Camposanto fantasma. Il Cimitero dei Colerosi e la memoria dimenticata di Napoli
Alle porte di Napoli, tra i quartieri Barra e San Giovanni a Teduccio (Napoli)
San Giorgio a Cremano e Portici, si trova un luogo che il tempo e l’indifferenza
hanno quasi cancellato: il Cimitero dei Colerosi, costruito nel 1836 per
accogliere le vittime dell’epidemia di colera che travolse la città e i paesi
vesuviani. Da allora, in quella terra di confine, riposano migliaia di uomini,
donne e bambini, testimoni silenziosi di una tragedia che segnò profondamente la
storia del territorio e la memoria delle sue comunità.
Nel corso degli anni, quello che era nato come segno di pietà e di necessità si
è trasformato in un simbolo di abbandono. L’erba alta, i cancelli arrugginiti, i
monumenti funerari ormai instabili parlano di un degrado che non è solo
materiale, ma anche morale. Eppure, dietro quei muri dimenticati, si custodisce
un frammento di identità collettiva: un luogo che ricorda la fragilità umana e
la forza di una città capace di rialzarsi anche nei momenti più duri.
Il 2 novembre, nel giorno dedicato ai defunti, cittadini e associazioni si sono
ritrovati davanti ai cancelli chiusi del Camposanto dei Colerosi, in Cupa
Sant’Aniello, per una messa celebrata all’aperto. Entrare era impossibile, le
condizioni di degrado dell’area lo impedivano. La funzione si è trasformata in
un gesto di civiltà e di resistenza, un modo per riaffermare il diritto alla
memoria e chiedere alle istituzioni di intervenire con urgenza. Le famiglie dei
defunti che riposano in quel luogo, insieme a volontari e rappresentanti delle
comunità locali, hanno espresso il desiderio di restituire dignità a uno spazio
che appartiene alla storia di tutti.
La cerimonia è stata promossa da un ampio gruppo di realtà civiche e sociali
impegnate nella difesa e nel recupero del sito. Tra le associazioni aderenti
figurano “Voce nel Deserto”, il Comitato Civico di San Giovanni a Teduccio, la
Società Operaia di Mutuo Soccorso di Barra, “Barra R-Esiste”, la Biblioteca
sociale “La Casa di Francesca”, le ACLI di San Giovanni a Teduccio – Beni
Culturali, il Comitato No Inceneritore e “Il Mondo che vorrei”. Alla
celebrazione hanno preso parte anche sacerdoti e rappresentanti delle parrocchie
dei comuni dell’antico consorzio ottocentesco che realizzò il camposanto, a
testimonianza del legame profondo tra fede popolare, territorio e memoria
storica.
Tra le organizzatrici anche Maria Rosaria De Matteo, membro del comitato
promotore e attivista impegnata nel sociale e nella difesa della memoria
collettiva, che ha voluto lanciare un appello alla coscienza della città: «Noi
dovremmo scuotere le coscienze di un’intera collettività e dovremmo far
ricordare che in questa città c’è il culto dei defunti, il culto delle anime
pezzentelle, dove i napoletani hanno avuto sempre a cuore i cimiteri, dove le
persone si recano sempre a portare un fiore, un lumino, una preghiera, e quindi
dovremmo cercare di metterci in un tavolo comune e trovare un equilibrio che
possa rendere rispetto, giustizia e omaggio ai defunti che sono seppelliti in
questo cimitero.»
L’iniziativa non è stata solo un atto di commemorazione, ma un invito a
riflettere su come le città si prendano cura, o smettano di prendersi cura, dei
propri luoghi della memoria. Prendersi cura di un cimitero dimenticato significa
prendersi cura del passato e del senso di comunità che lo attraversa. Napoli,
che da sempre vive un rapporto speciale con i morti, dall’antico culto delle
anime pezzentelle alla tradizione dei lumini accesi nei vicoli, non può
permettere che un luogo come il Cimitero dei Colerosi resti sepolto
nell’incuria. Ogni pietra che si sgretola, ogni croce dimenticata, rappresenta
un frammento di storia che si perde.
Restituire dignità al Cimitero dei Colerosi non è soltanto un dovere civile, ma
un gesto di umanità. Significa riconoscere che la memoria non appartiene solo al
passato, ma è parte viva del presente. E che ricordare non è un atto di
nostalgia, ma una forma di resistenza. Perché ricordare, sempre, è il modo più
semplice e più profondo per rimanere umani.
Quando cala la sera, tra le mura di Cupa Sant’Aniello, la luce dei ceri e delle
preghiere sembra ancora disegnare i passi di quelle antiche processioni che un
tempo attraversavano i villaggi per chiedere la fine del contagio. Oggi, quella
stessa luce torna a brillare tra le erbacce e le lapidi spezzate, come un filo
di speranza che continua a legare i vivi ai morti e la memoria al futuro.
Lucia Montanaro