Contadini in Cisgiordania, tenere ad ogni costo
Ottobre 2025 Le Monde Diplomatique dai nostri inviati speciali LÉONORE
AESCHIMANN e PIERRE CASAGRANDE * giornalisti
Dall’inizio dell’anno, l’esercito e i coloni israeliani hanno provocato il
trasferimento forzato di cinquantamila palestinesi della Cisgiordania.
Imponendo leggi inique ed esercitando violenze quotidiane, Tel Aviv prosegue
un’annessione rampante che punta innanzi tutto all’appropriazione delle terre
agricole e alla costruzione di nuove colonie, illegali sul piano del diritto
internazionale
Ali M. rovista tra le rovine di una casa distrutta nell’inverno 2024 dai
bulldozer israeliani per estrarne sbarre di ferro con cui rafforzare la
recinzione delle sue capre. Questo allevatore sui vent’anni è interrotto dalla
consegna di acqua da parte di un vecchio camion Citroën arrugginito su cui
sobbalza una gigantesca cisterna che sta risalendo il sentiero. Ali accoglie il
conducente, che divide la sua vita tra il lavoro di professore di biologia a
Gerico e le consegne, vitali per le famiglie della regione. Siamo nel villaggio
di Al-Maleh, nell’estremo nord della Cisgiordania, in una piccola vallata
rocciosa che scende verso il fiume Giordano. Sotto la staccionata, uno strato di
sassi testimonia l’esistenza passata di un ruscello che scorreva ancora
vent’anni fa. Ormai, nella valle, si spinge solo il vento carico di polvere. «I
coloni sono arrivati nel 1967 e hanno cominciato a pompare acqua nel 1973 a
oltre 100 metri di profondità», spiega Ali. Le cinque fonti che alimentavano il
corso d’acqua si sono progressivamente prosciugate. Questo rifornimento in
camion basterà per il consumo dei villaggi e del bestiame ma, sfortunatamente,
non permetterà di irrigare gli appezzamenti.
La colonizzazione israeliana colpisce duramente l’agricoltura palestinese. «Dal
1967 e con l’inizio dell’occupazione, il contributo del settore al prodotto
interno lordo della Cisgiordania è andato costantemente a calare», spiega Taher
Labadi, ricercatore in economia all’Istituto francese del Medioriente (Ifpo) di
Gerusalemme. Eppure, il lavoro della terra ha una lunga storia in Palestina.
L’agricoltura è caratterizzata da una prevalenza di piccole aziende familiari
inferiori all’ettaro, che rappresentano più del 70% delle terre agricole (1). La
loro produzione è destinata in primo luogo all’autoconsumo, quindi al mercato
locale. In un territorio semi arido e collinare, la coltura a terrazza
appartiene a un ricco patrimonio agricolo, il cui simbolo è l’ulivo (2).
«100.000 famiglie dipendono parzialmente o totalmente dagli ulivi, all’origine
di un rapporto molto speciale tra i palestinesi, la loro terra e gli alberi. È
un’identità nazionale che diventa anche identità economica», spiega Moayyad
Bsharat, coordinatore di progetto all’Unione dei comitati del lavoro agricolo
(Uawc), la principale organizzazione non governativa (Ong) agricola palestinese.
Calata la sera, Ali è amareggiato perché non può offrire ai suoi ospiti delle
vere camere in cui passare la notte. A causa delle continue distruzioni, la
famiglia abita in parte nelle tende. Al-Maleh, che risale all’epoca ottomana, è
stato devastato dall’esercito nel 1967, e tutti i suoi abitanti sono dovuti
fuggire. Circa sessanta famiglie sono tornate, ma il villaggio non ha potuto
recuperare le sue dimensioni di un tempo. Gli agricoltori che, come Ali,
scelgono di restare, di lavorare la loro terra o di allevare bestiame sono
chiamati samidin, ossia coloro che tengono duro nonostante le crescenti
difficoltà poste dalla vita rurale. Con la loro presenza, proteggono la terra
dall’annessione dei coloni israeliani – un obiettivo cruciale della resistenza
palestinese. Nella famiglia di Ali, le coppie con figli hanno preferito
trasferirsi a Tubas, la città più vicina.
«Quando vengono costruite delle case, qui, sono distrutte dalle forze
d’occupazione», spiega.
Dopo gli accordi di Oslo del 1993, la Cisgiordania (5 860 km²) è stata divisa in
tre zone A, B e C.
La zona A (18%)è sotto l’autorità palestinese, la zona B (22%) sotto controllo
misto e la zona C (il 60% della Cisgiordania) sotto controllo diretto
israeliano, l’esercito non concede alcun permesso di costruzione nella zona C e
commette regolarmente distruzioni di edifici.
