Arnold Zweig / Alle origini dell’odio
Un rompicapo di labirintiche stradine, un tessuto urbano composto da città
incastrate l’una nell’altra, così viene descritta Gerusalemme in Il ritorno di
Isaak de Vriendt di Arnold Zweig, a simboleggiare l’inestricabile rovello che
avvolge le vicende degli ebrei e dei palestinesi, ancora oggi fonte di odio e di
sanguinosi conflitti. Quando due popoli hanno paura l’uno dell’altro, basta una
minima scintilla per far precipitare gli eventi. «La rabbia esplode e poi
scompare, ma le azioni dettate dalla rabbia, quelle non possono essere
cancellate e quando un rapporto di buon vicinato si deteriora, ci vogliono anni
prima che torni a essere un’autentica amicizia».
Il caos si manifesta in tutta la sua imprevedibilità. Motore dell’azione una
conversazione ascoltata per caso: due sconosciuti progettano l’omicidio di un
ebreo. Isaak de Vriendt è un uomo solitario, in bilico fra oriente e occidente,
dedito alle conversazioni a fior di labbra con sé stesso, animato da una
passione antiquaria che evoca antiche battaglie e da una irrefrenabile vocazione
poetica. Immagina di aver vissuto migliaia di anni, e di essere passato
attraverso innumerevoli incarnazioni. La sua sagoma è modellata attraverso le
suggestioni offerte dalla figura del poeta e uomo politico J.I. de Haan,
assassinato a Gerusalemme nel 1924; un ebreo ortodosso lontano dai precetti
della moralità borghese, ispirato da peculiari dettami di reciproca tolleranza.
Lungi dall’essere legate alla sua personalità scabrosa, le motivazioni
dell’omicidio erano ben più complesse, e comprendevano la sua opposizione al
progetto sionista.
Gerusalemme è una città che ti consuma il cuore, nella quale è arduo restare
tranquilli; chi resta impigliato nelle sue spire non riesce più a venire via.
Mediante meticolose descrizioni, Zweig riesce a veicolare l’atmosfera fascinosa
e indolente, esaltante e pericolosa del luogo. Nell’aria risuonano i monotoni
canti degli arabi, uomini che possono amare oppure odiare, nella medesima
semplice maniera. Una varia umanità abita quelle terre, sacerdoti armeni, pope
russi, preti abissini, venditori di bibite e mercanti di ghiaccio, e ancora
macchine, asini e cammelli. L’utopia della convivenza pacifica fra gli uomini è
destinata ad essere spazzata via dalla violenza.
La storia è ambientata in tempi definiti “di comune idiozia”. Siamo nel 1929, un
anno di particolare inquietudine. L’antisemitismo cresce e si diffonde, anche
presso popoli ritenuti colti come quello tedesco. Macerie vengono rapidamente
nascoste, perché si eviti di ricordare i conflitti trascorsi. Parole che fanno
pensare agli scenari odierni, costellati di dolore e di rovine. Il mondo, allora
come oggi, è sull’orlo di un abisso. Nulla è cambiato. Il dissidio fra giudaismo
e sionismo anima le pagine del libro, proponendo dibattiti tornati di prepotente
attualità. La passione proibita fra il protagonista e un ragazzo arabo
materializza arcane rivalità e oscure pulsioni dell’anima. La dicotomia fra la
devozione e il desiderio, la tensione fra benedizione e maledizione lacera la
coscienza. L’assassinio di de Vriendt mette in moto un meccanismo inarrestabile.
Irmin, agente dei servizi segreti britannici, è incaricato di fare luce sul
caso, di ricostruire la fitta trama di intrighi celata dietro l’omicidio. Nel
corso dell’indagine scoprirà la vocazione umana all’odio e alla distruzione.
«Sembrava che fra arabi ed ebrei si fosse aperto un conto che non si sarebbe più
potuto pareggiare», scrive Zweig prefigurando scenari apocalittici. La pace
riconquistata dopo un conflitto, infatti, è sempre precaria, in quanto ogni
guerra erode il patrimonio etico di chi vi prende parte. Un libro di somma
imparzialità, come notò Freud nella sua corrispondenza con l’autore, del quale
era amico. Pubblicato in tedesco nel 1932, prelude ai grandi e violenti
sconvolgimenti provocati dai nazionalismi e dalla follia militarista. Segnali
che Zweig coglie in pieno con lucide capacità profetiche, indizi che dovrebbero
spingerci a non ripetere oggi gli errori fatali di ieri.
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