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MESSICO E MONDIALI DI CALCIO 2026: “NON C’E’ GIOCO PULITO IN UNA TERRA DERUBATA”
Venerdì 5 dicembre il John F. Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, Usa, ospita i sorteggi per i Mondiali di Calcio 2026, in calendario tra Canada, Usa e Messico. Alla cerimonia ha annunciato la propria presenza il presidente Usa, Donald Trump, nuovo sodale globale di Gianni Infantino e della multinazionale del pallone (ma, soprattutto, degli affari), cioè la Fifa. Una liason che, proprio venerdì, potrebbe vedere Infantino premiare il tycoon, con un premio inventato di sana pianta sul momento, il cosiddetto “Premio per la pace”. Si tratta del “FIFA Peace Award: Football Unites the World”, annunciato da Infantino senza alcun preavviso al Consiglio FIFA:  molti delegati avrebbero appreso dell’esistenza del premio…direttamente dal comunicato stampa. Nel frattempo, lo stesso Trump ha già ribadito che vieterà l’ingresso negli States ai tifosi di quei Paesi – in primis, Haiti – che considera “indesiderati”, nell’ambito della guerra contro i migranti in corso dentro i confini Usa. Non solo: lo stesso tycoon sta provando a convincere la Fifa – pare senza risultati, al momento – a escludere il Messico dai Mondiali stessi, con la scusa dei rischi di sicurezza per squadre e tifosi. Il tutto mentre a Città del Messico gli interventi infrastrutturali già in corso verso l’estate 2026 stanno provocando crisi idriche, impennate degli affiti e la cacciata delle classi popolari dalle zone più “appetibili” per turisti occidentali, gentrificazione e speculazione immobiliare. Su quest’aspetto, Radio Onda d’Urto ha raggiunto Andrea Cegna, curatore della newsletter sul Latino America “Il Finestrino”, oltre che nostro collaboratore. Ascolta o scarica
UCRAINA: “SEGUIRE IL DENARO, LA VERA POSTA IN GIOCO”. IL COMMENTO DI EMILIANO BRANCACCIO
La Russia apre a negoziati di pace con l’Ucraina. Secondo Mosca “è in corso un processo serio per trovare una soluzione negoziata al conflitto e molti cercheranno di farlo fallire”. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Peskov commentando le trattative in corso a partire dal piano presentato la scorsa settimana dall’amministrazione Usa e modificato dagli emissari di Washington insieme al governo ucraino e a rappresentanti dell’Ue. Il presidente ucraino Zelesnky, però, non si fida e – dopo una telefonata con la presidente della Commissione Ue von der Leyen – chiede agli alleati del Vecchio continente di continuare a esercitare pressione sulla Russia. “Nessun territorio occupato sarà mai riconosciuto come russo”, afferma il Parlamento europeo nella relazione sul piano Usa approvata la mattina di giovedì 27 novembre 2025 a Strasburgo. La relazione riconosce gli sforzi negoziali degli Usa, ma critica “l’ambivalenza di Washington”, ritenuta “dannosa ai fini di una pace duratura”. Negli Stati Uniti d’America intanto è bufera sull’inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff: sono trapelate le parole che avrebbe pronunciato durante una telefonata con il mediatore russo Ushakov. Nel dialogo Witkoff suggerisce ai russi il modo in cui Putin avrebbe dovuto presentare a Trump la proposta di pace. Per Mosca si tratta di una “fuga di notizie per far saltare l’accordo”. “Dietro i massacri di questo tempo c’è il denaro, c’è il capitale”, commenta su Radio Onda d’Urto l’economista Emilano Brancaccio, autore di un commento su Il Manifesto di sabato 22 novembre 2025 dal titolo Seguire il denaro: la vera posta in gioco. “Lo sviluppo delle guerre di questo tempo ci fa capire che sono guerre definibili capitaliste, se non si parte da qui non si può capire nulla del sangue che viene sparso in questo tempo”, aggiunge Brancaccio. L’intervista di Radio Onda d’Urto all’economista Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica all’Università del Sannio. Ascolta o scarica.  