A maggio, un nuovo regolamento sul censimento fondiario e sulla creazione di un
catasto emanato da Tel Aviv ha rafforzato ulteriormente questo controllo,
facilitando l’accaparramento delle terre palestinesi da parte dei coloni. Nella
valle del Giordano, i palestinesi subiscono una vera e propria annessione, con
la confisca delle loro terre coltivabili, mentre l’80% di queste è già nelle
mani dei coloni e dell’esercito.
Anas H., un osservatore della situazione dei diritti umani nella zona, sospira:
«La guerra a Gaza fa rumore, ma qui ci hanno dichiarato una guerra silenziosa».
Questa «guerra» indebolisce una sovranità palestinese già compromessa dal
passaggio dall’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura volta verso
l’esportazione. Dagli anni 1990, l’Autorità Palestinese e i donatori
internazionali hanno incoraggiato le colture da destinare ai mercati esteri.
L’emblema è quella del dattero medjool nella valle del Giordano. «Il dattero è
l’agrobusiness che fa irruzione in Palestina», riassume Julie Trottier,
idrologa al Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs), che lavora sulla
Cisgiordania. Con Anas, sulla strada 90, che costeggia il Giordano in direzione
del villaggio di Bardala, possiamo constatarlo: immensi appezzamenti di
monocultura di dattero si susseguono per chilometri, inframmezzati da alcuni
grandi magazzini agricoli.
Sebbene sia impossibile distinguere a prima vista i frutteti israeliani da
quelli palestinesi, il 70% dei palmeti, secondo Anas, sarebbe coltivato dai
coloni. «Un classico caso di economia coloniale». All’epoca, la scelta era
ricaduta sulla palma da dattero per diverse ragioni: il basso consumo di acqua e
la sua compatibilità anche con acqua leggermente salata. Essendo adatta ai
vincoli climatici, rende molto e rapidamente, grazie alle esportazioni, dal
momento che le aziende israeliane e alcuni grandi proprietari palestinesi hanno
firmato contratti con gli attori dell’agroindustria mondiale.
«All’inizio dello sviluppo del dattero, sono state coltivate parcelle da
seicento dunum (sessanta ettari), un dato inedito in Palestina», testimonia
Trottier. Ma i soldi guadagnati hanno provocato l’aumento delle disuguaglianze
all’interno della società palestinese. Prima di questa coltura, le pianure del
Giordano erano volte verso la sussistenza e il mercato locale. «I proprietari,
solitamente, risiedevano in città, una piantagione di banane di un dunum dava da
vivere a una famiglia grazie alla mezzadria», spiega la ricercatrice. I mezzadri
ora sono sostituiti da stagionali e operai.
Ogni anno, i primi raccolgono per due mesi, mentre i secondi lavorano al
confezionamento per 5 mesi. Questo contesto economico, insieme alle violenze
coloniali, spiega l’entità dell’esodo rurale.
In Palestina la proporzione dei lavoratori del settore agricolo è passata dal
37% del 1975 al 5% del 2023 (3).
I beni necessari alla popolazione non sono più prodotti sul posto. La maggior
parte di quelli consumati dai palestinesi sono importati attraverso Israele, che
può decidere di bloccare la merce.
«È un classico caso di economia coloniale: la produzione viene orientata verso
le esportazioni, e l’economia del territorio occupato diventa completamente
vincolata e dipendente dallo Stato colonizzatore», analizza Labadi.
Strutture come l’Uawc si battono per la sovranità alimentare. «L’Autorità
palestinese non destina neanche l’1% del suo bilancio al ministero
dell’agricoltura, contro il 35% al sistema di sicurezza e ai suoi agenti, che
non hanno mai protetto un solo ulivo e una sola contadina contro gli attacchi
dei coloni o dell’esercito, afferma con disappunto Bsharat. Gli stanziamenti per
l’agricoltura dovrebbero raggiungere il 10% per essere adeguati ai bisogni dei
contadini.» Quest’uomo sui quarant’anni, agronomo di formazione, ha dedicato la
sua vita a sostenere i samidin.
Conosce perfettamente le comunità rurali della valle del Giordano e porta avanti
il suo lavoro presso agricoltori e contadini nonostante le intimidazioni
dell’esercito israeliano.
La sua Ong, creata nel 1986, è composta da centoventi comitati in Cisgiordania e
nella striscia di Gaza. Offre formazione, aiuto materiale o consigli tecnici
alle famiglie contadine per emergere dalla dipendenza dagli input chimici
importati e adattarsi alla mancanza di acqua. L’Uawc lavora solo con piccoli
agricoltori e prevalentemente con comunità guidate da donne.
