Un mese di proteste, repressione di Noboa in Ecuador: ora la sfida del referendum
«L’Ecuador è un Paese bellissimo, ma purtroppo da alcuni anni è diventato
pericoloso». Sono parole che ormai si ascoltano spesso, conversando con gli
ecuadoriani. Non riconoscono più la propria casa. La notizia di un omicidio, che
fino a qualche anno fa avrebbe fatto parlare per settimane, passa ormai in
sordina. Un tempo considerato uno dei Paesi più tranquilli dell’America Latina,
l’Ecuador è ora noto come uno dei luoghi con un tasso di mortalità tra i più
elevati al mondo. L’attuale crisi della sicurezza ha radici profonde, tra cui la
forte presenza del narcotraffico, una gestione politica discontinua e un
progressivo smantellamento dello stato sociale per mano degli ultimi governi, di
stampo principalmente neoliberista.
FINCHÉ IL VASO NON TRABOCCA
La situazione è complessa già da tempo, ma nell’ultimo mese è esplosa in seguito
alla decisione del Presidente Daniel Noboa, annunciata il 12 settembre, di
eliminare il sussidio statale sul gasolio, determinando un’impennata del prezzo
da 1,80 a 2,80 dollari per gallone (3,78 litri). La misura, che rientra nella
strategia governativa volta ad abbassare il deficit statale e a raggiungere gli
obiettivi fissati dal Fondo Monetario Internazionale, colpisce duramente le
fasce piú vulnerabili della popolazione. Tra queste, i campesinos e le comunità
indigene che svolgono lavori principalmente agricoli e di trasporto, fortemente
legati all’uso del carburante.
L’intervento sul diesel è l’ultimo di una serie di episodi che ha fatto detonare
il profondo malcontento popolare, dovuto alla lunga crisi in cui versa il Paese
e alle politiche sempre più autoritarie e neoliberiste di Noboa. Il suo mandato,
iniziato nel novembre del 2023, ha visto un aumento della militarizzazione e
dell’utilizzo di pratiche lesive dei diritti umani, accompagnate, negli ultimi
mesi, da una massiccia riduzione degli apparati statali con un drastico taglio
alle risorse pubbliche in tema di ambiente, genere, diritti umani e cultura.
di Ronald Reascos
SCOPPIA IL MALCONTENTO
Dopo l’annuncio sul diesel sono iniziate le proteste, soprattutto nel Nord del
Paese. Il Presidente risponde da un lato promettendo la distribuzione di bonus e
sussidi e, dall’altro, dichiarando un nuovo stato d’emergenza in diverse
province.
Il 18 settembre, Marlon Vargas, Presidente della CONAIE (Confederación de
Nacionalidades Indígenas de Ecuador), principale organizzazione indigena del
Paese e protagonista delle grandi sollevazioni popolari degli ultimi decenni,
proclama uno sciopero (paro) «immediato e indefinito» in tutto il territorio
nazionale. Denuncia, tra le altre cose: l’iniquità del provvedimento sul diesel,
la crisi della sanità e dell’istruzione, il modello estrattivista promosso dal
Governo, la mancanza di risorse e di un piano efficace per la sicurezza.
Il giorno seguente, Noboa indice un referendum per l’istituzione di un’Assemblea
Costituente incaricata di redigere una nuova carta costituzionale. È importante
rimarcare che il Paese vanta una delle Costituzioni più avanzate al mondo in
termini ambientali e di pluralismo, identificando la natura (Pachamama) come
soggetto di diritto e riconoscendo i diritti collettivi delle diverse
nazionalità e popoli che abitano l’Ecuador, «Stato plurinazionale e
interculturale». Un quadro giuridico all’avanguardia che si scontra spesso con
un’applicazione insufficiente e che è stato messo in pericolo dalle ultime
decisioni del Governo, all’interno di un processo corrosivo dello stato di
diritto e della separazione dei poteri.
