Frank Miller / Il maestro è stanco
Dario il re di Persia appartiene a una casata destinata alla grandezza, alla
testa di una grande nazione guerriera che si estende a perdita d’occhio. C’è
tuttavia un osso troppo duro anche per lui, un popolo fiero e orgoglioso che dà
del filo da torcere a tutta la sua casata, dal figlio Serse al discendente suo
omonimo: i greci. I cittadini delle poleis, capitanati da generali del calibro
di Temistocle, Milziade e Leonida, si oppongono ai persiani ingaggiandoli in una
lotta che negli anni innaffia l’albero della gloria con fiumi di sangue. Ed è
proprio dalla Grecia, per la precisione dalla Macedonia, che giunge il sovrano
destinato a mettere tutti gli altri in ombra: Alessandro il Grande, le cui gesta
echeggiano nei secoli nonostante la sua vita sia terminata anzitempo in giovane
età.
Frank Miller è uno di quegli autori che, nella Storia del fumetto, segna un
prima e un dopo la sua venuta. La sua opera è letteralmente imprescindibile e,
soprattutto per quanto riguarda i comics, ha cambiato la poetica con una
profondità che non è possibile ignorare. Già la sua prima run su Daredevil, a
cavallo tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, ha avvicinato
il linguaggio dei fumetti a quello del cinema con un ciclo noir metropolitano di
un’intensità e di una classe che in pochi altri casi si erano viste e che hanno
cambiato la percezione di un personaggio, Daredevil, fino a quel momento un po’
in cerca di un’identità sua in grado di lasciare un segno, quell’identità che
sarebbe esplosa con il ciclo Born Again, un racconto titanico, febbrile e
doloroso da cui non è possibile prescindere per chi si approccia oggi alla
scrittura delle storie del diavolo rosso.
Ma è con Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro che il lavoro di Miller
raggiunge la sua espressione più alta. La storia di questo Bruce Wayne
futuribile, anziano e ferito, che ritorna in sella in una Gotham che il caos e
la ferocia non hanno mai abbandonato, è la sintesi della visione milleriana del
fumetto e della vita, un western di frontiera dal taglio anarchico di destra, in
cui un eroe solitario cala sui banditi che spadroneggiano su un villaggio
portando loro una giustizia feroce e primitiva in difesa di un ordine naturale
che precede la legge e le istituzioni, rappresentate da un Superman tenuto al
guinzaglio dal governo americano, contro cui Batman non esita a scontrarsi.
Se l’uomo pipistrello e il diavolo rosso sono stati personaggi con cui Miller si
è ripetutamente misurato dando vita a opere di qualità stellare – incredibili
Batman Anno Uno ed Elektra vive ancora – le sue opere creator owned hanno
prodotto classici altrettanto importanti: da Sin City, l’universo narrativo noir
nichilista il cui adattamento cinematografico lo ha visto debuttare alla regia,
a 300 il successo planetario in cui Frank racconta la sua versione della
battaglia delle Termopili, un’opera che reinterpreta liberamente la storia per
creare un manifesto artistico e politico che racconta la maturazione piena di un
artista e la sua presa di posizione in un mondo che di lì a poco sarebbe stato
segnato dal concetto di scontro di civiltà.
Successivamente è arrivato il declino: se All Star Batman and Robin, the boy
wonder non funzionava e DK2, seguito di Il ritorno del cavaliere oscuro,
funzionava ancora meno, Holy Terror è uno scivolone tremendo, di qualità
altalenante dal punto di vista visivo, tirato via nella scrittura a voler essere
generosi e becero nelle prese di posizione politiche, letteralmente una reazione
scomposta agli attentati dell’11 settembre 2001. Successivamente Miller ha
mitigato i toni delle proprie dichiarazioni, esagerati anche per via di una
situazione personale non sempre semplice e di una risposta dura dei fan a una
fase creativa non certo felice, ma dal declino non si è mai ripreso.
Ed è qui che Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro si
colloca nel percorso milleriano: un tentativo di exploitation del successo di
300 poco riuscito come tutte le sue ultime opere. Azzeccato nella logica – una
forma di esplorazione metafisica di un’idea molto personale dell’antica Grecia –
si percepisce in ogni pagina la stanchezza di un maestro un tempo grande. Miller
vorrebbe portare avanti l’evoluzione dell’estetica della sua epopea spartana ma
finisce per fare l’imitazione di sé stesso. Il suo tratto è l’ombra di quel che
era, ha perso il dettaglio e la plasticità delle figure, nelle scene di lotta
manca il dinamismo di un tempo e il maestoso groviglio di gioielli che fu il
Serse di 300 qui diventa una figura piatta, una macchia nera su cui si
affastellano pezzi d’oro senza un progetto estetico solido alla base.
L’essenzialità maestosa degli sfondi rocciosi ha lasciato il posto a una messa
in scena scarna e vuota. La volontà sarebbe quella di inserire una dimensione
mistica e psichedelica al racconto, ma il risultato è povero.
La scrittura, vorrebbe sfruttare le possibilità di una narrazione sincopata, non
del tutto lineare, che salta nel tempo, ma la lettura risulta sconnessa, i vari
momenti stanno poco insieme e gli stacchi di continuità sono più fastidiosi che
altro. Una logica dietro a certe scelte c’è, ed è pure ambiziosa, ma
l’esecuzione non è all’altezza. Frank Miller ha ancora la mente di un maestro ma
ha perso la mano, ha in testa una storia grande ma non ha più i mezzi per
raccontarla e questo fa male. Umanamente si perdona lo scivolone a uno che ha
formato lo sguardo di milioni di lettori di fumetti, che ha elevato il medium
intero, trasformandolo in una forma di narrazione a tratti più vitale delle
sorelle più blasonate, ma le opere, perché lo stato di un artista si valuta
anzitutto da quelle, gridano la sua stanchezza. E questo è inequivocabile:
Xerxes – la caduta della casa di Dario e l’ascesa di Alessandro è il segmento di
una striscia negativa che si spera finisca presto ma che presa da sola non
riesce a non apparire per quello che è: un tentativo di correre nella scia di un
capolavoro passato con il fiato drammaticamente corto.
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