Al bivio tra violenza e non violenzaAntonio Minaldi è un autore assai prolifico, scrive con fluidità e riesce a
catturare i suoi lettori. Inoltre, nei suoi scritti troviamo una grande passione
etica e politica sicuramente da apprezzare. Nel caso di questo libro “Gandhi ad
Auschwitz. Elogio della nonviolenza e le sue problematiche”, Antonio ripercorre
la sua vicenda umana e in particolare la sua partecipazione agli eventi politici
a partire da 1968 fino ai ai nostri giorni. È abbastanza normale che qualcuno,
protagonista di importanti vicende storiche, senta la voglia di raccontarle e di
trasmettere la sua esperienza in modo che gli altri, soprattutto i giovani, ne
possano ricavare qualcosa di buono. Dicevo il libro costituisce un elogio del
pacifismo ed ovviamente non sarò certo io a non condividere tale atteggiamento,
però nello stesso tempo Antonio riconosce che ci sono una serie di problematiche
inerenti ad esso. Illustrerò prima brevemente il contenuto del libro e poi farò
una serie di considerazioni, che si fondano su quanto è anche stato scritto da
Antonio e che riguarda la relazione tra pacifismo e contesto storico.
Il pacifismo di Antonio è il frutto di una sorta di ripensamento. Racconta che
quando ha cominciato a fare politica era convinto che, per cambiare il sistema
sociale nel quale viviamo, fosse opportuno un atto rivoluzionario, il quale in
un modo o in un altro inevitabilmente implicasse una qualche forma di violenza.
Oggi dichiara di aver abbandonato questo presupposto condiviso da molti, ma
bisogna dire non da tutti coloro che si collocano nei cosiddetti movimenti di
sinistra. Si potrebbe affermare che il mondo di sinistra è estremamente sfumato
e presenta tendenze contraddittorie. Per esempio, soddisfatto dalla forza
raggiunta dal Partito Socialdemocratico tedesco, Engels giunse ad ipotizzare che
sarebbe stato anche possibile arrivare ad un ribaltamento sociale attraverso una
vittoria elettorale, proponendo quindi una prospettiva riformista. Inoltre,
inizialmente, i socialdemocratici tedeschi si opposero alla Prima guerra
mondiale per poi capitolare tristemente, mentre Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg
pagarono con la vita il loro antimilitarismo.
Purtroppo la storia ci ha insegnato che le vittorie elettorali non sono
sufficienti a sostenere un cambiamento radicale della società, perché le forze
sconfitte possono facilmente tornare alla ribalta. Basti pensare alle vicende
cilene e al tragico colpo di Stato contro il governo Allende. Qualcosa di simile
sta accadendo proprio sotto i nostri occhi con l’attacco statunitense al
Venezuela, scatenato dal signor Trump che sta addirittura violando la legge
degli Usa, perché sta intraprendendo azioni militari senza aver consultato il
Congresso. Ma torniamo al libro di Minaldi e a Gandhi.
In primo luogo Minaldi mette in discussione un’opinione abbastanza comune,
secondo la quale la nonviolenza vince, quando ormai la vittoria è scontata, come
nel caso dell’India o nel caso di Martin Luther King da lui citati. In realtà si
potrebbe dire che in India non vinse la nonviolenza: Gandhi stesso fu ucciso e i
conflitti tra le diverse componenti etniche sono stati sanguinosi e non si sono
ricomposti. Per Antonio la nonviolenza costituisce un principio etico quasi
inerente alla nostra stessa natura di esseri umani, ossia esseri sociali e
cooperativi, i quali proprio per questa caratteristica sviluppano comportamenti
solidaristici nei confronti dei loro simili.
Minaldi sostiene che a partire dall’Olocene (11.700 anni fa) con la cosiddetta
Rivoluzione agricola l’uomo avrebbe imposto il suo dominio sulla natura, e in
questo modo si sarebbe affermata quello che lui chiama il dominio dell’uomo
sulla natura e sugli altri. A suo parere questo costituisce il filo rosso che
attraversa tutta la storia umana. Si potrebbe osservare che, già nel momento in
cui l’uomo era cacciatore e raccoglitore, già esercitava una sorta di potere
sulla natura, in quanto si appropriava dei suoi frutti per riprodursi. Ma qual è
la differenza tra la violenza presente nella società capitalistica e la violenza
precapitalistica? L’economista Robert Gordon sostiene che dal 1300 al 1700 non
c’è stata nessuna crescita economica, mentre a partire dalla Rivoluzione
industriale fino al 1950 la crescita è stata straordinaria con conseguenze
dirompenti sugli esseri umani e sulla natura, che sono divenuti oggetto di una
violenza industriale. La quale ha partorito tutti quei micidiali apparati
bellici che oggi purtroppo vediamo in opera.
