Dal fiume al mare
Demonizzare, prendere le distanze, o anche solo disertare le manifestazioni e le
iniziative per la Palestina che si svolgono da mesi (e anni) in tutto il mondo,
pur non avendo nessuna intenzione di sostenere il genocidio messo in atto da
Israele perché, tra decine, centinaia e migliaia di striscioni e cartelli ce n’è
uno che inneggia al 7 ottobre è come guardare il dito (orribile) e non vedere la
luna (bellissima).
E’ noto che, quali ne siano i promotori, l’adesione di massa a queste
manifestazioni è il frutto di molteplici reti informali che non sono
organizzazioni, non hanno “servizi d’ordine”, ma soprattutto non hanno
“autorità” in grado di decidere chi ha diritto di sfilare e chi no. Il senso
vero di queste mobilitazioni sta tutto nel numero e nella giovanissima età dei
partecipanti, e nel loro spirito al tempo stesso disperato, per quel che
succede, e gioioso, per il fatto di esserci: nel rovesciamento di quella cappa
di conformismo complice che caratterizza il “mondo politico” nei cinque
continenti.
Ma che ne è di quel “Dal fiume al mare – Palestina libera!” gridato (in inglese)
da tutti, che è lo slogan di Hamas? Non è solo “lo slogan di Hamas”; è lo slogan
di tutte e di tutti i partecipanti a quelle mobilitazioni, a cui ciascuno da un
senso differente. Ma forse che tra quel fiume e quel mare c’è qualche parte del
territorio in cui la Palestina, cioè i palestinesi, non debbano o non possano
voler essere liberi? Certo c’è chi interpreta quello slogan come la soppressione
di Israele, anche se ben pochi pensano che se in un domani, per non si sa quali
circostanze, le sorti del conflitto si invertissero, ciò debba comportare la
cacciata o l’eliminazione di tutti gli ebrei insediati in Israele, come oggi le
destre sioniste messianiche invocano apertamente discriminazione, sottomissione,
cacciata e sterminio di tutti i palestinesi che si trovano tra il fiume e il
mare.
Ma per i più, per coloro che riempiono le mobilitazioni e le altre iniziative
per la Palestina che si moltiplicano in tutto il mondo, dal fiume al mare dovrà
essere un territorio in cui ci sia posto per tutte e per tutti: ebrei,
musulmani, cristiani, drusi, laici autoctoni e immigrati. Tutti e tutte messe in
grado di godere degli stessi diritti. Perché nelle mobilitazioni per la
Palestina, ma anche in molte di quelle che vedono come protagoniste le nuove
generazioni in tante parti del mondo, c’è molto di più della sola solidarietà e
di una prospettiva di pace che riscatti la condizione di chi oggi è oppresso nel
più crudele, cinico e ipocrito dei modi. C’è un’aspettativa e un’aspirazione a
rovesciare lo stato di cose presente.
Tornando al fiume e al mare, il problema è il “come?”. Si aprono divergenze che
non riguardano solo la Palestina di domani, ma in qualche modo il futuro di
tutto il mondo di oggi. Perciò questa vicenda attrae l’attenzione generale,
anche se in altre regioni massacri, esecuzioni, distruzioni, fame e stermini
sono, se possibile, persino più estesi o spietati di quelli messi in atto da
Israele.
Allora? “Due popoli e due Stati”? Non ci crede più nessuno: quello che dovrebbe
esse lo Stato di Palestina è completamente devastato nella Striscia di Gaza e
divorato da insediamenti e “avamposti” di coloni israeliani in Cisgiordania.
Diviso in zone non contigue, privo di una propria economia, messo continuamente
in forse dalla prepotenza di Israele, non ha alcuna chance di esistere se non
come appendice del suo potente antagonista. D’altronde, nei piani di pace, la
“striscia” è destinata a diventare una proprietà privata altrui, riaprendo le
porte alla colonizzazione israeliana sotto forma di investimenti immobiliari,
mentre la Cisgiordania resterà comunque un’area di occupazione dove i
palestinesi avranno sempre meno possibilità di vivere in pace.
