In occasione della Congo Week, intervista con il dottor Joseph Kakisingi di Bukavu (Kivu, Rdc)
Ogni anno dal 2009 a ottobre si tiene la «Breaking the Silence Congo Week», una
settimana internazionale di azione e riflessione che ha diversi obiettivi:
rompere il silenzio sulla guerra che colpisce la regione del Kivu nella
Repubblica Democratica del Congo (RDC), denunciare la complicità internazionale,
commemorare le vittime ma anche celebrare «l’enorme potenziale umano e naturale
che esiste nel paese».
In questa occasione abbiamo intervistato il dottor DeJoseph Kakisingi,
ginecologo, direttore del Centro Ospedaliero San Vincenzo di Bukavu. Il dottore
è stato invitato in Italia in occasione della marcia per la pace Perugia-Assisi,
ottobre 2025. Ha tenuto diversi incontri organizzati anche dall’associazione
Colibrì di Mantova che sostiene vari progetti nel settore sanitario proprio
nelle zone del Congo colpite dalla guerra.
La sua attività si svolge da tempo in una situazione di guerra e occupazione…
Il centro ospedaliero Saint-Vincent, nel comune di Kadutu a Bukavu porta cure di
qualità alle comunità economicamente meno abbienti. Sono anche direttore e
co-fondatore dell’organizzazione non governativa (Ong) Santé et Développement,
nata per l’aiuto alle donne sfollate vittime e sopravvissute di violenza
sessuale. La struttura si occupa delle cure mediche, dell’accompagnamento
psicosociale e del reinserimento nella comuunità. Via via, l’organizzazione si è
diversificata aggiungendo altre attività, tra cui la gestione della
malnutrizione in ambienti chiusi, i programmi di sicurezza alimentare e i
programmi di risposta gestiti dalle comunità. Ho inoltre riunito le
organizzazioni umanitarie congoles nel Consiglio nazionale dei forum delle Ong
umanitarie e di sviluppo il cui obiettivo è quello di sensibilizzare sulla
situazione umanitaria nella Rdc e sulla risposta umanitaria a livello locale,
affinché i finanziamenti arrivino direttamente nelle comunità, in modo più
efficace, adeguato, diretto.
Qual è la situazione umanitaria a Bukavu e Goma e in generale nelle zone sotto
il controllo della milizia detta M23/Afc appoggiata dal Ruanda?
Le due città sono isolate da tutto. I mezzi di sostentamento sono bloccati. Gli
operatori umanitari allertano il mondo sulla grande crisi con le sue conseguenze
sulla salute e sulla sicurezza alimentare. Alcuni operatori umanitari sono presi
di mira perché accusati di far conoscere alla comunità internazionale ciò che le
autorità de facto non vorrebbero far vedere. Molti di loro sono costretti a
fuggire. Sono stato costretto a lasciare Bukavu per rifugiarmi altrove. Eppure,
siamo fra coloro che lottano affinché i civili non diventino vittime collaterali
della guerra.
È vero che l’aiuto internazionale manca?
Dopo la presa di Goma e la caduta di Bukavu, all’inizio del 2025, tutti i campi
di sfollati che si trovavano nei dintorni e che ricevevano assistenza umanitaria
sono stati smantellati. Si tratta di due milioni di persone che oggi sono senza
casa e senza alloggio. Con la mancanza di sicurezza, con tante barriere,
milizie, l’accesso alle comunità è molto difficile e pericoloso. A volte per
raggiungere i beneficiari bisogna attraversare le linee del fronte.I centri di
cura della malnutrizione non sono più riforniti, gli ospedali non hanno più
accesso ai farmaci, i mercati sono vuoti. Dove ci sono difficoltà nell’inoltro
degli aiuti, i casi di malnutrizione si moltiplicano, l’angoscia legata
all’insicurezza e alla guerra cresce. Nella città di Bukavu i casi di problemi
di salute mentale sono triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Non c’è solo questo blocco sull’accesso umanitario, ma anche la mancanza di
finanziamenti. All’inizio di quest’anno, l’Usaid (l’agenzia statunitense per gli
aiuti internazionali) ha annunciato il taglio dei finanziamenti per gli aiuti
umanitari. Ma i suoi fondi costituivano il 70% dei fondi per la Rdc. Il blackout
aggrava una situazione già grave. I mezzi disponibili attualmente non coprono
nemmeno il 10% dei bisogni umanitari espressi. Le organizzazioni umanitarie
locali cercano di mobilitare fondi sul posto. Ma a livello internazionale si
dimentica di parlare della crisi congolese che è grave e drammatica con oltre
nove milioni di morti, trent’anni di crisi, e tutto quello che vediamo oggi di
violenza, stupri, uccisioni. Tutto questo richiede più attenzione e più sostegno
internazionale verso la popolazione congolese.
Gli accordi “di pace” porranno fine a questa guerra trentennale?
Gli accordi di Washington e Doha hanno dato molta speranza alle comunità che
vivono nelle zone occupate. Ma sempre più questa speranza sta svanendo. Non si
vede niente, si vede piuttosto l’aggravarsi della situazione della sicurezza,
gli scontri che continuano…
Cosa fare dunque? Cosa possono fare i popoli del mondo, le organizzazioni
internazionali, gli Stati?
Il Congo è un paese-soluzione per il pianeta! Nel senso che ha il secondo
polmone del mondo (la foresta pluviale del bacino del Congo),e anche tanti
minerali strategici per la stessa transizione ecologica, necessaria alla lotta
contro il riscaldamento climatico. Purtroppo, questa ricchezza, invece di essere
una forza, diventa una maledizione per il paese: le multinazionali, invece di
venire a trattare normalmente con il Congo affinché si mettano in atto scambi
vincenti tra noi che abbiamo le materie prime e loro che ne hanno bisogno,
passano con mezzi barbari, provocano guerre che uccidono e usano violenza, e il
risultato è anche il futuro di minerali. Quanta ingiustizia!
Il mondo dovrebbe proteggere il Congo anche perché il Congo aiuta il mondo.
Chiediamo alle multinazionali di passare a un commercio etico, basato su
rapporti che garantiscano benefici anche per i territori dai quali le materie
prime vengono estratte. Quello che chiedo alla comunità internazionale, ai
popoli, ai giovani, è di contrastare queste pratiche illecite, in particolare
chiedendo la tracciabilità dei minerali utilizzati nella produzione di alcune
attrezzature oggi molto necessarie. Bisogna assicurarsi che non siano minerali
di sangue, minerali che vengono estratti in zone occupate militarmente e dove i
lavoratori vengono pesantemente sfruttati in questa attività.
Marinella Correggia