IRAQ: LE ELEZIONI POLITICHE TRA CORRUZIONE, INFLUENZE ESTERNE E RASSEGNAZIONE. “L’UNICA SPERANZA È UNA NUOVA MOBILITAZIONE DI PIAZZA DEI GIOVANI”
L’11 novembre 2025 si sono svolte le elezioni politiche in Iraq. Si tratta della settimana tornata elettorale dalla caduta del regime di Saddam Hussein in seguito all’invasione del Paese da parte degli Usa. Da allora è stato costruito un sistema elettorale fragile, spesso alle prese con casi di corruzione e fortemente influenzato dalle divisioni culturali, nazionali e religiose. Gli elettori erano chiamati a scegliere tra oltre 7.700 candidati per occupare i 329 seggi del Consiglio dei rappresentanti, cioè il parlamento iracheno. Le elezioni cadevano in un momento storico di grande tensione e cambiamento di una serie di equilibri nella regione mediorientale. Lo stesso Iraq – che non è stato coinvolto nell’ondata di guerre e bombardamenti che l’esercito israeliano ha portato in tutta l’area dopo il 7 ottobre 2023 – è in realtà da anni diviso tra la dipendenza politica, economica e militare dagli Stati Uniti d’America e l’influenza iraniana, esercitata da Teheran tramite la presenza di proprie milizie in Iraq, accordi economici e il supporto a partiti sciiti iracheni. La stessa coalizione del premier uscente Mohammed Shia al Sudani non è gradita agli Usa perché considerata troppo vicina alle milizie sciite filo-iraniane. Al Sudani, però, punta alla rielezione e la sua coalizione “Ricostruzione e sviluppo” ha vinto le elezioni a livello nazionale. Gli altri grandi partiti confermati da questa tornata elettorale sono il blocco sciita “Tasmeem” di Asaad al-Eidani, che prevale nell’area di Bassora, e i partiti che si spartiscono da vent’anni la regione del Kurdistan iracheno: da una parte il Partito Democratico del Kurdistan, legato alla famiglia Barzani, che si conferma a Erbil, Duhok e Ninive, dall’altro il Partito dell’Unione Patriottica del Kurdistan, legato alla famiglia Talabani, che si conferma a Sulaymaniyah e Kirkuk. La formazione di un nuovo governo dovrà passare per una lunga trattativa. Dopo le elezioni del 2021 i negoziati tra le forze politiche per il nuovo esecutivo durarono più di un anno. Al Sudani ha dichiarato di voler tenere in considerazione la volontà di tutte le forze politiche che di fatto si spartiscono il paese e le sue risorse, in particolare quelle petrolifere, con il pretesto delle divisioni settarie. Il premier uscente ha dichiarato di voler considerare anche il partito dell’influente leader sciita Moqtada Sadr, che ha invitato a boicottare questa tornata elettorale. Al Sudani, inoltre, è intenzionato a mantenere il difficile equilibrio tra i due alleati Usa e Iran. L’affluenza ufficiale è stata piuttosto alta: il 56% degli elettori contro il 41% delle elezioni del 2021, che avevano segnato il record negativo. “Il sistema elettorale adottato per queste elezioni è fatto per favorire i potenti, i grandi partiti, e penalizzare quelli più piccoli. Per questo in molti, dal partito sciita di Sadr fino alle persone di sinistra, hanno boicottato queste elezioni”, commenta su Radio Onda d’Urto l’attivista iracheno per i diritti umani Ismaeel Dawood. “L’affluenza al 56% è irrealistica, per gonfiare questo dato sono stati presi in considerazione coloro che hanno rinnovato la tessere elettorale, non tutti i 25 milioni di aventi diritto al voto”, ha aggiunto Dawood ai nostri microfoni. Per quanto riguarda la situazione economica e sociale, “grazie ai soldi del petrolio e alla corruzione è in corso una campagna enorme di ricostruzione del paese“, spiega Ismaeel Dawood. “Allo stesso tempo, stiamo assistendo a un processo di privatizzazione che avanza in tutti i settori e alla creazione di un sistema nel quale le persone comuni non hanno davvero un ruolo, soprattutto i giovani. Inoltre, manca uno stato di diritto che sia in grado di proteggere le persone”, aggiunge l’attivista per i diritti umani ai nostri microfoni. “Il futuro del Paese – conclude Ismaeel Dawood – appare più caotico che mai. Ancora una volta, l’unica speranza del popolo iracheno è la piazza. Come per la rivolta del 2019, l’unica soluzione possibile, soprattutto per i giovani, sembra essere la mobilitazione sociale“. L’intervista di Radio Onda d’Urto all’attivista iracheno Ismaeel Dawood. Ascolta o scarica.
