Enrico Pieranunzi / “Un riservato poeta della tastiera”: Enrico Pieranunzi narra Bill Evans
V’è sempre un particolare fascino nei libri di musicisti che analizzano l’opera
di altri musicisti. A cominciare dal suggestivo titolo joyciano, espressione
della poliedrica cultura dell’autore, è certo tale il caso di Bill Evans.
Ritratto d’artista con pianoforte, di Enrico Pieranunzi, pubblicato da Il
Saggiatore. Dedicato al proprio padre Alvaro, “alla sua chitarra”, il volume è
mirabilmente introdotto da Carlo Serra, docente di Estetica, Teoria del suono e
della musica, il quale coglie i nuclei di questa “storia di un apprendistato che
sa più di destino che di sviluppo”, dove la figura protagonista accoglie, “come
uno schermo”, quanto l’autore cerca di se stesso. Terreno scivoloso, questo dei
transfert psichici ed estetici, in cui tuttavia balena una qualche verità.
Per evitare fraintendimenti, partiamo dalla “Nota dell’autore”, un racconto nel
racconto pieno di notizie e di “destino” che illumina il percorso su cui
Pieranunzi ha strutturato la propria monografia, accettando, oltre trenta anni
fa, “dopo un periodo di travagliate e amletiche riflessioni”, la proposta del
responsabile di “Jazz People”, collana di tascabili pubblicata da Stampa
Alternativa che proponeva biografie di grandi jazzisti scritte da musicisti. Il
pianista romano affrontò dunque la sfida, per lui rischiosa, poiché, stanco
dell’etichetta di “evansiano”, stava allora elaborando una “complicata
separazione dall’influenza più diretta” del musicista di Plainfield sul suo modo
di suonare. Ebbene, la chiave di lettura da lui scelta per narrare la vita e
l’arte di Evans è “il rapporto creatività-distruzione”, tema psicanalitico e
letterario per eccellenza, indirettamente suggeritogli da Chet Baker, che gli
aveva rivelato i problemi avuti da Evans per l’uso di stupefacenti: “Pensai a un
doppio filo biografico. Una linea avrebbe seguito Evans nel suo percorso
esistenziale, dall’infanzia alla maturità, e un’altra, parallela, avrebbe
ripercorso il suo cammino artistico dalle primissime incisioni fino alle
ultime”.
I diciotto capitoli, corredati da foto, ripercorrono le registrazioni
fondamentali con appunto il lucido “interplay” – concetto fondamentale nel
lessico musicale e in particolare nell’attività di Evans, come il “voicing”,
cioè l’armonizzazione delle melodie – tra vicende biografiche e artistiche.
Preziosa la sezione “Featuring”, con i contributi del contrabbassista Marc
Johnson e del batterista Paul Motian, in tempi diversi pilastri delle storiche
formazioni in trio guidate da Evans – con i quali, in una sorta di ideale
passaggio del testimone, lo stesso Pieranunzi ha suonato e inciso –, cui seguono
l’indicazione delle fonti e gli Ascolti, dove vengono puntualmente annotate le
registrazioni del grande pianista come sideman, in trio, in piano solo e quale
leader di gruppi altri dal trio.
Detto della struttura, bisognerà spendere più d’una parola sulla profondità di
analisi di cui l’autore dà prova. Lucidissima quella musicale: veniamo guidati
all’ascolto dei brani più rappresentativi del “Maestro”, intesi come una sorta
di “autobiografismo dissimulato”, i cui titoli sono “tracce allusive del suo
stato d’animo”, e interpolati con il vissuto: i rapporti familiari – essenziale
la figura del fratello Harry, che gli rivelò l’universo del jazz –; gli studi al
Southern Louisiana College; la composizione di “Very Early”, pezzo “in largo
anticipo sui tempi”, “primo e succoso frutto di un talento compositivo e
personalissimo”; il “duro, sgradevole” periodo della vita militare (ben tre
anni) e i primi ingaggi, all’alba degli anni Cinquanta; il trasferimento a New
York a metà decennio e la frequentazione dei corsi di composizione alla Mannes
School of Music; la registrazione del primo disco a suo nome (New Jazz
Conceptions) e gli incontri artistici determinanti, tra i quali certo spicca
quello con Miles Davis che, per ingaggiare il pianista “bianco” nei concerti e
per l’incisione del leggendario Kind of Blue, superò critiche anche violente da
parte della comunità afroamericana, in cui grandi esecutori non mancavano certo.
