Giacinta Cavagna di Gualdana / La Rinascente, una storia milanese
La Rinascente è stata per Anni uno dei simboli di Milano. Credo che lo sia
ancora, almeno a giudicare dalla folla di stranieri che entrano ed escono dalle
porte che affacciano sul Duomo, sotto i portici di via Vittorio Emanuele. Quando
io ero giovane e la provincia era davvero provinciale, venire a Milano e fare un
giro alla Rinascente erano una bellissima avventura. E una bellissima avventura
è la storia di questo grande magazzino, raccontata in forma di romanzo da
Giacinta Cavagna di Gualdana in Un milione di scale. Le ragazze della
Rinascente. Un’avventura che comincia alla fine dell’Ottocento, nel 1889 per la
precisione, quando i fratelli Bocconi, Ferdinando e Luigi, aprono il grande
magazzino alle città d’Italia. Se il nome Bocconi vi suona familiare, sì, sono
proprio quelli che hanno fondato l’università Bocconi. Oggi una delle
istituzioni più famose d’Italia e d’Europa, la Bocconi è stata fondata con lo
stesso intento dei grandi magazzini: aprire delle possibilità, far girare le
idee, allargare gli orizzonti, migliorare la vita delle persone. I grandi
magazzini concentravano idee e proposte per la casa e per la persona, il meglio
di quel che i tempi offrivano al prezzo più abbordabile possibile. L’università
offriva una formazione nelle materie economiche e commerciali, che a quel tempo
non erano considerate oggetto di studio. Nel 1917 i grandi magazzini rinascono
con una nuova proprietà, quella della famiglia di Senatore Borletti
(finanziatori anche del “Corriere della Sera” e di Mondadori) e soprattutto con
un nuovo nome, La Rinascente, coniato da Gabriele d’Annunzio. Nome che resiste
ancora oggi.
Nel romanzo, che rientra in quel filone di ricostruzione della storia
industriale italiana, cominciato con i Florio e proseguito con tante altre
riscoperte, la storia della Rinascente è raccontata attraverso le vicende di
alcune commesse, oltre che dei proprietari e delle loro famiglie. Una storia
corale che si snoda tra le due guerre mondiali, il fascismo, la Resistenza, la
nascita della Repubblica. I grandi magazzini non sono solo un luogo di lavoro ma
anche di incontri, di sogni realizzati e sogni infranti, di amicizie improbabili
e resistenti, di imbrogli e di atti di coraggio. E l’intreccio tra figure
realmente esistite e figure inventate è interessante e ben sviluppato, così come
l’incrociarsi di vite brillanti e di successo con piccole storie quotidiane. La
figlia di Marcello Dudovich, il grande artista e disegnatore che ha guidato per
anni la comunicazione e la cartellonistica della Rinascente, fin da bambina fa
amicizia con la figlia di una delle sarte del reparto sartoria del grande
magazzino, e sarà un’amicizia che dura tutta la vita e che rende grandi benefici
a entrambe le protagoniste. Uno dei fratelli Bocconi resta disperso durante la
campagna d’Africa, l’ultima lettera è da Massaua; a lui sarà intitolata
l’università Bocconi. Il marito di una delle dipendenti più affezionate della
Rinascente, Giuseppe Ceriani, è un ingegnere che progetta macchine da cucire per
la Necchi; l’azienda di quei Necchi per cui Portaluppi costruì la meravigliosa
Villa Necchi Campiglio che è ora uno dei monumenti più amati e visitati di
Milano. Insomma, gli intrecci e le scoperte sono tante e sono davvero piacevoli.
Prevalgono nel romanzo le figure femminili. Sia perché per tradizione il lavoro
della commessa è femminile, sia per scelta dell’autrice. Che senza sottolinearlo
in modo palese, racconta però il lavoro nel grande magazzino come uno strumento
di emancipazione. Del resto, così è stato. Il primo passo della libertà delle
donne è quello dell’indipendenza economica, del lavoro, e possibilmente di un
lavoro che abbia un senso, che consenta di esprimere qualcosa di sé stesse, e
che crei relazioni, amicizie, solidarietà. C’è forse un po’ di ingenuità nel
ritratto di un’azienda paternalistica ma rispettosa dei suoi dipendenti,
rigorosa ma attenta al benessere di chi lavora, con un’affidabilità che parte
dal datore di lavoro ma è rispecchiata dai dipendenti. La realtà era sicuramente
più sfumata e anche più dura. È vero però che una certa etica del lavoro era
effettivamente praticata in certe aziende nello scorso secolo, e se anche la
Rinascente non è passata alla storia per essere un’azienda modello, è molto
probabile e plausibile che i rapporti tra padroni e dipendenti fossero corretti
e di buona qualità. Ma più di tutto, Un milione di scale è un ritratto di
Milano. Un ritratto bello e ricco, che rende l’idea di quello che la città è
stata per i milanesi e per tutti quelli che ci sono venuti a lavorare e a
cercare fortuna. I solidi valori del lavoro e dell’impegno, del fare senza
mettersi in mostra, quel che oggi chiamiamo understatement, la solidarietà e il
rispetto di tutti i mestieri, emergono da ogni pagina e fanno venire anche un
po’ di nostalgia e di rimpianto, guardando la Milano di oggi.
Quello di cui manca il libro, secondo me, è una voce originale e sicura. La
scrittura è piuttosto standard, e non aiuta la caratterizzazione dei personaggi,
che il più delle volte sono estremamente interessanti ma a cui le parole non
rendono giustizia. Le risate sono tutte fragorose, le giornate sono scampoli
d’estate, le amiche si allontanano a braccetto, i fratelli parlano all’unisono…
si potrebbe fare un catalogo di quelle espressioni da vocabolario d’italiano e
romanzo classico. Ma soprattutto tutte le emozioni sono descritte con poche
parole, sempre le stesse. E sebbene si intuisca che sotto c’è molto di più,
sebbene in qualche modo la varietà delle esperienze e la ricchezza dei caratteri
arrivino a noi lettori, le parole giuste mancano. E questo, trattandosi di un
libro, è un dispiacere.
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