ECUADOR: BOCCIATI TUTTI I REFERENDUM PROPOSTI DAL PRESIDENTE CONSERVATORE NOBOA
Il presidente dell’Ecuador, l’esponente di destra Daniel Noboa, ha riconosciuto la pesante quanto inattesa sconfitta nella consultazione refendaria da lui promossa domenica 16 novembre. Il “no” ha prevalso in tutti e quattro i quesiti, a partire dal primo, relativo alla richiesta di eliminare “il divieto di istituire basi militari o installazioni straniere per scopi militari e di cedere basi militari nazionali a forze armate o di sicurezza straniere”, con esplicito riferimento agli accordi politici tra Noboa e il suo sodale Trump, negli Usa, per la riapertura della base di La Manta, nel Pacifico, e di quella (nuova) ipotizzata nell’arcipelago delle Galapagos. In questo caso, i no hanno raggiunto il 61%, contro il 39% di sì. Il secondo quesito, il B, era relativo all’eliminazione delle “risorse del bilancio generale dello Stato alle organizzazioni politiche”, riducendo ancora di più così la partecipazione popolare. In questo caso, i no sono arrivati al 58%, contro il 42% di sì. Lievemente più combattuto – 54% di no, 46% di sì – il quesito C, che chiedeva di ridurre i parlamentari. Nettissima infine, la bocciatura arrivata sul quesito D, con cui Noboa puntava a convocare “un’Assemblea Costituente…per redigere una nuova Costituzione della Repubblica dell’Ecuador”. In questo caso, il 62% dei votanti ha respinto l’istanza, contro un 38% di favorevoli al progetto noboista di “riscrivere una Carta costituzionale con una chiara matrice neoliberista e rivolta alle privatizzazioni” scrive su Pagine Esteri Davide Matrone, docente universitario e ricercatore italiano, da Quito. Dietro lo stop a Noboa, rieletto trionfalmente come presidente solo pochi mesi fa, nell’aprile 2025, ci sono anche le contraddizioni sociali e politiche dell’Ecuador, che lo stesso Matrone identifica in particolare nel durissimo sciopero nazionale durato 30 giorni a seguito al taglio del sovvenzionamento statale alla benzina, in ossequio ai diktat dell’FMI e contestata radicalmente da sindacati, studenti e comunità native; mobilitazioni a cui esercito, polizia e governo hanno reagito con “l’uso spropositato delle armi, l’abuso di potere e la prepotenza […] la repressione e l’unilateralità di Noboa non gli hanno giovato in questa tornata elettorale”. Su Radio Onda d’Urto la corrispondenza, da Quito, con lo stesso Matrone, nostro collaboratore.  Ascolta o scarica  
SIRIA: TRUMP ACCOGLIE AL-SHARAA ALLA CASA BIANCA. L'(EX?) JIHADISTA TRA INTERESSI DEL CAPITALISMO GLOBALE E TENSIONI INTERNE
Il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha incontrato a Washington l’autoproclamato presidente siriano Ahmed Al Sharaa. È la prima volta, da quando la Siria è stata dichiarata stato indipendente nel 1946, che un leader siriano mette piede nello Studio ovale della Casa Bianca. Le questioni principali sul tavolo sono due: la surreale adesione della Siria – governata da personaggi, a partire dallo stesso Al Sharaa, che hanno militato in Daesh e/o in altre formazioni jihadiste fino a ieri – alla Coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa; e la volontà degli Usa di stabilire una propria base militare nel sud del Paese, vicino Damasco. Ovviamente, il tema del confronto è molto più ampio e riguarda aspetti differenti, anche se connessi tra loro: tra questi