Eredità digitale, che fine fanno i nostri dati dopo la morte?
Nel corso dell’ultimo decennio Internet, i social media e – non da ultima –
l’intelligenza artificiale hanno profondamente cambiato il nostro rapporto con
la morte. Il sogno dell’immortalità, che ha ossessionato per secoli studiosi di
ogni genere, oggi sembra essere in qualche modo diventato realtà. Senza che ce
ne accorgessimo, la tecnologia ha creato per ognuno di noi una “vita dopo la
morte”: una dimensione digitale in cui i nostri account social e di posta
elettronica, blog, dati personali e beni digitali continuano a esistere anche
dopo la nostra dipartita, rendendo di fatto la nostra identità eterna.
Questo, da un lato, ha aumentato la possibilità per le persone che subiscono un
lutto di sentirsi nuovamente vicine al defunto, tuffandosi negli album digitali
delle sue foto, rileggendo quello che ha scritto sulla sua bacheca di Facebook e
ascoltando le sue playlist preferite su Spotify.
“Può consentire anche di mantenere un dialogo con l’alter ego digitale della
persona cara defunta, che, attraverso algoritmi di deep fake, può arrivare a
simulare una videochiamata, mimando la voce e le sembianze del defunto; a
inviare messaggi e email, utilizzando come dati di addestramento le
comunicazioni scambiate durante la vita analogica”, osserva Stefania Stefanelli,
professoressa ordinaria di Diritto privato all’Università degli studi di
Perugia.
Dall’altro, rende però i dati personali delle persone scomparse un tesoretto
alla mercé dei criminali informatici, che possono violarne facilmente gli
account, utilizzarne le immagini in modo illecito e usarne le informazioni per
creare cloni digitali o deepfake, mettendo a rischio la sicurezza loro e dei
loro cari. Un pericolo da non sottovalutare, come anche l’eventualità che la
persona non gradisca che gli sopravviva un alter ego virtuale, alimentato coi
propri dati personali. Ma come fare, allora, per proteggere la propria eredità
digitale? A chi affidarla? E come?
EREDITÀ DIGITALE: COS’È E A CHI SPETTA DI DIRITTO
Oggi più che mai ci troviamo a esistere allo stesso tempo in due dimensioni
parallele, una fisica e una digitale. Questo, come riferisce il Consiglio
Nazionale del Notariato (CNN), ha portato a un ampliamento dei “confini di ciò
che possiamo definire eredità”, che sono arrivati a “comprendere altro in
aggiunta ai più canonici immobili, conti bancari, manoscritti o ai beni preziosi
contenuti nelle cassette di sicurezza”.
Si parla, allora, di eredità digitale, definita dal CNN come un insieme di
risorse offline e online. Della prima categoria fanno parte i file, i software e
i documenti informatici creati e/o acquistati dalla persona defunta, i domini
associati ai siti web e i blog, a prescindere dal supporto fisico (per esempio,
gli hard disk) o virtuale (come può essere il cloud di Google Drive) di
memorizzazione. La seconda categoria, invece, include le criptovalute e “tutte
quelle risorse che si vengono a creare attraverso i vari tipi di account, siano
essi di posta elettronica, di social network, account di natura finanziaria, di
e-commerce o di pagamento elettronico”. Rimangono esclusi i beni digitali
piratati, alcuni contenuti concessi in licenza personale e non trasferibile, gli
account di firma elettronica, gli account di identità digitale e le password.
Chiarito in cosa consiste l’eredità digitale, a questo punto viene da chiedersi:
a chi saranno affidati tutti questi beni quando la persona a cui si riferiscono
non ci sarà più? Rispondere a questa domanda è più difficile di quanto si possa
immaginare. Allo stato attuale non esiste infatti in Italia una legge organica,
il che crea negli utenti – siano essi le persone a cui i dati si riferiscono o i
parenti di un defunto che si ritrovano a gestire la sua identità in rete –
un’enorme confusione sulla gestione dei dati.
Nonostante si tratti di un tema particolarmente urgente, finora è stato trattato
soltanto dal Codice della Privacy, che prevede “che i diritti […] relativi ai
dati di persone decedute possano essere esercitati da chi abbia un interesse
proprio o agisca a tutela dell’interessato (su suo mandato) o per ragioni
familiari meritevoli di protezione”. Un diritto che non risulta esercitabile
soltanto nel caso in cui “l’interessato, quando era in vita, lo abbia
espressamente vietato”.
Di recente, poi, il Consiglio Nazionale del Notariato è tornato sul tema,
sottolineando l’importanza di “pianificare il passaggio dell’eredità digitale”,
considerando che “molto spesso le società che danno accesso a servizi, spazi e
piattaforme sulla rete internet hanno la propria sede al di fuori del territorio
dello Stato e dell’Europa”: in assenza di disposizioni specifiche sull’eredità
dei beni digitali, infatti, chiunque cerchi di accedere ai dati di una persona
defunta rischia di “incorrere in costose e imprevedibili controversie
internazionali”.