La collaborazione con Davis segna l’inizio di uno dei più intensi periodi della
vicenda evansiana, in cui si rivela in tutta la sua pregnanza la storia del jazz
moderno, ricostruito per sapidi accenni e assoluta competenza. Ecco dunque la
composizione dello straordinario trio con Paul Motian e Scott La Faro,
“l’avventura musicale più importante della sua vita artistica”, che ha prodotto
“un allargamento degli orizzonti musicali” lasciandoci memorabili incisioni e
altrettanto memorabili performance dal vivo per chi ebbe la ventura di
assistervi; il secondo trio, con Chuck Israel in luogo dello sfortunato La Faro
prematuramente scomparso, cui Pieranunzi dedica penetranti osservazioni;
l’importante incontro con l’illuminata manager Helen Keane; le sovraincisioni di
Conversations with Myself, che valse a Evans il primo dei sette Grammy Award; lo
sbarco in Europa a metà anni Sessanta, dove il pianista dimostra il suo
“sterminato vocabolario armonico”, una “impressionante immedesimazione tra sé e
il suo strumento”; il terzo trio, con Eddie Gomez al contrabbasso e Marty Morell
alla batteria; la collaborazione con la major Columbia e una fase di involuzione
artistica, anche dovuta al reiterato uso di stupefacenti; il radicale
cambiamento di stile avvenuto agli inizi degli anni Settanta e un certo
“processo di slittamento verso il disimpegno”; il notevole album You Must
Believe in Spring, con “le prime tracce dell’inquietante percorso che il destino
comincia a disegnare intorno a Evans”; il nuovo, prolifico trio con Marc Johnson
e Joe La Barbera; il suicidio del fratello Harry e della ex compagna, eventi che
diedero “campo libero alle energie distruttive” del pianista. Sono pagine,
queste ultime, di una lectio magistralis in cui la musica travalica nella vita,
con l’analisi della struggente versione di “Nardis” presente in The Paris
Concert Edition Two, che “condusse il pubblico per mano attraverso luoghi
sconosciuti e bellissimi, dove non era mai stato prima”, sino all’emorragia che
il 15 settembre 1980 portò alla morte, ad appena 51 anni, questo “riservato
poeta della tastiera”.
Il contrappunto tra piano musicale e piano psicologico è dunque l’elemento più
originale del testo, uno sforzo euristico caratterizzato da profonda
partecipazione emotiva, che rende questo saggio un’autentica perla. Sono
notazioni scritte con prosa elegante e scorrevole, monda di quei tecnicismi che
talvolta rendono ostica la lettura, dove si sintetizzano con chiarezza
espositiva le peculiarità compositive ed espressive di Evans, il suo ricco
bagaglio musicale che affonda nel repertorio classico, mettendone a fuoco il
ruolo centrale avuto nello sviluppo del linguaggio pianistico nel jazz, dagli
aspetti armonici a quelli melodico-formali, timbrici, estetici e storici. C’è
davvero tanto da apprendere, così da riascoltare quelle incisioni con ben altra
consapevolezza.
Ma è soprattutto ammirevole l’acume con cui l’autore coglie le radici profonde
della personalità di Evans, l’empatia che gli permette di portare alla luce i
nodi irrisolti di quell’uomo “dall’intelligenza acuta e dall’umorismo sottile e
penetrante”, pervaso da “un inestinguibile disagio esistenziale”, un radicato
istinto di morte, una “fragilità che viene dal non sentirsi veramente amati”,
elementi che dalla vita percolarono nella sua arte.
