Enshittification: il progressivo degrado delle piattaforme digitali
Immagine in evidenza: rielaborazione della copertina di Enshittification di Cory
Doctorow
Da alcuni anni conosciamo il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”: un
modello economico basato sull’estrazione, controllo e vendita dei dati personali
raccolti sulle piattaforme tecnologiche. Lo ha teorizzato Shoshana Zuboff nel
2019 in un libro necessario per comprendere come Meta, Amazon, Google, Apple e
gli altri colossi tech abbiano costruito un potere senza precedenti, capace di
influenzare non solo il mercato e i comportamenti degli utenti, ma anche,
tramite il lobbying, le azioni dei decisori pubblici di tutto il mondo.
L’idea che queste grandi piattaforme abbiano sviluppato una sorta di potere
sulle persone tramite la sorveglianza commerciale, com’è stata teorizzata da
Zuboff, è però un mito che è il momento di sfatare. Così almeno la pensa Cory
Doctorow, giornalista e scrittore canadese che negli ultimi anni ha pubblicato
due libri particolarmente illuminanti sul tema.
In “Come distruggere il capitalismo della sorveglianza”, uscito nel 2024 ed
edito da Mimesis, Doctorow spiega come molti critici abbiano ceduto a quella che
il professore del College of Liberal Arts and Human Science Lee Vinsel ha
definito “criti-hype”: l’abitudine di criticare le affermazioni degli avversari
senza prima verificarne la veridicità, contribuendo così involontariamente a
confermare la loro stessa narrazione. In questo caso, in soldoni, il mito da
contestare è proprio quello di poter “controllare” le persone per vendergli
pubblicità.
“Penso che l’ipotesi del capitalismo della sorveglianza sia profondamente
sbagliata, perché rigetta il fatto che le aziende ci controllino attraverso il
monopolio, e non attraverso la mente”, spiega Doctorow a Guerre di Rete. Il
giornalista fa l’esempio di uno dei più famosi CEO delle Big Tech, Mark
Zuckerberg: “A maggio, Zuckerberg ha rivelato agli investitori che intende
recuperare le decine di miliardi che sta spendendo nell’AI usandola per creare
pubblicità in grado di aggirare le nostre capacità critiche, e quindi convincere
chiunque ad acquistare qualsiasi cosa. Una sorta di controllo mentale basato
sull’AI e affittato agli inserzionisti”.
Effettivamente, viste le perdite che caratterizzano il settore dell’intelligenza
artificiale – e nel caso di Meta visto anche il fallimento di quel progetto
chiamato metaverso, ormai così lontano da non essere più ricordato da nessuno –
è notevole che Zuckerberg sia ancora in grado di ispirare fiducia negli
investitori. E di vendergli l’idea di essere un mago che, con cappello in testa
e bacchetta magica in mano, è in grado di ipnotizzarci tutti. “Né Rasputin [il
mistico russo, cui erano attribuito poteri persuasivi, ndr] né il progetto
MK-Ultra [un progetto della CIA per manipolare gli stati mentali negli
interrogatori, ndr] hanno mai veramente perfezionato il potere mentale, erano
dei bugiardi che mentivano a sé stessi o agli altri. O entrambe le cose”, dice
Doctorow. “D’altronde, ogni venditore di tecnologia pubblicitaria che incontri
un dirigente pubblicitario sfonda una porta aperta: gli inserzionisti vogliono
disperatamente credere che tu possa controllare la mente delle persone”.
IL CARO VECCHIO MONOPOLIO
Alla radice delle azioni predatorie delle grandi piattaforme, però, non ci
sarebbe il controllo mentale, bensì le pratiche monopolistiche, combinate con la
riduzione della qualità dei servizi per i miliardi di utenti che li usano.
Quest’ultimo è il concetto di enshittification, coniato dallo stesso Doctorow e
che dà il nome al suo saggio appena uscito negli Stati Uniti. Un processo che
vede le piattaforme digitali, che inizialmente offrono un servizio di ottimo
livello, peggiorare gradualmente per diventare, alla fine, una schifezza (la
traduzione di shit è escremento, per usare un eufemismo).
“All’inizio la piattaforma è vantaggiosa per i suoi utenti finali, ma allo
stesso tempo trova il modo di vincolarli”, spiega il giornalista facendo
l’esempio di Google, anche se il processo di cui parla si riferisce a quasi
tutte le grandi piattaforme. Il motore di ricerca ha inizialmente ridotto al
minimo la pubblicità e investito in ingegneria per offrire risultati di
altissima qualità. Poi ha iniziato a “comprarsi la strada verso il predominio”
–sostiene Doctorow – grazie ad accordi che hanno imposto la sua casella di
ricerca in ogni servizio o prodotto possibile. “In questo modo, a prescindere
dal browser, dal sistema operativo o dall’operatore telefonico utilizzato, le
persone finivano per avere sempre Google come impostazione predefinita”.