«Al contrario dell’Autorità palestinese e dei donatori occidentali, non vogliamo
focalizzarci sul 5% della popolazione con grandi aziende agricole, dimenticando
la maggioranza, che vuole produrre il proprio cibo. Non vogliamo solo produrre,
vogliamo giustizia sociale», prosegue il nostro interlocutore. Tuttavia, non è
sempre facile far adottare i metodi ecologici. «Cerchiamo di far capire agli
agricoltori che, se vogliono produrre di più, perderanno anche più rapidamente
le terre, perché i metodi industriali esauriscono il suolo dopo alcuni anni»,
aggiunge, citando il caso della coltura intensiva di datteri che massacra il
terreno e aumenta il grado di salinità.
L’agroecologia come via verso la sovranità alimentare è un presupposto per cui
si batte anche Forum Palestinese di Agroecologia (Fpa) dalla sua creazione nel
2018: «Il nostro rapporto con la terra è cambiato. I nostri metodi tradizionali
erano vicini ai principi agroecologici; oggi, non sappiamo neanche quali input
chimici siano presenti nel suolo e quante varietà di Ogm (organismi
geneticamente modificati) ci siano imposte, spiega Lina Ismaïl, membro dell’Fpa.
L’occupazione israeliana ha imposto i suoi semi. Ora, ci sono varietà autoctone
di prodotti ormai introvabili nei nostri mercati».
Per ovviare a queste mancanze, l’Uawc aveva fondato, nel 2003, una banca di
sementi autoctone a Al Khalil – il nome palestinese della città di Hebron. Qui,
venivano moltiplicate, stoccate e distribuite con il passare delle stagioni 76
varietà locali. Nelle sale decorate con piante essiccate, Jannat D. accoglieva
calorosamente i contadini. Dopo aver ascoltato i loro bisogni, forniva consigli
e consegnava sacchetti contenenti le preziose sementi.
Secondo Bsharat, la protezione della biodiversità agricola era solo uno dei
numerosi benefici di questa iniziativa: «I semi industriali sono più produttivi,
a condizione che siano associati a pesticidi, fertilizzanti chimici e
un’abbondante irrigazione. Non è possibile riprodurli e quindi devono essere
acquistati ogni anno. I nostri semi evitano tutte queste insidie. Sono rustici,
più resilienti di fronte al cambiamento climatico e alle malattie, e permettono
inoltre un’alimentazione più sana».
Quando l’esercito israeliano sradica gli ulivi
Tuttavia, per Israele, la sovranità alimentare dei palestinesi è una minaccia.
Il 31 luglio scorso, i bulldozer seguiti da uomini incappucciati e soldati
israeliani hanno saccheggiato la banca di sementi e demolito l’edificio. Secondo
l’Uawc, questo attacco era mirato a «impedire ai palestinesi di rimanere sulle
loro terre (4)».
Una settimana prima di questa spoliazione, il Parlamento israeliano aveva
approvato una mozione simbolica sull’annessione totale della Cisgiordania e
convalidato un piano di 275 milioni di dollari a beneficio delle colonie. A fine
agosto, in reazione a uno scambio di colpi d’arma da fuoco tra contadini e
coloni, l’esercito israeliano ha sradicato 10.000 ulivi – molti dei quali
secolari – nel villaggio di Al-Mughayyir, vicino a Ramallah.
Dal 1967, in totale, il governo israeliano ha sradicato più di 800.000 di questi
alberi e rasato al suolo con i bulldozer centinaia di chilometri di terre
agricole in Palestina (5).
Ma ad Al-Maleh, quando la giornata volge al termine, Ali continua a scherzare,
con il sorriso sulle labbra. Accende un braciere per scaldare il pasto e l’acqua
con cui lavarsi. Dietro di lui, la sagoma in filo spinato dell’avamposto
militare che domina la valle si staglia nel cielo. Si siede vicino al fuoco,
immobile come i massi attorno.
Le pietre non lasciano la valle, dice un proverbio palestinese.
(1) Jacques Marzin, Jean-Michel Sourrisseau e Ahmad Uwaidat, «Study on
small-scale agriculture in the Palestinian territories», Centro di cooperazione
internazionale nella ricerca agronomica per lo sviluppo (Cirad), Parigi, 2019.
(2) Si legga Aïda Delpuech, «En Israël, l’arbre est aussi un outil colonial», Le
Monde diplomatique, ottobre 2024.
(3) Bashar Abu Zarour, Amina Khasib, Islam Rabee e Shaker Sarsour, Economic
Monitor, n° 73, Palestine Economic Policy Research Institute – MAS, Ramallah,
2023.
(4) Philippe Pernot, «Israël attaque une banque de semences paysannes en
Cisjordanie occupée», 2 agosto 2025, https://reporterre.net
(5) Qassam Muaddi, «Israël voulait punir un village palestinien. Il a donc
détruit 10 000 de ses oliviers», 28 agosto 2025, https://agencemediap
Le Monde Diplomatique