Paolo Scardanelli / Sotto il Vulcano
Con Belletti e Romeo, Paolo Scardanelli firma un nuovo, intenso capitolo della
saga del commissario Belletti, spingendosi, al suo solito, oltre i confini del
noir per entrare nel territorio in cui la prosa incontra la poesia, e l’indagine
diventa strumento di conoscenza.
Siamo a metà degli anni Ottanta, in un’Italia ancora attraversata dalle ultime
scosse della lotta armata, quando la storia collettiva e le ferite personali si
mescolano in un magma incandescente. È allora che una coppia di escursionisti
trova il corpo di Wolfgang von Rheingold, un quarantenne tedesco, con la gola
squarciata. Accanto a lui, un libro intriso di sangue: La morte di Empedocle di
Hölderlin. E il cane della vittima, uno splendido esemplare di cirneco dell’Etna
– chiamato poi Romeo – accucciato, vigile, custode silenzioso del delitto. Ma
l’omicidio misterioso avvenuto sulle pendici dell’Etna — “a Muntagna”, come la
chiamano i catanesi — è solo il punto di partenza di una discesa vertiginosa
nelle zone più oscure del desiderio e della colpa, e di un viaggio a ritroso nel
tempo, dove sono nati i germi degli ideali infranti e della violenza.
La trama corre infatti su binari che scandiscono un doppio tempo: quello della
contemporaneità scolpita nel sud siciliano e quello del passato che ritorna – in
Germania – con la sua carica di rimorsi e ideologie smarrite. Belletti si trova
a fronteggiare non solo il crimine, ma la vendetta che si traveste da giustizia,
l’amore che può mutarsi in ossessione, la lealtà che implode. Accanto a lui,
Romeo: il cane dell’uomo assassinato, che sceglie Belletti come padrone. Non un
semplice animale da trama, ma un testimone silenzioso, un tramite tra il vivo e
il morto, tra la colpa e l’espiazione. Romeo – elegante, potente, incline alla
fiducia che nasce dal dolore – diventa specchio del commissario: entrambi soli,
entrambi in cammino. In Belletti il cane risveglia una forma d’affetto e
responsabilità che sfuma i confini tra uomo e bestia, tra giudice e vittima. È
un rapporto che rende il romanzo più vasto, più umano, più vulnerabile.
Belletti si muove tra Catania e Amburgo, due città che Scardanelli trasforma in
veri e propri luoghi simbolici dell’anima. Catania, terra di fuoco, di sudore e
di passioni, è il regno del sentimento, della memoria e del corpo; Amburgo,
fredda e lucida, diventa la controparte razionale, la sede della mente e della
legge. Tra questi poli, Belletti — e con lui il lettore — oscilla come un
pendolo che cerca equilibrio tra l’istinto e la norma, tra l’amore e la
vendetta.
Il vulcano, presenza costante e mitologica, non è solo scenario ma principio
cosmico. L’Etna è il fuoco originario, la vita che si genera e distrugge, la
voce arcaica che rimbomba sotto ogni gesto umano. Scardanelli ne fa una metafora
potente del tempo e della storia, della passione che arde e consuma. Ogni
eruzione è un ricordo che torna, un dolore che cerca la sua forma.
Lo stile di Scardanelli rimane inconfondibile: denso, sensuale, intriso di
odori, sapori, materie vive. Le parole sembrano impastate di pietra lavica e
vento del Nord, capaci di restituire tanto la ruvidezza di un vicolo catanese
quanto la geometria severa dei moli amburghesi. Se rispetto ai precedenti
romanzi la componente musicale si fa un po’ meno esplicita, il ritmo resta
calibrato con la stessa maestria: sincopato, quasi respirato, come una lunga
ballata che alterna il passo lento della riflessione al colpo secco dell’azione.
Ma Belletti e Romeo è anche — e forse soprattutto — una storia d’amore e di
perdita, in cui la giustizia non è mai pura e il confine tra legge e
trasgressione si fa sottile come il fumo che sale dal cratere. In fondo,
Belletti non indaga solo sull’assassinio di un uomo, ma sul mistero stesso del
vivere, su quel punto in cui la passione diventa colpa e la colpa chiede
redenzione. Scardanelli riesce, ancora una volta, a trasformare il noir in
poesia civile, e la poesia in una forma di verità. Belletti e Romeo è un romanzo
che brucia piano, come la lava sotto la crosta, e lascia nel lettore il segno di
una luce calda e pericolosa. Perché, come cantavano i Clash, “I fought the law,
and the law won”.
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