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La stagione delle piogge e i rituali in Palestina
Nel mio villaggio di Qira, vicino a Salfit, come in molti villaggi palestinesi, aspettiamo le prime gocce di pioggia con un misto di desiderio e inquietudine. La pioggia non è solo l’inizio della stagione agricola, è la rassicurazione che la vita può continuare nonostante tutto ciò che accade intorno a noi. In un’epoca di frammentazione della terra, di risorse idriche limitate e di ostacoli quotidiani affrontati dagli agricoltori, l’arrivo di al-ghayth sembra sia una grazia che una forma di resistenza silenziosa, un sottile promemoria che la vita e la speranza persistono nonostante l’oppressione. Ogni ottobre, quando il cielo si addolcisce e la terra ricomincia a respirare, mi ricordo che, per quanto pesante possa diventare il fardello dell’occupazione, il ciclo delle stagioni rimane l’unica certezza che Israele non può confiscare né controllare. La pioggia è identità, continuità, memoria. Ci lega agli antenati che hanno letto il cielo con secoli di saggezza e ci ancora alla terra in modi più profondi di qualsiasi atto di proprietà. Mi ricorda i bambini del villaggio che corrono per raccogliere le gocce d’acqua, ridendo e giocando, ignari delle difficoltà della giornata, ma pienamente parte di questo ritmo eterno. Mi ricorda anche gli anziani che raccontano storie delle stagioni passate, con gli occhi che si illuminano mentre parlano dei tipi di precipitazioni e dei segni naturali che hanno osservato per decenni. Crescendo a Qira, ho imparato che il cuore dei contadini è plasmato dalla pioggia: dai suoi tempi, dalla sua intensità e dalla sua generosità. Le piogge determinavano se le famiglie potevano seminare i campi, immagazzinare il grano per l’inverno o affrontare difficoltà. Ancora oggi, nonostante le previsioni satellitari e i moderni bollettini meteorologici, i contadini continuano a guardare le nuvole con la stessa pazienza ancestrale. I vecchi proverbi circolano e il calendario popolare guida silenziosamente coloro che si fidano della terra più che delle notizie. Quando parlo con gli anziani del mio villaggio, descrivono il tempo come se leggessero il polso della terra stessa. È un linguaggio di intuizione e osservazione tramandato da secoli, che lega ogni generazione alla terra e l’una all’altra. La stagione delle piogge in Palestina Il clima della Palestina si divide in due stagioni principali: l’estate secca (da maggio a ottobre) e l’inverno piovoso (da metà ottobre ad aprile). In una terra che dipende dalle piogge stagionali, le prime piogge erano una promessa di sopravvivenza. L’acqua ha plasmato l’agricoltura e quindi è diventata centrale nella memoria culturale. Nel corso delle generazioni, i palestinesi hanno sviluppato un calendario stagionale dettagliato basato sull’attenta osservazione del cielo, delle nuvole, dei venti e della terra stessa. Quello che agli occhi degli estranei può sembrare semplice folklore è, in realtà, una precisa registrazione ambientale, trasmessa oralmente nel corso dei secoli, che guida le azioni e le aspettative dei contadini in un paesaggio fragile. 1) La pioggia iniziale: Wasm L’anno agricolo inizia con una leggera pioggia precoce alla fine di settembre o all’inizio di ottobre, chiamata Matarat al-Saleeb o Shitwet al-Masateeh. Simboleggia la purificazione della terra e il ritorno dalle dimore estive (al-manateer) per iniziare la raccolta delle olive, la stagione più emozionante per molte famiglie palestinesi. Queste prime piogge erano più che semplice acqua: erano una benedizione, ritenuta portatrice di proprietà curative sia per la terra che per le persone. Poi arriva la pioggia Wasm, che “segna” la terra per la stagione invernale. Si manifesta durante i mesi di ottobre e novembre in due fasi: – Wasm Badri (Wasm precoce) in ottobre: essenziale per la crescita dei semi precoci (al-afeer), segnala agli agricoltori che possono iniziare a preparare gli aratri. – Wasm Wakhri (Wasm tardivo) in novembre: ammorbidisce ulteriormente il terreno, preparandolo per i lavori agricoli più impegnativi prima delle piogge invernali più intense. Proverbio: “In awsamet ‘a Eed Lidd u’hurt w’id” (Se piove durante la Festa di Lid, inizia ad arare e a seminare). 