Un unico Stato, allora? Ormai lo prospettano tutti coloro che si rifiutano di
usare “due popoli, due Stati” come specchietto per le allodole e alibi per
evitare di confrontarsi con la realtà. Ma quale Stato? Per alcuni non c’è
alterativa all’annessione a Israele di tutta la Palestina. Non lo dicono
apertamente, ma non prospettano alcun possibile esito diverso. Per altri, invece
– e lo dicono apertamente già nei titoli dei loro libri, come Il suicidio di
Israele, o La fine di Israele – sarà il genocidio in corso e il modo in cui si è
innestato nella guerra che Israele conduce contro la Palestina dalla sua
nascita, o dal 1967, a decretarne la fine: non quella della comunità ebraica
ormai insediata da tre o più generazioni su quella terra, ma quella del suo
Stato, insidiato dal contrasto incontenibile tra messianici e laici; per aprire
la strada a una nuova entità statale di cui non si sa, o non si sa ancora,
enunciare né nome né connotati.
Anche lo storico Ilan Pappé (in La fine di Israele citato), tra quelli che si
spingono di più in questa direzione, non arriva a confrontarsi con i due
problemi principali – non che siano gli unici! – di questa prospettiva, che non
è solo la convivenza e la tolleranza tra due comunità nemiche. Il primo è il
“diritto al ritorno”: non quello che apre le porte di Israele a chiunque
dimostri o dichiari di essere ebreo, e con cui i governi di quello Stato hanno
popolato il suo territorio per decenni, bensì quello della risoluzione 194
dell’Onu che lo riconosce ai profughi palestinesi della Nakba del ’47, ‘48 e ’49
e anni seguenti che si trovano nei campi, sia in Palestina che all’estero,
soprattutto in Libano, Siria, Giordania ed Egitto. Allora erano quasi un
milione; oggi sono cinque volte tanto. Pappé ritiene che “tra il fiume e il
mare” ci sia posto per tutti, tanto più che molti ebrei se ne stanno andando o
lasceranno Israele nei prossimi anni. Ma come risolvere il problema della
restituzione di beni, case, terreni e interi villaggi nel frattempo occupati da
generazioni di cittadini ebrei di Israele? E quello delle relative
compensazioni? E’ evidente che non potrà esserci una soluzione univoca,
centralizzata e meno che mai immediata. Dovrà essere un processo graduale,
decentrato e negoziato caso per caso – cosa che non può essere fatta se non da
comunità il più possibile autonome – sotto una sorveglianza ferrea di qualche
entità “terza”. Un’entità che abbia il controllo della forza.
Questo richiede non solo il disarmo di Hamas, ma anche lo smantellamento
dell’esercito israeliano (uno dei più potenti del mondo!) e del suo arsenale,
compreso quello nucleare; un potere che nessun israeliano e nessun palestinese
potrà mai accettare venga messo in mano a un governo e a uno Stato maggiore di
ufficiali civili e militari “misti”.
Pappé adombra, senza misurarsi fino in fondo con le sue implicazioni, l’ipotesi
che la soluzione possibile di questo garbuglio stia nel superamento o nella
dissoluzione, innanzitutto in terra di Palestina, ma non solo, dello “Stato
vestfaliano” (un territorio, un popolo, un potere statuale, e anche una
religione o una cultura, che coincidono), sostituito da una libera associazione
e convivenza di comunità autonome in grado di negoziare i reciproci rapporti:
come era, almeno in parte, la coesistenza di comunità etniche e religiose
differenti sotto l’Impero Ottomano, sottoposte al suo dominio e controllo ma
capaci di convivere e di contaminarsi reciprocamente, prima che le potenze
vincitrici della Prima Guerra Mondiale le smembrassero per costituirle in Stati
(coloniali) separati e divisi da confini disegnati a tavolino: la vera origine
del caos che da allora caratterizza il Medio Oriente.
Una prospettiva già in parte delineata e realizzata dalla Confederazione
democratica del Rojava, ma che, proprio per le difficoltà e le problematiche
della sua realizzazione esplora la strada che dovrà essere percorsa per superare
gli attuali assetti politici, ma soprattutto quelli sociali, economici e
culturali, anche in tutto il resto del mondo.
Guido Viale