Per evitare che questo accada, è possibile investire una persona di fiducia di
un mandato post mortem, “ammesso dal nostro diritto per dati e risorse digitali
con valore affettivo, familiare e morale”. In termini legali, si tratta di un
contratto attraverso cui un soggetto (mandante) incarica un altro soggetto
(mandatario) di eseguire compiti specifici dopo la sua morte, come
l’organizzazione del funerale, la consegna di un oggetto e, nel caso delle
questioni digitali, la disattivazione di profili social o la cancellazione di un
account. In alternativa, “si può disporre dei propri diritti e interessi
digitali tramite testamento”, al pari di quanto già accade per i beni immobili,
i conti bancari e tutto il resto.
In questo modo, in attesa di una legislazione vera e propria sul tema, sarà
possibile lasciare ai posteri un elenco dettagliato dei propri beni e account
digitali, password incluse, oltre alle volontà circa la loro archiviazione o
cancellazione. “Ai sensi di questa disposizione, si può anche trasmettere a chi
gestisce i propri dati una dichiarazione, nella quale si comunica la propria
intenzione circa il destino, dopo la propria morte, di tali dati: la
cancellazione totale o parziale, la comunicazione, in tutto o in parte, a
soggetti determinati, l’anonimizzazione ecc. Si parla in questi termini di
testamento digitale, anche se in senso ‘atecnico’, in quanto la dichiarazione
non riveste le forme del testamento, sebbene sia anch’essa revocabile fino
all’ultimo istante di vita, e non contiene disposizioni patrimoniali in senso
stretto”, prosegue la professoressa Stefanelli.
EREDITÀ E PIATTAFORME DIGITALI: COSA SUCCEDE AGLI ACCOUNT DELLE PERSONE DEFUNTE?
Come anticipato, allo stato attuale non esiste una legge che regolamenta
l’eredità digitale, né in Italia né in Europa. Pertanto, nel corso degli ultimi
anni le piattaforme di social media e i grandi fornitori di servizi digitali si
sono organizzati per garantire una corretta gestione degli account di persone
scomparse, così da evitare di trasformarsi in veri e propri cimiteri digitali.
Già da qualche anno, per esempio, Facebook consente agli utenti di nominare un
contatto erede, ossia un soggetto che avrà il potere di scegliere se eliminare
definitivamente l’account della persona scomparsa o trasformarlo in un profilo
commemorativo, dove rimarranno visibili i contenuti che ha condiviso sulla
piattaforma nel corso della sua vita.
Al pari di Facebook, anche Instagram consente ai parenti di un defunto di
richiedere la rimozione del suo account o di trasformarlo in un account
commemorativo. In entrambi i casi, però, sarà necessario presentare un
certificato che attesti la veridicità del decesso della persona in questione o
un documento legale che dimostri che la richiesta arriva da un esecutore delle
sue volontà.
TikTok, invece, è rimasto per molto tempo lontano dalla questione dell’eredità
digitale. Soltanto lo scorso anno la piattaforma ha introdotto la possibilità di
trasformare l’account di una persona defunta in un profilo commemorativo, previa
la presentazione di documenti che attestino il suo decesso e un legame di
parentela con l’utente che sta avanzando la richiesta. In alternativa, al pari
di quanto accade per Facebook e Instagram, è possibile richiedere l’eliminazione
definitiva dell’account del defunto.
Ma non sono solo le piattaforme social a pensare al futuro dei propri utenti.
Dal 2021, Apple consente agli utenti di aggiungere un contatto erede, così da
permettere a una persona di fiducia di accedere ai dati archiviati nell’Apple
Account, o “di eliminare l’Apple Account e i dati con esso archiviati”. Google,
invece, offre agli utenti uno strumento avanzato per la gestione dei dati di una
persona scomparsa. La “gestione account inattivo” consente infatti di “designare
una terza parte, ad esempio un parente stretto, affinché riceva determinati dati
dell’account in caso di morte o inattività dell’utente”.
Più nel dettaglio, la piattaforma permette di “selezionare fino a 10 persone che
riceveranno questi dati e scegliere di condividere tutti i tipi di dati o solo
alcuni tipi specifici”, oltre alla possibilità di indicare il periodo di tempo
dopo il quale un account può davvero essere considerato inattivo. Nel caso in
cui un utente non configuri “Gestione account inattivo”, Google si riserva il
diritto di eliminare l’account nel caso in cui rimanga inattivo per più di due
anni.
EREDITÀ DIGITALE E DEADBOT: UN RISCHIO PER LA SICUREZZA?
Anche l’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale generativa ha
contribuito a cambiare il nostro rapporto con la morte. E le aziende che li
sviluppano si sono spinte fino a cercare una soluzione pratica al dolore causato
dalla scomparsa di una persona cara. Basti pensare alla rapida diffusione dei
deadbot, ovvero dei chatbot che permettono ad amici e familiari di conversare
con una persona defunta, simulandone la personalità. Uno strumento che, da un
lato, può rivelarsi utile ai fini dell’elaborazione del lutto, ma dall’altro
rappresenta un rischio notevole per la privacy e la sicurezza degli individui.
