La vittoria di Milei tra astensionismo e indebitamento: note sulle elezioni argentine
Lo scorso 26 ottobre la coalizione di Milei e del macrismo hanno vinto con il
40,7 per cento dei voti le elezioni di Midterm, che rinnovano metà del Congresso
e un terzo del Senato, contro il peronismo fermo al 34,9. Si è trattato delle
elezioni con l’affluenza più bassa della storia democratica argentina: solamente
il 67,85% dell’elettorato si è recato alle urne, in un paese in cui il voto è
obbligatorio. Un mese e mezzo prima, ad inizio settembre, si erano tenute le
elezioni di midterm nella provincia di Buenos Aires, bastione storico del
peronismo (nella provincia vive un terzo dei votanti argentini): il peronismo
aveva vinto con oltre il 14% di voti in più, facendo sperare che il risultato si
sarebbe riversato anche sulle elezioni nazionali, ma questa volta ha vinto la
coalizione di governo non solo a livello nazionale, ma anche nella stessa
provincia di Buenos Aires, ottenendo con il 41,5 per cento contro il 40,8 del
peronismo (nella capitale Buenos Aires invece Milei, con la ministra Bullrich
come candidata, ha ottenuto il 50% dei voti, in calo rispetto alle precedenti
elezioni).
Pur essendo stati meno voti in assoluto, e percentuali di voti più basse,
rispetto al turno precedente, è stata una vittoria significativa per Milei, dopo
anni di tagli, austerità, impoverimento di massa, repressione e tagli a
programmi sociali e welfare. Come segnalato da questo ed altri contributi ed
analisi elettorali, su questo voto ha pesato in maniera significativa l’accordo
con Trump (che ha dichiarato di aver investito tanti soldi per l’elezione
argentina), rispetto al prestito dell’FMI, con l’annuncio del presidente Usa di
garantire la stabilità del peso sul dollaro solo in caso di vittoria elettorale
del governo (se perdeva Milei ci sarebbe quindi stata una fortissima
svalutazione, elemento che ha sicuramente avuto un peso non indifferente nelle
scelte elettorali). Milei ha festeggiato la vittoria, che gli ha garantito un
significativo aumento delle forze parlamentari a suo sostegno (passando da 43
deputati a 97, e da 7 senatori a 20): subito dopo i comizi, ha annunciato le
riforme del lavoro, delle pensioni e dell’educazione, prossimi terreni di
scontro politico nel paese.
Seppure le elezioni parlamentari argentine hanno rafforzato la maggioranza del
presidente Milei, al tempo stesso pongono una serie di interrogativi, ognuno dei
quali può spiegare una parte di un tutto che non è coerente, né necessariamente
stabile e che, in fondo, non va nemmeno considerato “un tutto”. Pubblichiamo una
riflessione post elettorale di Ariel Pennisi, ricercatore e docente argentino:
un contributo che nasce dalla discussione collettiva della Biblioteca Paolo
Virno, nata due anni fa dalla collaborazione tra Red Editorial (casa editrice
argentina, di cui l’autore è parte), e Tercero Incluido, casa editrice spagnola,
che hanno pubblicato quattro titoli di Paolo Virno (e altri due sono in
preparazione) per raccogliere in una stessa linea editoriale i contributi del
filosofo italiano in spagnolo. [nota della redazione]
Il dato più rilevante è forse l’astensionismo? Si tratta del tasso di
astensionismo più alto dal ritorno della democrazia [in Argentina il voto è
obbligatorio, ndr]. Il numero delle persone che non hanno votato, infatti,
supera quello di chi ha scelto la coalizione di governo vincente. Significa che
una parte consistente di chi vive in difficoltà preferisce non votare? Che non
considera valide le alternative proposte, o che non crede nelle elezioni e,
quindi, nelle istituzioni come strumenti per risolvere la propria condizione?
Ancora: un’astensione di questa portata indica forse che l’opposizione ha un
potenziale limitato e non riesce a imporsi come alternativa reale? C’è un punto
in cui la sfiducia del sistema democratico formale si confonde con l’assenza di
progetti politici convincenti.
> I dati sull’indebitamento di una parte della popolazione con le carte di
> credito sono durissimi. C’è chi si indebita persino per comprare cibo.
> Economie fragilissime, esposte al minimo scossone. Prevarrà la paura di un
> cambiamento troppo brusco, in un contesto di governo già indebolito?
È una situazione che ricorda, in parte, quella delle persone legate al consumo a
rate negli anni Novanta, quando la disoccupazione cresceva. Allora la
maggioranza preferì sostenere quel regime per timore di perderne i pochi
benefici, pur senza condividere troppi punti né sul piano ideologico né su
quello morale. Il rapporto della popolazione con i prodotti importati non è
omogeneo. I ceti medi ne approfittano per mantenere uno stile di vita in linea
con il proprio immaginario, mentre per i settori popolari la possibilità di
acquistare beni importati a basso costo offre spesso un’opportunità di commercio
e di reddito.
Un caso esemplare: una giovane donna del profondo conurbano [periferia del Gran
Buenos Aires, ndt] utilizza prodotti importati dalla Cina, che ottiene grazie
all’apertura indiscriminata delle importazioni, per uno dei suoi lavori, un
piccolo business di decorazione di sale per eventi che affianca al lavoro
domestico. Grazie a ciò ha smesso di recarsi nei mercati come La Salada per
acquistare materiali. Il giorno in cui, per necessità di un prodotto non
disponibile come importato, è dovuta tornare a La Salada, è stata derubata
mentre raggiungeva la fermata del bus. In altre parole, la politica di apertura
le garantiva non solo un miglioramento economico, ma anche, in parte, una
maggiore sicurezza personale. Si può definire questo un segno di consenso al
governo, o piuttosto una forma di pura sopravvivenza?