la promessa di rimuovere Al Sharaa e altri esponenti del suo cosiddetto “governo di transizione” dalle liste nere Usa dei ricercati internazionali per terrorismo, l’impegno statunitense a rimuovere almeno alcune delle sanzioni che da decenni stritolano l’economia e la popolazione siriana, ora estremamente provata anche da 15 anni di guerra civile, l’adesione di Damasco agli Accordi di Abramo. Sullo sfondo ci sono gli interessi – spesso contrastanti – di diverse potenze capitaliste regionali e globali, dalla Turchia di Erdogan (principale sponsor del nuovo regime siriano) a Israele, dagli Usa alla Russia fino alle monarchie del Golfo. Il futuro della Siria, infatti, è centrale rispetto al processo di ridefinizione dei rapporti di forza nella regione che ha subito un’importante accelerazione dal 7 ottobre 2023, con la guerra portata da Israele in tutta l’area. Su Radio Onda d’Urto, abbiamo approfondito questi aspetti con il giornalista Alberto Negri, editorialista de Il Manifesto. Ascolta o scarica. Per delineare un quadro completo della situazione, però, è importante tenere in considerazione la situazione interna siriana, in particolare per quanto riguarda la società e le sue numerose componenti anche nazionali, religiose e linguistiche. Da questo punto di vista, Al Sharaa sta tentando di rafforzare la propria legittimità politica, al momento piuttosto debole. Il suo “governo di transizione” non può contare su un consenso ampio per diversi fattori. Il più importante riguarda proprio la composizione eterogenea della società siriana dal punto di vista delle differenze culturali e religiose. Diverse comunità non si sentono rappresentate da un governo che da un lato si dichiara protettore dei diritti delle minoranze, dall’altro è espressione diretta di gruppi salafiti e jihadisti. I massacri ai danni della popolazione alawita nelle regioni della costa occidentale e quelli contro i drusi nell’area meridionale di Sweida – compiuti da milizie islamiste inquadrate nell’attuale esercito governativo – hanno alimentato diffidenza, paura e malcontento nei confronti di Damasco. Nonostante avesse dichiarato l’intenzione di costruire una democrazia dopo oltre sessant’anni di regime degli Assad (incassando l’endorsement di tutte le cancellerie europee e occidentali), Al Sharaa ha organizzato elezioni che sono state più che altro una selezione diretta – da parte sua – di gran parte dei parlamentari e dalle quali sono state escluse Sweida, l’area a maggioranza drusa, e soprattutto i territori controllati dall’Amministrazione autonoma democratica del nord e dell’est e dalle Forze Siriane Democratiche a guida curda e araba. Non solo, dopo aver simulato un approccio democratico, aperto a tutte le religioni e culture, e aver promesso una costituzione che rappresentasse tutte le componenti siriane, il governo di transizione di Al Sharaa ha scritto da solo la propria Carta, senza alcun tipo di consultazione, e ha iniziato a disporre leggi di chiara impronta islamista. Di tutto questo abbiamo parlato con Tiziano Saccucci, dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, con particolare attenzione alle trattative in corso tra Damasco e l’Amministrazione autonoma del confederalismo democratico, cioè l’autogoverno rivoluzionario e socialista del Rojava e del nord-est siriano (oltre un terzo del Paese). Ascolta o scarica.