2) Le forti piogge invernali Da dicembre a marzo cadono le piogge più intense, vera linfa vitale dell’agricoltura palestinese. Queste piogge saturano il terreno, riempiono stagni e cisterne e ricaricano le sorgenti da cui molti villaggi dipendevano molto prima che esistessero le reti idriche municipali. Questa fase comprende il Marba’aniyyah e il Khamsiniyyah, due fasi dell’inverno che insieme formano circa novanta giorni, la spina dorsale della stagione delle piogge. – Marba’aniyyah (dal 21 dicembre alla fine di gennaio): i quaranta giorni più freddi e decisivi. “Berd Kawaneen ahad min al-sakakeen” (Il freddo di Kanouns è più tagliente dei coltelli). “Ya shams tihriq ya matar tighriq” (O il sole brucia o la pioggia annega). – Khamsiniyyah (50 giorni dopo Marba’aniyyah): quattro periodi chiamati al-su’oudat, che segnano l’attenuarsi del freddo e i primi segni della primavera. Al-Mustaqridhat (I giorni presi in prestito) Fine febbraio-inizio marzo. Una leggenda tramandata da generazioni narra di una vecchia donna che derideva febbraio perché era secco. Febbraio “prese in prestito” giorni da marzo e le mandò piogge intense e tempeste. Da qui il detto: “Adhar Abu al-Zalazil w’al-Amttar” (Marzo, padre dei terremoti e delle piogge). 3) La pioggia di fine primavera Da metà marzo fino ad aprile, e talvolta fino all’inizio di maggio, arriva la pioggia tardiva: piogge più leggere ma fondamentali per la crescita di grano, orzo e fagioli poco prima della maturazione. “Shitwet Nissan b’tihyee al-Insaan” (la pioggia di aprile dà la vita). “Tiswa al-sikkah w’al-faddan” (vale la pena arare con i buoi). La pioggia dopo la fine di aprile può danneggiare i fiori di olivo, quindi gli agricoltori pregano per i venti caldi smoum: “Ya Rabb al-Smoum ‘ind ‘aqd al-Zaytoun” (Oh Dio, manda venti caldi quando gli olivi danno i loro frutti). Neve La neve è rara ma rimane impressa nella memoria. Cade principalmente nelle zone montuose della Galilea, Gerusalemme, Ramallah, Hebron e Nablus, soprattutto nei mesi di dicembre e gennaio, ma talvolta anche in febbraio o marzo. Alcuni anni sono entrati a far parte della memoria collettiva, come la neve del 1920 e quella del 1950, quando i cumuli raggiungevano le ginocchia e i villaggi rimasero isolati per giorni. Gli anziani ricordano questi inverni come segni del tempo, insegnando alle giovani generazioni come adattarsi al clima e conservare le provviste per le difficoltà impreviste. Il sistema di previsione delle piogge nel patrimonio popolare palestinese Molto prima della meteorologia moderna, i contadini palestinesi avevano costruito un sofisticato sistema di previsione meteorologica basato sull’astronomia, i venti, i segni naturali e il comportamento degli animali. Non si trattava di superstizione, ma di un’intelligenza ecologica accumulata, che rifletteva un profondo legame con l’ambiente e i suoi cicli. Segni astronomici Il sorgere di Suhail (Canopo) preannunciava inondazioni: «Itha tala‘Suhail la ta’min al-sayl». Il tramonto di al-Thurayya (Pleiadi) segnalava l’arrivo delle piogge: «Al-Thurayya b’tghib ‘a sadd habis». Gli aloni intorno alla luna o al sole all’inizio dell’autunno indicavano