14 novembre, Brasile: un'altra Amazzonia e un altro Mondo sono già in marcia.
Siamo a Belém, in Brasile, dove in questi giorni si tiene la COP30 e,
parallelamente, la Cúpula dos Povos, lo spazio autonomo in cui movimenti
sociali, comunità indigene, popolazioni tradizionali e periferie si incontrano
per discutere soluzioni reali e difendere i propri diritti di fronte alla crisi
climatica e sociale.
Questa mattina, 14 novembre, il popolo Munduruku del Movimento Ipereg Ayu ha
bloccato l’ingresso della Blue Zone della COP30 chiedendo un incontro urgente
con il presidente Lula. Hanno denunciato, tra le altre cose, che tre grandi
fiumi — Madeira, Tocantins e Tapajós — sono stati inclusi nel Programma
Nazionale di Privatizzazione, aprendo la strada allo sfruttamento privato
tramite concessioni e aste.
“Il nostro fiume non è un’autostrada per la soia. La nostra foresta non è in
vendita”, hanno dichiarato.
Le loro richieste sono precise: revoca del decreto 12.600/2025 (privatizzazione
fiumi), cancellazione della ferrovia Ferrogrão, stop ai progetti imposti senza
consultazione previa, demarcazione immediata dei territori e fine dei crediti di
carbonio e dei progetti REDD+ calati dall’alto.
Dopo un'ora di picchetto esterno il presidente della COP30, André Corrêa do
Lago, è uscito a parlare con loro, lasciandoli poi entrare.
Ci sembra evidente che mentre dentro si negozia seduti a tavolini che ignorano
la realtà dei territori, i popoli hanno iniziato a muoversi, in difesa della
vita e dei territori con azioni dirette e coraggiose. Un’altra Amazzonia e un
altro mondo non solo sono possibili: sono già in marcia.
Domani si terrà la Marcia Globale per il Clima. Da Belém a Roma tracciamo un
filo unico per restare uniti, per globalizzare la lotta e la speranza, per
riprenderci i nostri territori.
Chiudiamo con la forza e la potenza delle parole di Lourdes Huanca, presidente
di FEMUCARINA (Federacion Nacional de Mujeres Campesinas, Artesanas, Indigenas
Nativas, Salariadas de Perù) e leader contadina indigena del Perù.
Lourdes Huanca enuncia l’ipocrisia dei discorsi globali sul cambiamento
climatico. Sottolinea che ai popoli indigeni viene chiesto di “adattarsi” ai
danni provocati da altri, mentre loro custodiscono la Terra da generazioni
grazie ai propri saperi ancestrali, come l’uso di fertilizzanti organici e
pratiche agricole sostenibili.
Critica le negoziazioni climatiche come la COP 30, che considera piene di parole
e prive di soluzioni reali, e chiede che i governi riconoscano che i popoli
indigeni non sono una minaccia ma parte essenziale della soluzione per il futuro
del pianeta.
Racconta anche la repressione politica che colpisce chi difende la Pachamama e
le culture indigene, evidenziando la crisi in Perù e la mancanza di dialogo con
le istituzioni.
Rivendica l’intelligenza, la resistenza e la saggezza delle donne indigene,
spesso considerate “ignoranti” solo perché molte non sono andate a scuola.
Dice che la loro università è la vita, e che le loro lotte per difendere il
territorio equivalgono a una laurea o un dottorato. Contesta l’idea che siano
“poverine”: sono rese povere da decisioni ingiuste prese da degli ingrati, ma
sono ricchissime di conoscenza e cultura.