STATI UNITI: ACCORDO AL SENATO CHIUDE LO SHUTDOWN PIÚ LUNGO DI SEMPRE. L’INTERVISTA A MARTINO MAZZONIS
Raggiunto un accordo tra democratici e conservatori al Senato USA per mettere fine allo shutdown e finanziare il governo federale fino al 30 gennaio. I democratici hanno ottenuto la riassunzione dei dipendenti federali licenziati durante questo periodo e gli impiegati in congedo forzato riceveranno una retribuzione retroattiva. Il disegno di legge di spesa a breve termine impedisce all’Ufficio di Gestione e Bilancio di attuare ulteriori licenziamenti di massa fino fine gennaio 2026. Lo shutdown era iniziato alla mezzanotte del 1° ottobre 2025. In base al sistema federale statunitense, ogni anno il Congresso deve approvare dodici leggi di stanziamento per finanziare le varie agenzie federali oppure, se non lo fa in tempo, una risoluzione ponte per mantenere i finanziamenti al livello precedente. Se nessuna di queste misure viene adottata entro la mezzanotte della scadenza, il governo federale USA entra in uno stato di “shutdown”, ossia molte attività non essenziali del governo vengono sospese o limitate, migliaia di dipendenti federali vengono licenziati temporaneamente o continuano a lavorare senza paga. Nel caso specifico del 2025, la causa principale è stata il mancato accordo fra i partiti su un pacchetto di finanziamento che includesse — fra le altre cose — l’estensione di sussidi fissati dall’Affordable Care Act (ACA) per l’assicurazione sanitaria. Abbiamo cercato di capire le origini dello shutdown, come mai si allunga sempre di più, quali sono le conseguenze e i disagi che ha comportato con Martino Mazzonis, giornalista e americanista. Ascolta o scarica
BRESCIA COINVOLTA NELL’ESCALATION BELLICA. A GHEDI E’ PASSATO IL MAXI-AEREO STATUNITENSE PER IL TRASPORTO DI BOMBE NUCLEARI
La Provincia di Brescia coinvolta dall’escalation bellica. Presso l’aerobase militare di Ghedi, a 25 km a sud-est della città, è atterrato martedì pomeriggio il gigantesco Globemaster III, l’unico aereo militare statunitense certificato per il trasporto di bombe atomiche. Il velivolo, partito da da Volkel in Olanda, è arrivato nella giornata di martedì 4 novembre nell’area militare di Ghedi ed è ripartito ieri, giovedì, in direzione Incirlik, Turchia, dove si trova una importante base militare della NATO, condivisa tra Ankara e gli Stati Uniti, situata vicino ad Adana. Le tre destinazioni – Volkel, Ghedi, Incirlik – sono tutte basi militari in cui la Nato ha stoccato bombe atomiche le B-61, secondo il programma di  condivisione nucleare. Per Brescia, secondo le stime, sono stoccate tra le 20 e le 40 bombe nucleari. Ma le informazioni sono secretate. Nell’aerobase di Ghedi si trova il Sesto Stormo, un reparto di interdizione militare che ha in dotazione i caccia multiruolo “Tornado”, con il compito di intercettare e distruggere i caccia bombardieri nemici in territorio NATO. Diversi i cittadini nella zona di Ghedi che hanno denunciato il passaggio del gigantesco aereo statunitense, un colosso di 54 metri di lunghezza e 50 di apertura alare. Il maxi cargo era decollato lo scorso 2 novembre dall’aeroporto di Tacoma, Stati Uniti, poi aveva raggiunto l’aeroporto militare di Ramstein, in Germania e ieri martedì mattina era ripartito verso Uden, in Olanda, per poi arrivare nel pomeriggio in Italia, proprio a Ghedi. “Come possiamo leggere questa notizia senza denunciare la gravità e avere una certa apprensione”, denuncia Claudia Capra, del Movimento Non Violento di Brescia, ai microfoni di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica.