Dopo l’appello della CONAIE, a partire dal 22 settembre, diversi settori e
comunità, prevalentemente indigene, iniziano a riempire le strade e a bloccare
importanti vie di comunicazione, soprattutto al Nord. Mentre la protesta si
propaga e si moltiplicano i focolai del dissenso, si intensifica anche il
conflitto con le forze dell’ordine, inviate in massa dal Governo a sedare i
disordini. Si diffondono testimonianze sull’uso spropositato della forza da
parte di polizia e militari e si parla di una escalation di violenza contro i
manifestanti, principalmente campesinos e indigeni. Molte persone vengono
fermate, schedate e arrestate – spesso senza un giusto processo – e cresce
rapidamente il numero dei feriti.
di Ronald Reascos
¡SOMOS PUEBLO, NO SOMOS TERRORISTAS!
Contemporaneamente all’inasprimento della repressione, si assiste a una
preoccupante evoluzione nella comunicazione del Governo, che promuove la
criminalizzazione del dissenso, dipingendo i manifestanti come terroristi e
minacciando con pene fino a 30 anni di reclusione chi prende parte al paro. Il
28 settembre viene annunciata la prima vittima: Efraín Fuerez, comunero indigeno
kichwa di 46 anni, raggiunto da proiettili militari durante gli scontri in
Imbabura, come indicano varie fonti. Viene diffuso un video in cui si vedono
diversi militari aggredire l’uomo esanime in terra e la persona che si era
fermata a soccorrerlo. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite
denunciano l’uso spropositato della violenza da parte delle forze governative e
sollecitano un apertura al dialogo tra le due parti.
Al contrario, la violenza aumenta sempre di più. Nella notte del 27 settembre,
il Presidente invia un convoglio, definito “umanitario”, verso la provincia di
Imbabura. I manifestanti, in segno di dissenso, tentano di respingere il convoy,
formato da 140 veicoli militari, lanciando alcune pietre. All’interno del
convoglio, al fianco di Noboa, rappresentanti politici, diplomatici e della
cooperazione, tra cui l’ambasciatore italiano Giovanni Davoli, che denuncia
l’attacco da parte dei dimostranti, definendo il fatto come un “atto di
terrorismo”, aderendo alla narrazione criminalizzante dell’esecutivo. Media
indipendenti denunciano la presenza di grandi quantità di materiale militare
all’interno del convoglio.
di Ronald Reascos
Nelle settimane successive, la situazione si fa sempre più critica: le proteste
si moltiplicano in altre province del Paese e le forze dell’ordine inaspriscono
la stretta sui manifestanti. Aumentano i report di violazioni dei diritti umani:
repressioni violente, proiettili e lacrimogeni ad altezza d’uomo, arresti
arbitrari e attacchi alla stampa e ai media indipendenti. Un caso esemplare è
l’espulsione con l’accusa di «attentare alla sicurezza nazionale» del
giornalista spagnolo Bernat Lautaro (Peloguefo), che stava documentando le
proteste. Vengono riportati inoltre meccanismi di persecuzione e censura,
procedimenti penali abusivi e il congelamento dei conti bancari a diverse
organizzazioni e leader sociali. La INREDH (Fundación Regional de Asesoría en
Derechos Humanos) denuncia incursioni militari all’interno di alcuni ospedali
per detenere i feriti durante le manifestazioni e impedire al personale
sanitario di assisterli.
Il 14 ottobre viene inviato il secondo convoglio“umanitario”verso la provincia
di Imbabura, con l’intento dichiarato di portare cibo, medicine e beni di
necessità ai territori interessati dallo sciopero. Si genera da subito
conflitto, con le forze dell’ordine che tentano di disperdere i dimostranti per
riaprire le vie di comunicazione. Come denunciato da varie fonti, la giornata si
trasforma in un’operazione repressiva condotta dalle forze dell’ordine. Viene
uccisa la seconda vittima, Josè Alberto Guaman Izama, 30 anni, colpito al petto
da un proiettile, morirà il giorno seguente. Sessanta persone vengono detenute
arbitrariamente, più di cinquanta vengono ferite, anche gravemente, a causa di
armi da fuoco e gas lacrimogeni. Tra queste, il giornalista Edison Muenala,
colpito alla spalla da un proiettile. Il giorno stesso, perde la vita Rosa Elena
Paqui, donna kichwa di 61 anni, morta per un arresto cardiorespiratorio causato
dall’inalazione di gas lacrimogeno usato dalle forze militari per sedare le
proteste nel sud del Paese.