Una volta stabilito che la nonviolenza è un principio etico, Minaldi mette in
evidenza la difficoltà di rispettarlo, sottolineando che in certi casi questo
rispetto potrebbe trasformarsi anche in un’auto sacrificio. Per esempio, Gandhi
avrebbe potuto idealmente immolarsi per impedire lo sterminio portato avanti dai
nazisti. A suo parere tale gesto non sarebbe stato un gesto inutile in quanto
avrebbe riaffermato un valore ineludibile e avrebbe costituito un esempio per
tutti coloro che volessero ispirarsi ai principi della nonviolenza. Tuttavia,
Minaldi riconosce che, se il sacrificio può essere un gesto individuale è assai
difficile che esso si trasformi in un gesto collettivo in base al quale una
certa comunità subisce passivamente una violenza su di essa esercitata. In
questo caso è inevitabile pensare ai palestinesi, al 7 ottobre di Hamas e alla
feroce reazione dello Stato d’Israele. Da queste constatazioni il nostro autore
ricava quanto cito testualmente: la nonviolenza si trova sempre in bilico tra
l’esigenza di riaffermare la primazia dei valori e la nuda realtà delle cose
imposta dal realismo della pratica politica. Proprio per questa ambiguità egli
trova del tutto accettabile, anche da parte di un non violento, il fatto che si
verifichino situazioni estreme nelle quali unicamente a scopo difensivo è
legittimo rispondere ad un’aggressione indebita con la violenza. Ciò è quanto
prevede il diritto penale a proposito della legittima difesa: vi sono situazioni
in cui per difendersi non c’è altro mezzo che il ricorso alla violenza. A mio
parere questa posizione è del tutto condivisibile. Infatti, credo che la
nonviolenza, là dove è praticabile e può essere efficace, deve essere impiegata,
là dove queste condizioni, invece, non si danno e dove non c’è via di scampo, si
deve ricorrere alla violenza. In questo senso violenza e non violenza sono
atteggiamenti da contestualizzare.
D’altra parte è difficile affermare che sia stata soltanto l’opera di Gandhi a
portare alla indipendenza dell’India. Ci sono stati sicuramente molti altri
fattori, come per esempio, la debolezza dell’esercito britannico che in gran
parte era costituito da indiani, i quali erano stati mandati a combattere nella
prima e nella seconda guerra mondiale con tantissime perdite. Inoltre, c’erano
anche altri leader politici, in particolare musulmani, che invece portavano
avanti la battaglia per l’indipendenza con modelli e progetti diversi.
Paradossalmente dopo la morte di Gandhi, avvenuta per un omicidio, l’India fu
teatro di gravi violenze che si concretarono nell’assassinio di importanti
leader politici, e che riguardarono anche i conflitti tra le diverse entità
etniche presenti nel subcontinente indiano; in particolare il conflitto mai del
tutto risolto tra la componente musulmana e quella hindu.
Per esprimere meglio la mia idea di contestualizzazione della nonviolenza e
della violenza, voglio fare il parallelo tra la importante figura di Gandhi,
ispirata da Lev Tolstoj, e un’altra significativa figura di leader politico
situata però in tutt’altro contesto storico. Anche lui, profondamente cristiano,
si trovò di fronte alla scelta assai difficile tra la violenza e la nonviolenza.
Mi riferisco al sacerdote, sociologo, uomo politico colombiano Camillo Torres
Restrepo, il quale riteneva che il nucleo del Vangelo fosse la creazione del
Regno di Dio in terra. Per l’opposizione della gerarchia ecclesiastica abbandonò
il sacerdozio nel 1965, nello stesso anno fondò il settimanale Frente Unido, che
aveva lo stesso nome della sua organizzazione politica. Resosi conto che le
forze oligarchiche e reazionarie della Colombia non gli avrebbero permesso
nessuna azione politica, Torres optò per la lotta armata e si unì ai
guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo che si ispirava alla
Rivoluzione cubana del 1959. Dopo solo un mese di militanza, fu ucciso il 15
febbraio 1966 dall’esercito nel suo primo giorno di battaglia. Come si vede non
è facile scegliere tra violenza e nonviolenza e soprattutto è arduo prevedere le
conseguenze della scelta fatta.
Al breve saggio di Minaldi seguono alcune considerazioni di Olivier Turquet, per
il quale il primo passo verso la nonviolenza consiste nello scoprire la violenza
che si nasconde dentro di noi.
Antonio Minaldi, Gandhi ad Aushwitz, elogio della Nonviolenza (e sue
problematiche), Multimage 2025
Alessandra Ciattini
Redazione Italia