MAMDANI SINDACO DI NEW YORK, SILVIA BARALDINI: “A CONCORRERE NELLA VITTORIA LE VIOLENZE DELL’ICE CONTRO MANIFESTANTI E MIGRANTI”
Stati Uniti, prime crepe nell’impero Trump. Il giorno dopo i risultati elettorali dell’elezione a sindaco di New York di Zohran Mamdani, Radio Onda d’Urto ha intervistato Silvia Baraldini, ex prigioniera politica negli Stati Uniti e residente a lungo nella “Grande Mela”.  I dati sull’affluenza al voto di martedì 4 novembre, “mai così alta dal 1969” come segnala Baraldini, e le ultime manifestazioni di piazza segnati da violenze estreme da parte di polizia e Ice (l’agenzia federale armata spedita da Trump nelle città statunitensi per rastrellare e arrestare migranti e comunità), hanno segnato la netta vittoria elettorale di Mamdani.  New York “è diventata una città dove solo i ricchi possono abitare”, sottolinea Baraldini. La campagna di Mamdani è stata infatti “molto incentrata su questo tema: sul fatto che le persone che lavorano e fanno funzionare la città non si possono permettere di abitarci”. Casa, salario minimo e la lotta contro i “padroni” della città sono stati i principali punti del programma elettorale. La questione ora è se “gli sarà permesso di governare” New York, perchè Mamdani ha “degli antagonisti molto potenti, non solo le elitè finanziarie, ma anche una porzione della comunità ebrea che non gradisce la sua posizione sul genocidio a Gaza”. L’intervista completa a Silvia Baraldini, ex prigioniera politica negli Stati Uniti e residente a lungo nella “Grande Mela”. Ascolta o scarica. Qui interviste e analisi realizzate da Radio Onda d’Urto nella giornata post-voto.
USA: DA NEW YORK, NEW JERSEY E VIRGINIA TRE SQUILLI CONTRO TRUMPI NEL GIORNO IN CUI LO SHUTDOWN DIVENTA IL PIU’ LUNGO DELLA STORIA
Usa. Un anno dopo la vittoria alle presidenziali di Trump – e un anno dalle prossime elezioni di midterm – i democratici fanno un tris storico nell’election day del 4 novembre 2025. Elette le prime due donne governatrici dem in New Jersey e in Virginia, Stato tradizionalmente in bilico tra repubblicani e dem. La vittoria più eclatante, anche per gli equilibri interni di un partito – quello dem – ancora tramortito dalla scoppola delle presidenziali 2024 arriva da New York: Zohran Mamdani è stato eletto con il 50,4% dei voti, sconfiggendo di 10 punti l’ex governatore (ed ex dem, ora indipendente) Andrew Cuomo e il repubblicano di destra Curtis Sliwa. Affluenza attorno al 40%, un dato molto alto considerato gli standard di questo genere di voto negli States. Mamdani, 34 anni, è il primo sindaco, 34enne, socialista, musulmano e di origini afro-asiatiche (è nato in Uganda da genitori di origini indiane) della Grande Mela. “E’ uno dei più grandi sconvolgimenti politici della Storia moderna Usa”, commenta a caldo il suo principale alleato, Bernie Sanders, altro esponente della sinistra dem. “Il sole potrebbe essere tramontato sulla nostra città stasera, ma come disse una volta Eugene Debs (sindacalista e fondatore oltre un secolo fa del Partito socialista Usa) ‘vedo l’alba di un giorno migliore per l’umanità'”. Queste le prime parole di Zohran Mamdani al suo quartier generale a Brooklyn dopo la sua vittoria come sindaco di New York. “Il futuro è nelle nostre mani“, ha proseguito prima di attaccare Andrew Cuomo, ex governatore per tre mandati e figlio di un governatore: “abbiamo rovesciato una dinastia politica. Auguro