Dario Villa / Poesia, “la cosa che si dice mi somigli”
Antonio Ria, fotografo on the road negli anni Ottanta, parlava di tribù dei
poeti, quella “cosa” per niente astratta che inseriva scrittori e scrittrici nel
gioco serissimo della vita e dell’arte, gente che pellegrinava (e lui con essa)
per raduni e festival esprimendo in pubblico poesie con performance di svariati
generi, musica e parola e pittura e fotografia e teatro – tutte azioni che
ancora oggi, in epoca del tutto diversa (e pericolosamente storta), ci
sorprendono e spesso commuovono. Gli anni passano, e in vecchiaia questo accade
più di quanto si vorrebbe. Le istantanee in b/n di Ria riportano una serie di
gesti e volti in presa diretta che magicamente interagiscono col ricordo e le
pratiche messe in gioco con spirito comune. E allora i nomi sono questi: Franco
Beltrametti, Adriano Spatola, Tom Raworth, Corrado Costa, Allen Ginsberg, James
Koller, Valeria Magli, Steve Lacy, Patrizia Vicinelli, Amelia Rosselli e quanti
altri ancora. Nomi che non tutti, ahimé, oggi conoscono. E poi Dario Villa.
Appare lì in mezzo, fra tutti i sodali e pur defilato come stella bellissima e
girovaga, come ci spiega felicemente e preciso Alessandro Giammei
nell’introduzione al volume che raccoglie l’opera in versi di questo poeta
milanese giunto al mondo nel 1953. E andato via nel 1996. Come se la sua grande
poesia avesse dato tutto in una manciata di anni e poi avesse smesso di
nominarlo. Una vertigine che a Dario piacerebbe ancora, si trovasse qui per
qualche perversa ragione cosmica.
A Giammei bastano quattro pagine, all’incrocio fra memoir e gesto critico, per
definire l’enunciazione poetica di Villa nei decenni che videro apparire Satura
di Montale, Composita solvantur di Fortini (a cui aggiungerei La composizione
del testo di Spatola e Galateo in bosco di Zanzotto), l’avvento di Berlusconi,
le morti di Jim Morrison e Kurt Cobain, e poi… Una bravura del curatore di gran
conto, in epoca di sproloqui e assenza di materiale critico in favore di bugie
vessatorie.
Villa in un libretto di prose del 1985 (Proemi in posa) scriveva: “E chi ci
crede ancora, alle parole?” Figurarsi. Definito il migliore da Patrizia Valduga
– lei di non sommesso sentimento verso la parola, e di certo indagante motti e
sentenze anguste –, Villa non si lasciava circuire da definizioni poliziesche,
né dava conto “nei panni del madama” di indizi né chiavi di lettura sul senso
del suo linguaggio. Se Raboni indicava la sua poesia come essere sempre “un
passo avanti” e altrove rispetto a quanto si aveva sotto gli occhi al momento,
una ragione può trovarsi nell’esistenza flâneur di Dario, per molti versi simile
a quella di Beltrametti. Ma in lui il Rimbaud trasferito a Milano sormontava il
“transiberiano” sogno giapponese del poeta svizzero. Poeta essenzialmente
biografico, diceva di sé Villa, dando spago a un’austerità linguistica quasi
cerimoniale, cogliendo vendette verso indugi spettacolari della lingua. Dario in
fondo era un angelo vendicatore sugli abissi insondabili della poesia
novecentesca, un Laforgue sopravvissuto al presente della modernità. Molti sono
andati esilarando sui versi che Villa intendeva non certo come organizzazione
dell’universo. Tutt’al più una cornice in cui fingersi, insieme al paesaggio.
Seduttivo il poeta che crea poesia come antidoto alla condizione umana. Lui
avrebbe voluto una poesia che rovesciasse la “fodera del mondo” invece di
nominarlo continuamente. Nella sua opera è dimostrata la riuscita, seguendo il
corso di questo volume dedicato a chi desidera ancora capire qualcosa del
Novecento traumatico, nostro tempo da cui oggi ci allontaniamo con traumi ancora
più devastanti e, si teme, d’impossibile riabilitazione. Nelle poesie di Villa
si viaggia di sistema in sistema stracciando manchevolezze e inceppando gli
ingranaggi degli inganni umani. Tutto con il suo italiano indiscreto ed
eroicamente dandistico, vasto quanto il “tratto migliore di spazio disponibile”.
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Pulp Magazine.