Pieranunzi appare insomma in perfetta sintonia con il contenuto emozionale della
musica di Evans. Un’immedesimazione tale che, senza addentrarci in paragoni
tecnico-stilistici, non è forse temerario riportare ad alcune similitudini tra i
due: entrambi artisti esigenti e autocritici, inclini all’understatement e con
un carattere antiesibizionistico, tesi verso la ricerca di quel quid – musicale,
esistenziale – che si trova “nella zona del silenzio, del non detto” (come è
percepibile, in Evans, in brani quali “How Deep is the Ocean” e “Spring is
Here”), artefici di sonorità che alludono a una realtà inconscia, profonda, di
difficile navigazione, dove la solitudine è disagevole compagna.
L’incontro a distanza tra i due grandi pianisti è quindi tra i più riusciti, e
non è cosa ovvia. L’intima adesione al soggetto di indagine, la sua comprensione
profonda, spirituale – diremmo – ed esistenziale prima ancora che artistica e
culturale, rende smaglianti queste pagine, dalla cui lettura si emerge
arricchiti non soltanto sul piano musicale.
Per l’occasione abbiamo intervistato Enrico Pieranunzi.
Com’è cambiato negli anni il tuo rapporto, da musicista e da ascoltatore, con la
musica di Bill Evans?
Per sintetizzare direi che sono passato dal dubbio con irritazione (intorno ai
vent’anni – e per un po’ dopo – non amavo la sua musica, preferivo i pianisti
bop e/o hard bop) all’amore con passione (il turning point fu l’incontro con
Chet Baker che mi accompagnò con dolcezza verso la melodia) fino all’attuale
commossa ammirazione con immenso affetto.
Cosa ti spinse a lanciarti in un corpo a corpo con la vicenda esistenziale,
oltre che artistica, di Evans, per scavare così a fondo nella sua sostanza più
intima?
In parte, probabilmente la mia stessa situazione esistenziale che pur senza
raggiungere la drammaticità della vicenda esistenziale di Evans era stata molto
complicata negli anni precedenti la scrittura del libro. Indagare a fondo la
vicenda di Evans poteva aiutarmi a comprendere la mia, pur con tutte le
differenze. Al centro c’è comunque la solitudine, che in presenza del successo o
del consenso sembrerebbe un paradosso. Ma la solitudine resta, anche col
successo e il consenso. È il male oscuro che ti invade quando hai a che fare col
mistero della musica, soprattutto se lo fai mettendoti completamente in gioco e
magari perdendoti, per farlo, altri pezzi importanti dell’esistere. E poi tutta
la musica di Evans racconta, in ogni suono, e rappresenta in maniera più
efficace di qualsiasi discorso, quel connubio creatività-autodistruzione che
sembra essere una costante di molti grandi artisti di tutte le arti e di tutte
le epoche.
Quali insegnamenti può trarre dal pianista di Plainfield un giovane che si
affacci al complicato mondo del jazz?
C’è in Evans una parte molto ampia, “tecnica”, che può e deve secondo me essere
conosciuta da tutti i pianisti. In particolare, il voicing, vale a dire il modo
di armonizzare le melodie. Evans ragionava al piano da
“arrangiatore-orchestratore” e dava ai suoi percorsi armonici un senso
espressivo e narrativo che nessuno aveva mai mostrato nel jazz prima di lui. Il
suo tocco pianistico intriso di tradizione europea lo rendeva diverso da tutti
gli altri pianisti a lui contemporanei. Davis se ne accorse più di tutti gli
altri e aveva ragione. Poi c’è la parte inafferrabile, quella più squisitamente
artistica. Quella la si può solo amare e usare come linea-guida estetico-etica.
Nel senso di mettere la musica, la ricerca, l’onestà nel perseguire il miglior
risultato musicale possibile sempre e dovunque al centro della propria vita di
musicista.
L'articolo Enrico Pieranunzi / “Un riservato poeta della tastiera”: Enrico
Pieranunzi narra Bill Evans proviene da Pulp Magazine.