a Cuomo solo il meglio nella vita privata, ma che questa sia l’ultima volta che pronuncio il suo nome mentre voltiamo pagina”. Altre parole di Mamdani sono andati direttamente a Trump: “so che ci stai guardando, ti dico quattro parole…turn up the volume”, ossia alza il volume, con il boato della folla che acclamava l’esponente socialista e musulmano, “cose di cui non ho alcuna intenzione di vergognarmi”. Trump accusa il colpo, pur dando la colpa all’assenza del suo nome sulle schede (a New York ha sostenuto, seppur all’ultimo, Cuomo) e allo shutdown, la paralisi finanziaria del bilancio federale iniziata 36 giorni fa e da oggi, ufficialmente, il più lungo della storia Usa. Strali contro Mamdani arrivano dalla galassia dell’ultradestra MAGA – “è un terrorista”, ha detto tra gli altri il popolare conduttore radiofonico e podcaster sovranista  Sid Rosenberg – e da Israele, con il ministro della Diaspora, Amichai Chikli, che ha esortato “gli ebrei di New York a fuggire in Israele”, fingendo di dimenticare 2 anni ininterrotti di proteste anche eclatanti da parte della comunità ebraica di NY contro il genocidio, il sionismo e Netanyahu, oltre al fatto che una parte molto ampia della stessa comunità ha sostenuto proprio Mamdani. Su quest’ultimo aspetto, Radio Onda d’Urto ha intervistato Mattia Diletti, docente di Scienza politica all’Università La Sapienza di Roma. Ascolta o scarica Sui risultati elettorali negli Usa vi proponiamo altre interviste: * Il giornalista, americanista e nostro collaboratore Martino Mazzonis. Ascolta o scarica * Raffaella Baritono, docente di Storia e istituzioni dell’America del nord all’Università di Bologna. Ascolta o scarica
USA: NEW YORK ALLE URNE PER IL NUOVO SINDACO, FAVORITO IL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI
Giornata elettorale negli Usa. Si vota in Virginia e in New Jersey per eleggere i governatori, mentre in diverse città USA ci sono le amministrative. Occhi puntati sulla città di New York, dove i sondaggi vedono avanti il candidato della sinistra dem, il socialista Zohran Mamdani, quotato al 43%, rispetto all’ex dem e ora indipendente Andrew Cuomo (33%), supportato – di malavoglia – da Trump. Più staccato il repubblicano Curtis Sliwa, fondatore dei vigilantes Guardian Angels. 735mila newyorchesi, mai cosi tanti, hanno già votato via posta o in seggi elettorali appositamente allestiti per il voto anticipato. A New York l’elezione per il sindaco è ritenuta un primo test per la nuova era di Donald Trump. Intanto secondo quanto rivelato da un nuovo sondaggio di Washington Post, Abc News e Ipsos, cala l’indice di gradimento del presidente Donald Trump: la maggioranza degli statunitensi, il 64%, pensa che il presidente sia andato oltre i poteri conferitigli dal suo ruolo e che stia eccedendo nel tentativo di espandere i suoi poteri presidenziali. Il sondaggio segnala che la disapprovazione per l’operato del tycoon è al 59%, mentre l’apprezzamento si ferma al 41%, il livello più basso per un presidente all’inizio del secondo mandato. Nonostante questi dati, la corsa per le elezioni di metà mandato del 2026 rimane equilibrata, con i democratici al 46% e i repubblicani al 44% nelle preferenze per il Congresso. L’intervista a Marina Serina, cittadina italiana che vive a New York, che ha seguito la campagna elettorale di Zohran Mamdani e collaboratrice della rivista online Pressenza.Ascolta o scarica