abbondanti piogge invernali. Venti e cambiamenti atmosferici I venti da sud-ovest (al-hawa al-Masri) erano accolti come “la porta dell’inverno”. I venti da est (al-sha‘louba) erano temuti perché portavano la siccità: “Sanat al-Sharaqi b’door ma b’tlaqi.” Indicatori naturali e pratiche popolari Arcobaleno mattutino: cielo sereno. Arcobaleno pomeridiano: pioggia notturna. Rugiada e nebbia a fine estate sono segno di un buon raccolto. I cumuli di sale durante la Festa della Croce predicono quali mesi saranno piovosi o secchi. Comportamento degli animali Arrivo degli storni: “Fi sanat al-Zarzour, uhruth fi al-boor”. Pernice delle sabbie: “Sanat al-Qata, bee‘al-ghata”. Piccioni: la nidificazione precoce indicava un anno benedetto. Le mucche che alzavano la testa verso il cielo segnalavano la pioggia. L’emergere di vermi, scorpioni e serpenti indicava un aumento delle temperature: “B’Sa’d al-Khabaaya b’titla’ al-‘Aqarib w’al-Hayaya”. Anche le nascite umane venivano interpretate simbolicamente: “Sanat al-Fuhoul mahouleh” (gli anni di nascita maschili significano siccità), “Sanat al-Banat nabat” (gli anni di nascita femminili significano benedizione). Conclusione La pioggia non è mai stata un evento banale nella coscienza palestinese, ma l‘asse della vita e un simbolo di sopravvivenza. Gli agricoltori l’aspettavano con speranza, paura e preghiere. Il calendario stagionale e il sistema di previsione testimoniano l’intuizione degli antichi agricoltori che trasformavano le loro preoccupazioni in conoscenze pratiche. Questo patrimonio rivela un profondo legame tra le persone, la terra e il cielo, che unisce generazioni attraverso i secoli. Per me, la prima pioggia a Qira porta ancora con sé il profumo della terra che sale come incenso dal suolo, ricordandoci che, nonostante tutte le pressioni, la terra continua a respirare. Guardando i bambini giocare nelle pozzanghere e ascoltando gli anziani discutere delle nuvole e delle previsioni, sento un profondo legame che abbraccia le generazioni. Finché la pioggia cadrà sulla Palestina, il nostro legame con questa terra rimarrà intatto, una testimonianza vivente di resilienza, memoria e speranza. di Fareed Taamallah articolo originale https://www.middleeastmonitor.com/20251129-rain-season-and-the-rituals-of-predicting-the-rain-in-palestinian-heritage/   Redazione Piemonte Orientale
I coloni che uccidono i contadini palestinesi
Sulle colline della Cisgiordania occupata, ogni giorno si consuma una strana e dolorosa ironia: gli stessi coloni israeliani che si appropriano della terra palestinese, bruciano i nostri ulivi e sparano ai nostri contadini, ora imitano proprio quello stile di vita che stanno distruggendo. Come contadino palestinese, ogni ottobre, quando passa il Giorno della Croce (Youm Al-Salib), cadono le prime gocce di pioggia e il colore delle olive comincia a cambiare, so che la stagione è arrivata. L’aria si fa pesante per l’umidità e la promessa di nuovo olio. Prendo i miei attrezzi, raduno la mia famiglia e scendo nei campi. Sono rituali antichi, tramandati da mia madre, che conosceva a memoria i segni della terra: quando potare, quando raccogliere, quando riposare. La terra profuma di timo e terra bagnata; gli uccelli cantano come se benedicessero la stagione. Per un attimo sembra prevalere la pace, finché il mio sguardo non cade sulla cima della collina e vedo i coloni accampati sul crinale, con i fucili in spalla, che giocano a fare i contadini negandoci il diritto di coltivare la nostra terra. È come uccidere la vittima e poi partecipare al suo corteo funebre. Occupazione e appropriazione culturale Occupano le cime delle montagne che sovrastano i nostri villaggi, dove un tempo i pastori pascolavano le loro