Una strategia con cui, secondo Doctorow, l’azienda di Mountain View ha acquisito
qua e là società di grandi dimensioni per assicurarsi che nessuno avesse un
motore di ricerca che non fosse il suo. Per Doctorow è la fase uno: offrire
vantaggi agli utenti, ma legandoli in modo quasi invisibile al proprio
ecosistema.
Un’idea di quale sia il passaggio successivo l’abbiamo avuta assistendo proprio
a ciò che è successo, non troppo tempo fa, al motore di ricerca stesso: “Le cose
peggiorano perché la piattaforma comincia a sfruttare gli utenti finali per
attrarre e arricchire i clienti aziendali, che per Google sono inserzionisti ed
editori web. Una porzione sempre maggiore di una pagina dei risultati del motore
di ricerca è dedicata agli annunci, contrassegnati con etichette sempre più
sottili, piccole e grigie. Così Google utilizza i suo i dati di sorveglianza
commerciale per indirizzare gli annunci”, spiega Doctorow.
Nel momento in cui anche i clienti aziendali rimangono intrappolati nella
piattaforma, come prima lo erano stati gli utenti, la loro dipendenza da Google
è talmente elevata che abbandonarla diventa un rischio esistenziale. “Si parla
molto del potere monopolistico di Google, che deriva dalla sua posizione
dominante come venditore. Penso però che sia più correttamente un monopsonio”.
Monopoli e monopsoni
“In senso stretto e tecnico, un monopolio è un mercato con un unico venditore e
un monopsonio è un mercato con un unico acquirente”, spiega nel suo libro
Doctorow. “Ma nel linguaggio colloquiale dell’economia e dell’antitrust,
monopolista e monopsonista si riferiscono ad aziende con potere di mercato,
principalmente il potere di fissare i prezzi. Formalmente, i monopolisti di oggi
sono in realtà oligopolisti e i nostri monopsonisti sono oligopsonisti (cioè
membri di un cartello che condividono il potere di mercato)”.
E ancora scrive: “Le piattaforme aspirano sia al monopolio che al monopsonio.
Dopo tutto, le piattaforme sono ”mercati bilaterali” che fungono da intermediari
tra acquirenti e venditori. Inoltre, la teoria antitrust basata sul benessere
dei consumatori è molto più tollerante nei confronti dei comportamenti
monopsonistici, in cui i costi vengono ridotti sfruttando lavoratori e
fornitori, rispetto ai comportamenti monopolistici, in cui i prezzi vengono
aumentati. In linea di massima, quando le aziende utilizzano il loro potere di
mercato per abbassare i prezzi, possono farlo senza temere ritorsioni normative.
Pertanto, le piattaforme preferiscono spremere i propri clienti commerciali e
aumentano i prezzi solo quando sono diventate davvero troppo grandi per essere
perseguite”.
Così facendo, l’evoluzione del motore di ricerca si è bloccata e il servizio ha
poi iniziato a peggiorare, sostiene l’autore. “A un certo punto, nel 2019, più
del 90% delle persone usava Google per cercare tutto. Nessun utente poteva più
diventare un nuovo utente dell’azienda e quindi non avevano più un modo facile
per crescere. Di conseguenza hanno ridotto la precisione delle risposte,
costringendo gli utenti a cercare due o più volte prima di ottenerne una
decente, raddoppiando il numero di query e di annunci”.
A rendere nota questa decisione aziendale è stata, lo scorso anno, la
pubblicazione di alcuni documenti interni durante un processo in cui Google era
imputata. Sui banchi di un tribunale della Virginia una giudice ha stabilito che
l’azienda creata da Larry Page e Sergey Brin ha abusato di alcune parti della
sua tecnologia pubblicitaria per dominare il mercato degli annunci, una delle
sue principali fonti di guadagno (nel 2024, più di 30 miliardi di dollari a
livello mondiale).
“E così arriviamo al Google incasinato di oggi, dove ogni query restituisce un
cumulo di spazzatura di intelligenza artificiale, cinque risultati a pagamento
taggati con la parola ‘ad’ (pubblicità) in un carattere minuscolo e grigio su
sfondo bianco. Che a loro volta sono link di spam che rimandano ad altra
spazzatura SEO”, aggiunge Doctorow facendo riferimento a quei contenuti creati a
misura di motore di ricerca e privi in realtà di qualunque valore informativo.