Per permettere all’AI di interagire con un utente come farebbe una persona
scomparsa, questa ha bisogno di attingere a una quantità notevole di
informazioni legate alla sua identità digitale: account social, playlist
preferite, registro degli acquisti da un e-commerce, messaggi privati, app di
terze parti e molto altro ancora. Un uso smodato di dati sensibili che, allo
stato attuale, non è regolamentato in alcun modo.
E questo, al pari di quanto accade con l’eredità digitale, rappresenta un
problema non indifferente per la sicurezza: come riferisce uno studio condotto
dai ricercatori dell’Università di Torino, quando i dati del defunto non sono
“sufficienti o adeguati per sviluppare un indice di personalità, vengono spesso
integrati con dati raccolti tramite crowdsourcing per colmare eventuali lacune”.
Così facendo, “il sistema può dedurre da questo dataset eterogeneo aspetti della
personalità che non corrispondono o non rispondono pienamente agli attributi
comportamentali della persona”. In questo caso, i deadbot “finiscono per dire
cose che una persona non avrebbe mai detto e forniscono agli utenti
conversazioni strane, che possono causare uno stress emotivo paragonabile a
quello di rivivere la perdita”. Non sarebbe, quindi, solo la privacy dei defunti
a essere in pericolo, ma anche la sicurezza dei loro cari ancora in vita.
Pur non esistendo una legislazione specifica sul tema, l’AI Act dell’Unione
Europea – una delle normative più avanzate sul tema – fornisce alcune
disposizioni utili sulla questione, vietando “l’immissione sul mercato, la messa
in servizio o l’uso di un sistema di IA che utilizza tecniche subliminali che
agiscono senza che una persona ne sia consapevole” e anche “l’immissione sul
mercato, la messa in servizio o l’uso di un sistema di IA che sfrutta le
vulnerabilità di una persona fisica o di uno specifico gruppo di persone (…),
con l’obiettivo o l’effetto di distorcere materialmente il comportamento di tale
persona”.
Due indicazioni che, di fatto, dovrebbero proibire l’immissione dei deadbot nel
mercato europeo, ma che non forniscono alcuna soluzione utile alla questione
della protezione dei dati personali di una persona defunta, che rimane ancora
irrisolta. Nel sistema giuridico europeo la legislazione sulla protezione dei
dati non affronta esplicitamente né il diritto alla privacy né le questioni
relative alla protezione dei dati delle persone decedute.
Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), infatti, “non si
applica ai dati personali delle persone decedute”, anche se “gli Stati membri
possono prevedere norme riguardanti il trattamento dei dati personali delle
persone decedute”. Una scelta considerata “coerente con il principio
tradizionale secondo cui le decisioni di politica legislativa che incidono sul
diritto di famiglia e successorio, in quanto settori caratterizzati da valori
nazionali strettamente correlati alle tradizioni e alla cultura della comunità
statale di riferimento, esulano dalla competenza normativa dell’Unione
europea”.
Non esistendo una legislazione valida a livello europeo, i governi nazionali
hanno adottato approcci diversi alla questione. La maggior parte delle leggi
europee sulla privacy, però, sostiene un approccio basato sulla “libertà dei
dati”: paesi come Belgio, Austria, Finlandia, Francia, Svezia, Irlanda, Cipro,
Paesi Bassi e Regno Unito, quindi, escludono che le persone decedute possano
avere diritto alla privacy dei dati, sostenendo che i diritti relativi alla
protezione dell’identità e della dignità degli individui si estinguono con la
loro morte.
Secondo questa interpretazione, le aziende tech potrebbero usare liberamente i
dati delle persone decedute per addestrare un chatbot. Fortunatamente non è
proprio così, considerando che in questi paesi entrano in gioco il reato di
diffamazione, il diritto al proprio nome e alla propria immagine, o il diritto
alla riservatezza della corrispondenza. Al contrario, invece, paesi come
l’Estonia e la Danimarca prevedono che il GDPR si applichi anche alle persone
decedute, a cui garantiscono una protezione giuridica per un limite preciso di
tempo (10 anni dopo la morte in Danimarca, e 30 in Estonia). E così anche Italia
e Spagna, che garantiscono una protezione dei dati dei defunti per un tempo
illimitato.
Pur mancando una legislazione europea uniforme, il GDPR lascia agli Stati membri
la facoltà di regolare il trattamento dei dati personali delle persone defunte,
e questo comporta differenze, anche sostanziali, delle legislazioni nazionali.
Con l’avvento dell’AI e gli sviluppi rapidi che questa comporta, però, diventa
sempre più necessario stilare una normativa chiara, precisa e uniforme sulla
questione. Così da rispettare non solo la privacy dei nostri cari, ma anche il
dolore per la loro perdita.
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