greggi e gli agricoltori coltivavano i terrazzamenti scavati dai loro antenati. Hanno deturpato il paesaggio autoctono della nostra terra natale. Odiano noi, il popolo di questa terra, disprezzano la nostra lingua, la nostra musica e la nostra cultura, eppure imitano le nostre tradizioni rurali come se fossero le loro. Negli ultimi anni, gli avamposti illegali dei coloni sono proliferati in tutta la Cisgiordania. Da queste colline, i coloni molestano i pastori, rubano i raccolti di olive e cacciano le famiglie dalle loro terre ancestrali. Secondo B’Tselem e ARIJ, la violenza dei coloni ha raggiunto livelli record: migliaia di attacchi ogni anno contro agricoltori, case e frutteti palestinesi. L’OCHA delle Nazioni Unite ha documentato un aumento di oltre il 45% degli attacchi rispetto allo scorso anno. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro terre. L’obiettivo è chiaro: cancellare la popolazione indigena, rubando non solo la terra, ma anche lo stile di vita, il folklore e la cucina. Eppure, su quelle stesse colline, i coloni celebrano matrimoni sotto gli ulivi, raccolgono le olive a mano, cucinano la shakshuka – pomodori fritti in olio d’oliva con uova – su fuochi a legna, preparano il tè in teiere di latta annerite e suonano lo shibabeh, il flauto che risuona nei villaggi palestinesi da Jenin a Hebron. Indossano camicie di cotone grezzo, costruiscono piccoli giardini – hakura – e si comportano come se avessero ereditato un legame con la terra che hanno solo rubato. Lo chiamano “ritorno alla natura”, ma è una messinscena, un tentativo disperato di fabbricare un senso di appartenenza dove non esiste. La loro imitazione non è ammirazione, è appropriazione nata da un complesso di illegittimità. Nel profondo, sanno di essere stranieri qui. Sentono il vuoto dello sradicamento e cercano di colmarlo con simboli presi in prestito e tradizioni rubate. È una tragedia di contraddizioni: distruggono l’ulivo ma desiderano la sua ombra; cacciano il contadino ma invidiano la sua semplicità; occupano la terra ma imitano la vita di coloro che hanno espropriato. Il loro desiderio di apparire autoctoni mette a nudo la loro alienazione. La terra come identità Per noi palestinesi, la terra non è uno stile di vita o una fuga nel fine settimana: è storia, memoria e identità. Ogni ulivo porta con sé le storie di generazioni. Ogni appezzamento porta un nome arabo o siriaco legato alla memoria delle persone che hanno vissuto qui per millenni. Ogni sorgente ha un nome, ogni terrazza una storia. Ogni pietra è stata sollevata da mani che amavano questo suolo e ne conoscevano i segreti. Quando vedo i coloni nuotare nelle nostre sorgenti, costruire tavoli da picnic vicino ai nostri pozzi o organizzare matrimoni con musica folk palestinese, provo più che rabbia. È un dolore misto a incredulità, un senso di violazione della terra e del suo significato. Distruggono le radici e poi fingono di essere radicati. Uccidono i contadini e poi cantano le loro canzoni. Possono copiare i gesti di appartenenza, ma non possono ereditarne l’anima. Possono cucinare la shakshuka, ma non potranno mai assaporarla come noi, condita con il lavoro, la pazienza e la nostalgia. Possono cantare le nostre canzoni, ma le loro voci non trasmetteranno mai l’amore e il dolore che le hanno plasmate. La nostra essenza è fatta dell’argilla di questo paese. La terra ricorda La loro imitazione rivela una profonda verità: lo stile di vita palestinese è l’espressione autentica di questa terra. I coloni vogliono apparire come nativi, mimetizzarsi nel paesaggio e cancellare i segni visibili dell’occupazione. Ma per quanto possano imitare, la loro presenza rimane un’intrusione violenta. Non possono cancellare