di Ronald Reascos
IL DIALOGO IMPOSSIBILE
A metà ottobre, a più di un mese dall’abolizione del sussidio al gasolio, si
avvia il primo tentativo di dialogo tra alcuni dirigenti indigeni e il Governo,
che però non porta a risultati concreti, in quanto gli accordi raggiunti non
vengono riconosciuti dalle basi del movimento. Le organizzazioni esprimono le
proprie condizioni per continuare con il dialogo: giustizia e risarcimenti per
le persone detenute e ferite e per i familiari dei defunti, la fine della
militarizzazione di Imbabura, un accordo sul diesel e l’annullamento del
referendum di novembre. L’esecutivo oppone il suo netto rifiuto a tali
richieste, sospendendo le trattative. Le due parti si scambiano accuse di
indisponibilità al dialogo, mentre diversi settori della popolazione chiedono la
fine dello stato di agitazione, che provoca disagio e danni all’economia del
Paese.
Dopo la dichiarazione del Governo di voler liberare definitivamente il
territorio di Imbabura e porre fine alle proteste, il 22 ottobre Vargas annuncia
la sospensione del paro, definendola una decisione difficile ma necessaria in
“difesa della vita”, e invitando il movimento indigeno a continuare ad
organizzare la resistenza attraverso l’assemblea permanente. Il bilancio, dopo
un mese di mobilitazioni e repressione, ammonta a 3 morti e diverse centinaia di
feriti e di detenuti.
Nelle ore successive alla dichiarazione, alcuni settori indigeni manifestano il
proprio dissenso con le dichiarazioni e la leadership di Vargas, continuando con
le mobilitazioni.
di Ronald Reascos
OLTRE IL PARO, VERSO IL REFERENDUM
Nonostante i segni di divisione all’interno del movimento indigeno, su una cosa
vi è unità indiscussa: il no al referendum voluto da Noboa. Dopo più di 30
giorni di paro, la partita si è infatti spostata su un altro piano, quello della
difesa della Costituzione del 2008.
Il 16 novembre sarà un giorno cruciale per il futuro del popolo ecuadoriano: si
voterà per la convocazione di un’assemblea costituente, incaricata, in caso di
vittoria del sì, di redigere una nuova carta. Il timore delle organizzazioni
indigene e delle realtà sociali e ambientali è che la revisione della
Costituzione metta profondamente a rischio non solo l’immensa biodiversità e la
conservazione delle risorse naturali, ma anche uno dei fondamenti dello stato
ecuadoriano: la plurinazionalità e la sovranità dei popoli e nazionalità che
compongono il Paese.
Anche gli altri tre punti del referendum vanno a toccare questioni critiche,
sulle quali vi è spesso disinformazione: la reintroduzione della presenza di
basi militari straniere sul territorio nazionale; la drastica riduzione del
numero di parlamentari (che potrebbe favorire il “monopolio” di un solo partito
sull’Assemblea); l’abrogazione dei finanziamenti statali ai partiti politici
(permettendo i soli finanziamenti privati e favorendo gli interessi di famiglie
abbienti).
C’è un fil rouge che connette le politiche neoliberiste che hanno sin da subito
caratterizzato il Governo di Noboa, la gestione autoritaria e violenta del
dissenso e la campagna mediatica criminalizzante e razzializzante verso la
popolazione indigena, la prima a essere colpita dalla revisione della
Costituzione. Al di là delle questioni di sicurezza interna, ciò che ora è in
gioco è una radicale riscrittura del sistema politico e sociale che regge il
Paese, che mette a rischio un progetto costituzionale d’avanguardia, frutto di
lunghe lotte indigene e ambientaliste.
Immagine di copertina e nell’articolo di Ronald Reascos, che ringraziamo per la
gentile concessione.
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps
Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per
sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le
redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno
L'articolo Un mese di proteste, repressione di Noboa in Ecuador: ora la sfida
del referendum proviene da DINAMOpress.