potenze occupanti e coloro che resistono alla loro dominazione. In tal modo, ignorano le profonde asimmetrie strutturali e le dinamiche di potere che definiscono le relazioni coloniali. Trattando la resistenza dei popoli colonizzati secondo le stesse restrizioni legali imposte agli eserciti statali, questi strumenti giuridici oscurano le condizioni storiche e materiali dell’oppressione da cui origina tale resistenza. Inoltre, queste norme spesso operano come strumenti di delegittimazione e criminalizzazione della resistenza anticoloniale, rafforzando la supremazia strutturale del colonizzatore. Il principio di distinzione – concepito per proteggere i civili – non considera come i regimi coloniali confondano deliberatamente obiettivi militari e civili, né affronta la violenza sistemica insita nell’occupazione stessa. Analogamente, il divieto di determinati metodi di combattimento limita in modo sproporzionato le possibilità di autodifesa dei popoli colonizzati, mentre lascia intatte le superiori capacità belliche dell’oppressore. Questo impianto normativo, pertanto, non agisce come arbitro imparziale della giustizia, ma come uno strumento di consolidazione delle stesse gerarchie di potere che pretende di regolare. Regolando la violenza secondo un principio di falsa equivalenza tra chi domina e chi resiste, il diritto umanitario consente alle potenze coloniali di dipingere i popoli oppressi come soggetti incapaci di aderire ai princìpi giuridici fondamentali. Così facendo, rende di fatto inammissibili le guerre di liberazione anticoloniali nei parametri del diritto internazionale. La guerra del diritto internazionale contro la Palestina La questione palestinese rappresenta l’essenza egemonica del diritto internazionale. L’ideologia del colonialismo di insediamento sionista è emersa e continua a operare all’interno del contesto politico ed economico della storia imperiale europea, radicandosi nel sistema internazionale stesso. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha diviso la Palestina, legittimato la confisca delle terre e integrato il colonialismo di insediamento nel diritto internazionale. Nonostante fosse giuridicamente viziata, poiché eccedeva l’autorità dell’Assemblea Generale dell’ONU e non era vincolante, la risoluzione è divenuta la colonna portante della legittimazione indiscutibile di Israele e dell’eredità coloniale del sistema internazionale. La storia moderna della Palestina riflette dunque questa dialettica tra sistemi di dominazione legalizzati a livello internazionale e la resistenza al quadro coloniale che li sorregge. Il quadro di Oslo ha mantenuto questa dicotomia, rafforzando ulteriormente il colonialismo di insediamento sionista dietro la facciata di “negoziati di pace”. Si tratta di una manovra politica concepita per cristallizzare il colonialismo di insediamento e neutralizzare la resistenza palestinese, promuovendo l’ambiziosa, seppur paradossale, aspirazione di ottenere la legittimazione del sionismo attraverso l’accettazione da parte dei colonizzati palestinesi stessi. Con questa strategia e attraverso la narrativa dell’“approccio pragmatico”, la comunità internazionale presenta il colonialismo di insediamento come una “soluzione giusta ed equa”, annientando i diritti e le aspirazioni di liberazione, giustizia e ritorno della popolazione indigena. In tale contesto, il controllo e l’oppressione coloniale vengono ulteriormente radicati attraverso una dipendenza economica e politica neoliberista che normalizza la violenza e la dominazione sotto le spoglie di costruzione statale. Si formalizza così la relazione coloniale, istituzionalizzando una classe collusa di colonizzati – l’Autorità Palestinese (AP) – investita del ruolo di intermediaria custode del potere coloniale. Questo rafforza, infine, l’architettura della violenza coloniale di Israele. La continua campagna di espulsioni di massa e distruzione nel nord della Cisgiordania – la più estesa e feroce dal 1967 – condotta congiuntamente con l’AP rappresenta una testimonianza lampante di questa realtà persistente. Non è un caso che “la campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina” venga rilanciata ogni volta che il potere coloniale è sfidato nella sua essenza e la mobilitazione decoloniale risorge, facendo risaltare i limiti strutturali e le incoerenze del sistema internazionale. Questa campagna è la continuazione genealogica della partizione della Palestina. Il momento attuale ne è testimonianza: con un genocidio in diretta streaming, l’unica risposta che emerge a livello internazionale è, paradossalmente, il riferimento a “soluzioni legittime” e a “quadri giuridici” che non mettono in discussione i fondamenti coloniali della depredazione palestinese, ma li accettano come un fatto compiuto. Questa traiettoria strategica si maschera da tentativo di implementare meccanismi di responsabilità e giustizia tramite l’intervento delle istituzioni internazionali, che, lungi dall’essere “super partes”, sono vettori di egemonia coloniale. Emblematiche in questo contesto sono le ordinanze di arresto emesse dalla Corte Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant – che inizialmente furono richieste anche per Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar, e Mohammad Deif, se non fossero stati uccisi dalla stessa autorità coloniale contro cui stavano lottando, prima che gli ordini di arresto fossero ratificati. Mentre il mondo ha acclamato questa decisione che, pur mancando di esecuzione, è stata definita storica, essa ha svolto un ruolo strumentale nel livellare e normalizzare le relazioni di potere asimmetriche tra colonizzati e colonizzatori, mettendo i leader della resistenza anticoloniale sullo stesso piano delle autorità statuali che ordinano e implementano massacri coloniali per sradicare ed eliminare un intero popolo. Questo approccio “bipartisan” e l’insistenza sull’“obiettività” si configurano come la regola che sottomette ogni tentativo di denunciare e invertire le relazioni di potere sbilanciate. Le fondamenta coloniali del diritto internazionale hanno neutralizzato la relazione colonizzato-colonizzatore, occultandola in retoriche e pratiche di bothsidesism (finta equidistanza) che favoriscono sempre il più potente colonizzatore, che non solo tiene il coltello dalla parte del manico, ma detiene anche il controllo sulla narrativa. Smantellare la casa del padrone La colonizzazione della Palestina non è un’anomalia in questo ordine globale, ma rappresenta la sua accusa più evidente. Essa mette in luce l’ipocrisia di un sistema internazionale che, pur condannando retoricamente il colonialismo, lo istituzionalizza e lo legittima nella pratica. I quadri giuridici internazionali e i modelli di governance, progettati dai e per i poteri coloniali, hanno sempre dato priorità alla conservazione delle gerarchie di potere, celandole sotto la facciata di legalità e giustizia. Tali strutture riaffermano il colonialismo di insediamento come un presupposto legittimo delle relazioni internazionali. Dal 7 ottobre 2023, la presunta universalità del sistema internazionale è stata messa in discussione, rivelandone le contraddizioni intrinseche. Il discorso evolutivo e i meccanismi del diritto internazionale hanno esposto i loro limiti e la continua alleanza con il dominio coloniale e i suoi corollari: il privilegio razziale, le disuguaglianze sistemiche e l’accumulo di capitale. Questo momento richiede una rivalutazione critica dei quadri concettuali e pratici che sostengono la giustizia e la liberazione. L’affermazione di Audre Lorde che “gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone. Possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo stesso gioco, ma non ci permetteranno mai di portare un vero cambiamento” sottolinea la necessità di ripensare questi paradigmi. Il cammino da percorrere richiede una profonda trasformazione strutturale, che affronti e smantelli i sistemi di diritto internazionale e governance che perpetuano l’oppressione. Al loro posto, devono essere sviluppati paradigmi alternativi, fondati sull’uguaglianza autentica, sulla lotta comune e sulla giustizia decoloniale. La lotta palestinese per la liberazione incarna questa sfida più ampia, forzando un confronto con le radici coloniali dell’ordine globale e immaginando un mondo in cui la giustizia non resti mera retorica, ma diventi realtà per tutti. «Iniziare dalla terra su cui sono state erette» Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university (università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university (università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni. Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862 facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo, costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi 500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro tratta. Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le università coloniali. In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche. Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa oltremodo ardua. In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore. Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta, si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni, le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e oppressione violenta. Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare l’oppressione. (da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)
30 e 31 Agosto/ Renoize 2024 Festival Antifascista – Parco Schuster
Renoize2024 – Festival Antifascista 30 e 31 agosto Parco Schuster  Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Siate voci fuori dal coro.  Siate il peso che inclina il piano.(Bertrand Russell) Mesi di assemblee, di complicità e di cospirazione – di respirare insieme, 18 anni da quel tragico giorno in cui i fascisti hanno portato via un fratello, un amico, un figlio, un compagno, il nostro amato Renato, Renato Biagetti, e di nuovo insieme, con tutta la città, per continuare a costruire un futuro dove il fascismo semplicemente non è previsto: questo e molto di più racchiude il programma della 17esima edizione di Renoize2024. Un programma fatto di musica, immagini, spettacoli, gioco, cultura e relazioni. Un programma molto politico, e come potrebbe essere altrimenti? Con tantissimi dibattiti, laboratori e presentazioni di libri che, per ragioni di tempo, saranno in contemporanea fra loro e che restituiscono secondo noi una necessità, una vera e propria urgenza: quella di ritrovarci, di discutere, di stringersi insieme nonostante il caldo. Davanti alle atrocità del genocidio a schermo aperto. Davanti alle guerre di cui i nostri governi sono responsabili. Davanti ad interessi economici così devastanti per il nostro pianeta. Davanti ad attacchi così violenti contro i nostri corpi e nostri diritti.  