Eppure, nonostante tutte queste criticità, continuiamo a usare un motore di
ricerca del genere perché siamo intrappolati nei suoi meccanismi.
Il quadro non è dei migliori. “Una montagna di shit”, le cui radici – afferma
lo studioso – vanno cercate nella distruzione di quei meccanismi di disciplina
che una volta esistevano nel capitalismo. Ma quali sarebbero questi lacci che
tenevano a bada le grandi aziende? La concorrenza di mercato – ormai eliminata
dalle politiche che negli ultimi 40 anni hanno favorito i monopoli; una
regolamentazione efficace – mentre oggi ci ritroviamo con leggi e norme
inadeguate o dannose, come ad esempio la restrizione dei meccanismi di
interoperabilità indotta dall’introduzione di leggi sul copyright; e infine il
potere dei lavoratori – anche questo in caduta libera a seguito dell’ondata di
licenziamenti nel settore tecnologico.
La “enshittification“, secondo Doctorow, è un destino che dovevamo veder
arrivare, soprattutto perché giunge a valle di scelte politiche precise: “Non
sono le scelte di consumo, ma quelle politiche a creare mostri come i CEO delle
Big Tech, in grado di distruggere le nostre vite online perché portatori di
pratiche commerciali predatorie, ingannevoli, sleali”.
Non basta insomma odiare i giocatori e il gioco, bisogna anche ricordare che
degli arbitri disonesti hanno truccato la partita, convincendo i governi di
tutto il mondo ad abbracciare specifiche politiche.
Quando si parla di tecnologia e delle sue implicazioni a breve, medio e lungo
periodo è difficile abbracciare una visione possibilista e positiva. Un po’ come
succede per le lotte per la giustizia sociale e per il clima: il muro che ci si
ritrova davanti sembra invalicabile. Una grossa difficoltà che, secondo
Doctorow, è data dalla presenza di monopoli e monopsoni.
Ma la reazione alle attuali crisi politiche globali mostra che un cambiamento è
possibile. “Negli ultimi anni c’è stata un’azione di regolamentazione della
tecnologia superiore a quella dei 40 anni precedenti”, spiega Doctorow. Non
solo: la seconda elezione di Donald Trump si starebbe rivelando una benedizione
sotto mentite spoglie, sia per il clima sia per il digitale. “Ha acceso un fuoco
sotto i leader di altri Paesi ex alleati, stimolando grandi e ambiziosi
programmi per sfuggire al monopolio statunitense. Pensiamo ai dazi sui pannelli
solari cinesi imposti da Trump nella prima amministrazione, per esempio. Una
misura che ha spinto i produttori di Pechino a inondare i paesi del Sud del
mondo con i loro pannelli economici, a tal punto che intere regioni si sono
convertite all’energia solare”, afferma Doctorow, che considera questa strada
percorribile anche per ottenere una tecnologia più libera.
PER NON VEDERE TUTTO NERO
Sfuggire alle Big Tech americane non dovrebbe significare semplicemente
rifugiarsi in un servizio alternativo (mail, cloud, social media, ecc.), anche
perché il processo non è così semplice. “Non si copia e incolla la vita delle
persone: le email, i file, i documenti custoditi nei cloud di Microsoft, Apple o
Google. Nessun ministero, azienda o individuo lo farà”. Motivo per cui, secondo
Doctorow, Eurostack è una possibile alternativa, ma che ha ancora tanta strada
da fare.
Eurostack è un’iniziativa europea nata recentemente in risposta all’esigenza di
costruire una sovranità digitale del Vecchio continente, indipendente dalle
aziende tecnologiche straniere (specialmente USA). Coinvolge attivisti digitali,
comunità open source, istituzioni europee e alcuni politici. “L’Ue potrebbe
ordinare alle grandi aziende tech statunitensi di creare strumenti di
esportazione, così che gli europei possano trasferire facilmente i propri dati
in Eurostack, ma possiamo già immaginare come andrà a finire. Quando l’Ue ha
approvato il Digital Markets Act, Apple ha minacciato di smettere di vendere
iPhone in Europa, e ha presentato 18 ricorsi legali”, ricorda Doctorow.
Se la risposta di un’azienda statunitense all’introduzione di una direttiva
europea è questa, la soluzione allora non può essere che radicale. “L’unica via
possibile è abrogare l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore: l’Ue
dovrebbe rendere legale il reverse engineering di siti web e app statunitensi in
modo che gli europei possano estrarre i propri dati e trasferirli in Eurostack.
Un modello aperto, sovrano, rispettoso della privacy, dei diritti dei lavoratori
e dei consumatori”.
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