la verità con l’olio d’oliva o coprire l’ingiustizia con una melodia popolare. Non si può diventare indigeni rubando la terra o imitando la sua gente. L’appartenenza nasce dalla giustizia, non dall’imitazione. Finché i coloni continueranno a uccidere i contadini, a rubare i raccolti di olive e a cacciare le famiglie dalle loro case, i loro tentativi di mettere radici rimarranno vani. Possono occupare le colline, ma non possono occupare la verità. Quando mi trovo tra i miei ulivi al tramonto, sento il loro silenzio parlare. Ricordano le generazioni che li hanno curati, le mani che li hanno innaffiati, le canzoni cantate alla loro ombra e i passi che hanno tracciato i terrazzamenti. Hanno visto conquistatori andare e venire, eppure rimangono lì, saldi, radicati nella giustizia, nella memoria e nell’appartenenza. I coloni possono imitare la nostra vita, ma non possono imitare il nostro amore per questa terra: l’amore non può essere finto e le radici non possono essere trapiantate con la forza. Possono prendere in prestito le nostre canzoni, il nostro cibo e le nostre usanze, ma non possono ereditare i secoli di cura, sudore e devozione che hanno plasmato questa terra e la sua gente. Questa terra riconoscerà sempre i propri figli: quelli la cui pelle porta la sua polvere, la cui lingua è nata dalle sue colline, le cui canzoni si levano con il suo vento. La nostra pelle ha il colore del suo suolo, i nostri cuori battono al suo ritmo. Nessuna imitazione, violenza o occupazione potrà mai cambiare questa verità. Gli ulivi sopravviveranno a tutti loro, e così faremo anche noi. di Fareed Taamallah Traduzione di Nazarena Lanza Versione originale in inglese su Middle East Monitor: The settlers who kill Palestinian farmers and imitate their lives Redazione Piemonte Orientale
Il piano di Trump non prevede né giustizia né pace
Ho saltato la raccolta delle olive nel mio villaggio vicino a Nablus per ascoltare il tanto atteso discorso di Donald Trump davanti alla Knesset israeliana e il successivo vertice a Sharm el-Sheikh. Avevo sperato, forse ingenuamente, che il presidente degli Stati Uniti, che ora ricopre nuovamente un ruolo centrale nella diplomazia mediorientale, potesse finalmente riconoscere le sofferenze dei palestinesi o offrire una visione autentica per la pace. Invece, ciò che ho sentito mi ha lasciato profondamente deluso, arrabbiato. Trump ha parlato per quasi un’ora, pieno di autocompiacimento ed elogi esagerati per la “resilienza” di Israele dopo il 7 ottobre. Lo ha definito uno dei giorni più bui di Israele, ripetendo storie di dolore, paura ed eroismo israeliani. Ma non ha mai menzionato il genocidio in corso a Gaza: le decine di migliaia di civili palestinesi uccisi, le famiglie sepolte sotto le macerie, i bambini affamati intrappolati in quello che è diventato il più grande cimitero a cielo aperto del mondo. Sembrava orgoglioso, persino vanaglorioso, del suo ruolo nell’armare Israele. Si è vantato di come la sua amministrazione “abbia sostenuto Israele come nessun altro” e ha ricordato al pubblico che è stato lui a trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme e a riconoscere come “legittimi” gli insediamenti israeliani illegali. Ha detto tutto questo come se regalare la nostra terra fosse un atto di pace. Come palestinese che vive sotto occupazione, ho sentito che le sue parole non erano solo ignoranti, ma crudeli. Hanno cancellato la nostra umanità. Hanno cancellato 77 anni di sfollamento e oppressione dei palestinesi. Hanno cancellato i posti di blocco che dividono le nostre vite, i muri che soffocano i nostri villaggi e i soldati che umiliano quotidianamente i nostri anziani e i nostri bambini. Mentre Trump parlava a Gerusalemme, il