Davanti a tutto questo non possiamo e non vogliamo rimanere indifferenti. Non possiamo che scegliere ancora una volta di organizzarsi dal basso per far sentire una voce capace di raccontare un mondo che ancora resiste. Non possiamo non ricordare ciò che è stato e che sta tornando in altre forme. Non possiamo restare in silenzio.  Dobbiamo essere il peso che inclina il piano, e possiamo farlo solo insieme.  Per questo motivo, Renoize2024 – Festival Antifascista sarà anche molte parole, oltre a musica immagini e spettacoli.  Sarà ancora una volta l’ingranaggio collettivo che prova a costruire un mondo dove semplicemente il fascismo non è previsto.  Con Renato nel cuore Sempre con la stessa rabbia Sempre con immutato amore #freepalestine IL PROGRAMMA Venerdì 30 Agosto e Sabato 31 Agosto dalle ore 16 alle 24 Dibattiti, Incontri, Stage, Cerchi Assembleari, Laboratori e Sport Popolare AREA VILLAGGIO PALESTINA sempre aperta  Dalle ore 17.00 alle 20.00 Presentazioni, Laboratori, Performance e Spettacoli  Dalle 20.00 a Chiusura Musica e concerti Durante il Festival: BAR D’AUTOFINANZIAMENTO  CUCINE DAL MONDO  BANCHETTI INFORMATIVI  STAND LIBRERIE E CASE EDITRICI RADICALI ≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔≕≔ #Renoize024 #IoNonDimenticoRenato Grazie a Marzia Mavi per grafica e disegno PRIMO GIORNO – VENERDÌ 30 AGOSTO Tutto il giorno | LUDOBUS: giochi di legno del lab, sociale Largo Tappia di Lanciano Ore 17.00 | Lab. aperto di Capoeira -La Palestra Popolare Indipendente  Ore 17.00 | Presentazione libro: Essere tempesta – Vita e morte di Giacomo Matteotti –  MOMO ed.  – di e con Valerio Renzi (libro per ragazzi) 18.00 | Dibattito: Nuove destre, vecchi inganni. La santa alleanza per il controllo dei nostri corpi. 18.00 | Lab. iperstizioni: immaginare un mondo senza polizia (stand Che Guevara) 19.00 | Spettacolo Circofficina: MAXELL // spettacolo di acrobatica aerea e contact di e con Martina Giuliani // a seguire Elena Garrafa Spettacolo di fuoco  Dalle 20 (palco grande): * WILD MINT  * GIORGIAMARIASARA * 10 GIUGNO. IL DELITTO MATTEOTTI // PODCAST LIVE DI CHIARA ALESSI CON NILO PERSICHETTI E DARIO BIAGETTI  * CHOCOLATE REMIX Dalle 1.00 ad Acrobax | Serata techno a sostegno di Renoize 2024 AREA VILLAGGIO PALESTINA Ore 16.00 | Lab. creativo complice e solidale (stancil e panuelos a sostegno della Resistenza Palestinese) Re 17.00 | Dibattito: Lotta al sionismo nelle istituzioni / L’intifada studentesca delle università italiane e gli interessi dei colossi energetici nei territori occupati  Re 18.15 | Dibattito: Disarmare il genocidio / forme di mobilitazioni locali e internazionali contro l’industria bellica che arma il genocidio  CUCINE DAL MONDO a cura di: * Comitato Madri per Roma Città aperta * Coordinamento cittadino lotta per la casa * Centro Culturale Ararat * Vamos Clandestino * Forno Popolare della Baccelli SECONDO GIORNO –  SABATO 31 AGOSTO Tutto il giorno | LUDOBUS: giochi di legno del lab, sociale Largo Tappia di Lanciano Ore 17.00 | Laboratorio: il circo a portata di tutt3 – a cura della Circofficina Ore 17.00 | Laboratorio di fotografia per bambinə e ragazzə con Daniele Napolitano e Tetrabondi, a seguire presentazione del libro “CAMBIARE IL MONDO CON LA FOTOGRAFIA” Ore 17.00 | Presentazione libro: La fabbrica dei sogni GKN – di e con Valentina Baronti Ore 18.00 | Stage di boxe con Dario Morello – a cura della Palestra Popolare Indipendente  Ore 18.00 | DifenderSI – talk su tattiche di difesa degli spazi sociali in modalità orizzontali e non maciste (stand che Guevara) Ore 18.30 | Dibattito plenaria: “Se l’orizzonte è scuro, è ora di far brillare i nostri fuochi” // Nuovi orizzonti di solidarietà, mutualismo, ecologie e lotte sociali. Ore 18.30 | Lab. Enoize: Workshop “Il naso nel bicchiere“ Ore 19.00 | Spettacolo per grand3 e piccin3 “BON BON NA SCARPA E NA PANCHINA” di e con Donatella Morabito  Dalle 20 (palco grande): * BORN GUILTY * ORIGAMI SMILE * NAKED ZIPPO  * VEEBELFEZER * KOZA MOSTRA AREA VILLAGGIO PALESTINA Ore 17.00 | Presentazione “Fanzine il Basso” // Questa nona edizione sarà interamente dedicata alla Palestina. Saranno presenti divers3 autrici e autori degli articoli che affronteranno variazioni sul tema Palestina. Ore 18.00 | Dibattito: Carcere e repressione, strumenti oppressivi del colonialismo di insediamento. Focus su3 Prigionier3 Palestinesi con la Presentazione del Libro “Il racconto di Suaad” con l’autrice Suaad Genem e con diversi interventi dalla Palestina e de3 palestinesi in diaspora CUCINE DAL MONDO a cura di: * Comitato Madri per Roma Città aperta * Coordinamento cittadino lotta per la casa * Centro Culturale Ararat * Vamos Clandestino * Forno Popolare della Baccelli Area aperta (free entry) ed accessibile Non sarà possibile utilizzare POS