In uno scenario dominato dal breve termine e dalla mancanza di orizzonti
condivisi come Paese, società o collettività, le tendenze generali non incidono
davvero nella percezione quotidiana delle persone. Le incoerenze del piano
economico, i rischi di medio e lungo periodo raramente entrano nelle
conversazioni comuni. Nessuno cambia da un giorno all’altro e, poiché si vive
alla giornata, nessuno sembra desiderare un cambiamento. L’orizzonte stesso
scompare dal radar.
Un dettaglio, per nulla secondario: alle elezioni del 7 settembre nella
provincia di Buenos Aires [vinte dal peronismo con 14% in più della coalizione
di governo, ndr] hanno votato anche gli stranieri abilitati, circa il 3% del
totale. In quell’occasione, circa il 90% di loro votò per il peronismo,
contribuendo alla larga vittoria di Fuerza Patria. Stavolta, essendo elezioni
nazionali, non hanno potuto votare. Possiamo allora ipotizzare che quel segmento
avrebbe potuto modificare, se non l’esito generale, almeno la coloritura
politica del vincitore nella provincia di Buenos Aires?
Viviamo in una trappola? Al di là delle somiglianze ideologiche e programmatiche
tra l’attuale governo e il periodo menemista, si percepisce l’odore di una
realtà tenuta insieme con gli spilli. In questo senso, la paura che il governo
potesse cadere dopo una sconfitta elettorale può aver pesato, anche se è
difficile misurarne l’impatto.
L’intervento degli Stati Uniti è stato determinante, ma in modo diverso dal
passato. Se ai tempi di Menem si costruì una certa “mistica” attorno alle
cosiddette relazioni carnali con gli Stati Uniti, come parte di un’alleanza
modernizzatrice fondata sulla convertibilità e sull’identificazione con il
dollaro, oggi il tono è ben diverso: non un futuro promettente, né un sogno
americano da inseguire, ma un “salvataggio” annunciato con tono minaccioso, che
alimenta la paura di perdere ancora di più.
> Oltre all’intervento del Tesoro statunitense per contenere il dollaro (a
> quanto sarebbe arrivato senza quel sostegno?), il messaggio di Trump è stato
> inequivocabile: se il governo non avesse vinto, avrebbe perso ogni appoggio.
La costruzione di uno scenario di sconfitta prima delle elezioni ora ritorna
come effetto sorpresa, uno shock simbolico. Ma in realtà, al governo è andata
più o meno come al macrismo nel 2017, anzi, leggermente peggio. Solo che, al
tempo, Macri non aveva alle spalle un governo così debole come quello del Frente
de Todos e dovette, infatti, inventarsi la storia della pesada herencia
[“pesante eredità” dei governi progressisti del kirchnerismo].
L’ultimo governo di Cristina aveva lasciato punti deboli e questioni irrisolte,
ma, a guardarlo oggi, i suoi risultati di gestione erano nettamente migliori.
Ancora una volta, si conferma che ogni discesa riduce il margine di recupero per
i settori popolari e, così, anche il livello del dibattito pubblico scende. Pesa
di più l’antiperonismo reattivo o il progressismo possibilista che rinuncia a
confrontarsi e a interpellare? Infine, il ricordo del fallimento del governo del
Frente de Todos è ancora vivo. L’inflazione, le oscillazioni della pandemia, i
vizi tipici del peronismo territoriale quando detiene il potere…
> Il governo, che nel 2023 aveva suscitato aspettative, oggi non è più in grado
> di generarle: ha perso oltre quindici punti rispetto a quella tornata
> elettorale. Si potrebbe dire, ipotizzando, che questa volta, non avendo
> bisogno di creare aspettative per il futuro, gli sia bastato evocare la paura
> di tornare al passato.
E, in effetti, l’opposizione peronista si comporta come quando era al governo:
con gli stessi slogan, le stesse lotte interne e la stessa incapacità di
cogliere la trama sottile delle vite precarie. Forse, non è possibile dare un
senso unitario a ciò che è accaduto. Le diverse esperienze e le molteplici
dinamiche quotidiane non si sommano in un “tutto” coerente.
È quasi frustrante, per la nostra volontà analitica, non riuscire a comporre un
quadro chiaro, anche se questo significasse arrivare a una conclusione sgradita.
C’è qualcosa nella varietà delle ragioni minime, delle pratiche quotidiane e
delle contingenze che continua a sfuggirci. Eppure, queste condizioni non ci
esonerano dall’analisi, né rendono impossibile elaborare uno sguardo critico
(esercizio quanto mai necessario); anzi, vale la pena interrogarsi sulla
frammentazione e sulla liquidità (concetti che da quasi trent’anni ricorrono nei
saggi e nelle analisi) della società argentina, e sulla crescente segmentazione
dei comportamenti sociali.
Articolo pubblicato originariamente in spagnolo su Canal Abierto. Traduzione in
italiano a cura di Alessia Arecco per Dinamopress
Immagine di copertina di Gage Skidmore da wikimedia commons
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