mio caro amico a Gaza era alla ricerca di cibo e riparo per la sua famiglia dopo che la loro casa era stata distrutta dai bombardamenti israeliani. Vive con sua moglie e i suoi figli in una piccola tenda, lontano dal loro quartiere distrutto. In un breve messaggio vocale che mi ha inviato, con il rumore dei droni che ronzavano sopra di lui, mi ha detto che avevano mangiato solo un po’ di cibo in due giorni. Mentre Trump si vantava di “sostenere la difesa di Israele”, il mio amico lottava per difendere la sua famiglia dalla fame, dal freddo e dalla disperazione, non da un esercito, ma da una macchina da guerra che ha ridotto la sua vita in macerie. Il cosiddetto “piano di pace” di Trump, presentato ancora una volta con grande clamore, non offre nulla che assomigli alla pace. Non è nemmeno un piano: è la continuazione della stessa logica coloniale che ha caratterizzato ogni iniziativa americana fallita dal 1948: garantire il dominio di Israele mentre si pacificano i palestinesi fino alla sottomissione. Da quanto abbiamo visto, il “piano” non affronta nemmeno la causa principale del conflitto: l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Parla vagamente di “opportunità economiche” e “cooperazione regionale”, come se ciò di cui abbiamo bisogno fossero più posti di lavoro invece della libertà. Promette “sicurezza per Israele”, ma nulla riguardo alla sicurezza dei palestinesi che vivono sotto costante assedio militare. Celebra la normalizzazione tra Israele e i regimi arabi, ignorando la normalizzazione dell’apartheid e delle espropriazioni ai danni dei palestinesi. Questa non è pace. È un miraggio politico progettato per guadagnare tempo affinché Israele possa continuare il suo progetto di colonizzazione. Ricordo l’ultima volta che Trump ha presentato un “accordo del secolo”, nel 2020. Anche allora era in piedi accanto ai leader israeliani, escludendo completamente i palestinesi dal processo. Quel piano, come questo, cercava di legalizzare l’illegale: l’annessione degli insediamenti, la negazione dei diritti dei rifugiati e la frammentazione permanente del territorio palestinese. La differenza ora è che la distruzione di Gaza e l’inasprimento del controllo di Israele sulla Cisgiordania hanno reso tali piani ancora più grotteschi. Quando Trump si è presentato davanti alla Knesset e ha descritto Israele come «un faro di democrazia e civiltà», ho pensato agli ulivi sradicati vicino al mio villaggio dai coloni sotto la protezione dell’esercito. Ho pensato alle centinaia di posti di blocco che ci impediscono di raggiungere la nostra terra. Ho pensato ai miei amici a Gaza che non hanno trascorso una sola notte in sicurezza in due anni. È questa la «civiltà» che lui elogiava? Per noi palestinesi, la pace non ha mai significato semplicemente l’assenza di guerra. Pace significa giustizia. Significa responsabilità per i crimini di guerra. Significa il diritto di vivere liberamente sulla nostra terra senza occupazione, senza assedio, senza paura. Al vertice di Sharm el-Sheikh, Trump è stato affiancato dal presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi e da diversi funzionari arabi. Tutti hanno parlato lo stesso linguaggio di “stabilità”, ‘sicurezza’ e “fine del ciclo di violenza”. Ma ciò che non hanno detto è stato ancora più eloquente: nessuno ha chiesto la fine dell’occupazione, nessuno ha chiesto la revoca dell’assedio di Gaza, nessuno ha parlato di giustizia per le vittime palestinesi. Molti regimi arabi sembrano desiderosi di lasciarsi alle spalle la questione palestinese, normalizzare i rapporti con Israele e concentrarsi sui propri interessi. Ma ignorare l’ingiustizia non porterà stabilità nella regione. La lotta dei palestinesi per la libertà non può essere semplicemente cancellata perché scomoda ai governi potenti. L’ingiustizia genera resistenza. E nessun vertice politico o dichiarazione vuota potrà cambiare questo fatto. Il “piano di pace” di Trump non riguarda solo la politica, ma anche il profitto. Egli tratta la diplomazia come un affare commerciale, in cui la giustizia e i diritti umani sono merce di scambio. Il suo approccio è transazionale: vendere armi, assicurarsi contratti, ricompensare gli alleati. Promuovendo questo piano, Trump sta cercando di nascondere i crimini di Israele, di far apparire il genocidio e l’apartheid come stabilità e partnership. Il suo obiettivo è quello di migliorare l’immagine di Israele a livello internazionale, creando al contempo opportunità redditizie per la vendita di armi e gli investimenti regionali. È la commercializzazione dell’oppressione. Ma se Israele non viene ritenuto responsabile di ciò che il mondo intero ha visto – massacri trasmessi in diretta sui nostri schermi, la fame usata come arma, intere famiglie sterminate – allora il sistema internazionale stesso è crollato. Le istituzioni create dopo la seconda guerra mondiale per difendere la giustizia e prevenire il genocidio si saranno rivelate inutili. Se tali atrocità possono verificarsi alla luce del sole, nell’impunità, mentre i leader mondiali parlano di “pace”, allora le fondamenta morali dell’ordine internazionale sono crollate. Quando Trump ha lasciato il podio tra gli applausi dei legislatori israeliani, ho capito che non si trattava di un processo di pace, ma di una messinscena. Lo scopo era rassicurare Israele e i suoi alleati che nulla sarebbe cambiato radicalmente, che la sofferenza dei palestinesi sarebbe rimasta un rumore di fondo nel “nuovo Medio Oriente” che sognano. Ma per noi la realtà è molto diversa. Ogni giorno ci svegliamo con notizie di nuovi omicidi a Gaza, nuovi arresti in Cisgiordania, nuove confische di terre, nuova disperazione. Non abbiamo il privilegio di fingere che la pace possa esistere senza giustizia. Sono tornato ai miei ulivi dopo il discorso di Trump, con il rumore delle sue parole che ancora riecheggiava nella mia testa. Mentre raccoglievo le olive dai rami piantati da mio nonno, ho sentito il profondo legame tra la nostra terra e la nostra lotta. Questi alberi sono sopravvissuti a siccità, guerre e occupazioni. Sono testimoni della nostra storia e simboli della nostra fermezza. Trump può parlare di “pace” in grandi sale e resort di lusso, ma la vera pace inizia qui: nel suolo della Palestina, nella dignità del nostro popolo e nella ricerca della giustizia che nessun discorso può mettere a tacere. Finché l’occupazione non finirà, finché l’assedio di Gaza non sarà revocato, finché i responsabili del genocidio e della pulizia etnica non saranno chiamati a rispondere delle loro azioni, non ci sarà pace, indipendentemente da quanti piani o vertici vengano annunciati. Il mondo deve capire che i palestinesi non rifiutano la pace, ma rifiutano l’oppressione mascherata da pace. Non chiediamo privilegi o favori. Chiediamo i nostri diritti umani fondamentali: libertà, uguaglianza e giustizia. La visita di Trump ha solo rafforzato una verità: la pace costruita sul rifiuto e sull’ingiustizia non potrà mai durare. Il percorso verso una pace reale non inizia alla Knesset o a Sharm el-Sheikh, ma dal riconoscimento dei diritti dei palestinesi e dalla fine dell’occupazione israeliana. Solo allora potremo parlare di pace con un significato reale. di Fareed Taamallah tradotto da Nazarena Lanza Articolo originale in inglese su Middle East Monitor: https://www.middleeastmonitor.com/20251019-trumps-so-called-peace-plan-offers-no-justice-no-peace/ Ettore Macchieraldo