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“Ardono” le coscienze e l’impegno delle streghe in Piazza Signoria a difesa di Francesca Albanese
Ieri, in Piazza della Signoria a Firenze alle ore 21, un gruppo di attiviste e attivisti si è radunato in silenzio, indossando cappelli da strega, le bandiere della pace e della palestina, per esprimere solidarietà a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi. Un gesto ironico e potente insieme: trasformare in simbolo di libertà quella parola “strega” che il rappresentante israeliano all’ONU aveva usato come insulto, nel tentativo di delegittimare la sua voce. Ma “strega” non è un insulto, può essere un titolo d’onore. Così ha risposto Francesca Albanese alle accuse: «È delirante che uno Stato genocida non possa rispondere alla sostanza delle mie scoperte e la cosa migliore a cui ricorre è accusarmi di stregoneria» … «Se la cosa peggiore di cui mi può accusare è la stregoneria, la accetto. Ma stia certo che, se avessi il potere di fare incantesimi, lo userei non per vendetta ma per fermare i vostri crimini una volta per tutte e per assicurarmi che i responsabili finiscano dietro le sbarre». Le streghe sono sempre state donne libere, che hanno sfidato le convenzioni e messo in dubbio lo status quo, grazie alla conoscenza e a poteri speciali: la capacità di curare, di leggere i segni, di vedere oltre. In epoche di oscurità, le streghe portavano luce. Per questo facevano paura. La storia ci insegna che dietro ogni rogo non c’era la magia, ma il potere ferito: la Chiesa, gli Stati, le gerarchie maschili, il potere economico che non tolleravano una parola autonoma, una sapienza non controllata. Quelle donne non venivano punite per la loro “stregoneria”, ma per la loro libertà. Oggi, quando un potere si sente messo in crisi da una donna che parla con lucidità, la storia si ripete — anche se con altri strumenti. Ma ogni volta che qualcuno pronuncia quella parola con disprezzo, strega, la lingua tradisce la verità: chi la usa teme ciò che non può dominare, chi usa questo tema è per evitare di rispondere nei contenuti. Per questo, dire oggi “grazie, Francesca Albanese” significa dire grazie a tutte le donne che, nel corso dei secoli, hanno sfidato il potere con la forza della parola, della conoscenza e della verità. Significa riconoscere in lei quello spirito ribelle e indomabile che — allora come oggi — fa paura ai potenti. Forse le streghe non sono scomparse, si sono trasformate, oggi hanno il volto di chi lavora per la giustizia, di chi non si lascia intimidire, di chi parla di pace in un mondo che preferisce la guerra. E allora sì: se essere strega significa questo, che si alzi alto il cappello a punta e cerchiamo di essere tanti, perché non possiamo demandare la nostra libertà, la difesa del diritto internazionale a una sola strega. Paolo Mazzinghi
Sahara Occidentale: quando il diritto all’autodeterminazione incontra la giustizia europea
La Rete Saharawi ha partecipato alle audizioni dedicate alla questione del Sahara Occidentale presso la Quarta Commissione delle Nazioni Unite per la Politica Speciale e la Decolonizzazione, riunita nell’ambito dell’80ª Assemblea Generale. Nel corso delle tre giornate di interventi – dal 7 al 10 ottobre – sono state ascoltate 196 petizioni provenienti da attivisti, organizzazioni della società civile e rappresentanti istituzionali di diversi Paesi. Molte hanno ribadito con forza un principio fondamentale del diritto internazionale: il popolo saharawi ha il diritto inalienabile all’autodeterminazione e all’indipendenza, come sancito dagli Articoli 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite e dalle Risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza sul processo di decolonizzazione del Sahara Occidentale. In qualità di Presidente dell’Associazione Città Visibili APS, ho preso parte ai lavori della Commissione come delegato della RETE SAHARAWI che rappresenta l’Italia al Coordinamento Europeo di Solidarietà con il popolo saharawi (EUCOCO) e opera coordinando in Italia i progetti di solidarietà e cooperazione internazionale di molte associazioni impegnate a supporto della popolazione saharawi, tra cui alcune con esperienza pluridecennale. UNA BATTAGLIA DI DIGNITÀ Il Sahara Occidentale è una terra che da quasi cinquant’anni vive sospesa tra occupazione e attesa di libertà. Per i Saharawi, l’autodeterminazione non è un concetto astratto, ma la possibilità concreta di decidere il proprio futuro e di gestire le proprie risorse senza imposizioni esterne. Eppure, nonostante il diritto internazionale lo riconosca chiaramente, questo diritto continua a essere negato. LE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE Già nel 1975 la Corte internazionale di giustizia aveva stabilito che il Sahara Occidentale non era “terra nullius” e che il popolo saharawi aveva diritto a scegliere liberamente il proprio destino. Le Nazioni Unite lo ribadiscono da decenni: il diritto all’autodeterminazione è universale e riguarda anche lo sfruttamento delle risorse naturali. In altre parole, non si può pescare, coltivare o estrarre in un territorio senza il consenso del suo popolo. L’UNIONE EUROPEA DAVANTI ALLA CORTE Nonostante ciò, l’Unione Europea ha più volte siglato accordi con il Marocco che, di fatto, includono anche il Sahara Occidentale. Questo ha portato il caso davanti alla Corte di Giustizia europea, che in una serie di sentenze storiche ha ribadito un principio semplice: quegli accordi non possono valere per il Sahara Occidentale senza il consenso dei saharawi. Dal 2016 al 2024, la Corte ha costruito un percorso chiaro: – il Sahara Occidentale è un territorio “distinto e separato” dal Marocco; – gli accordi commerciali e di pesca che lo coinvolgono senza consenso sono illegittimi; – i prodotti che arrivano dall’area non possono essere venduti come se fossero “marocchini”. La giurisprudenza europea ha così dato voce, in sede giudiziaria, a un popolo che spesso viene ignorato in sede politica. TRA DIRITTO E POLITICA Le sentenze hanno segnato una vittoria importante, ma non hanno ancora cambiato la realtà. Le istituzioni europee, pressate dagli interessi economici e dalle relazioni strategiche con il Marocco, hanno spesso cercato di aggirare le regole, sostituendo al consenso vero e proprio semplici “consultazioni” con attori locali o portatori di interesse. Ma la Corte è stata chiara: soltanto il popolo saharawi può dare o negare il suo consenso. COSA PUÒ FARE L’ONU Perché la giurisprudenza non resti lettera morta, serve un impegno politico forte. Le Nazioni Unite possono giocare un ruolo chiave: – stabilendo linee guida chiare che escludano i territori non autonomi dagli accordi commerciali senza consenso esplicito; – creando un registro internazionale che certifichi quando un accordo rispetta o meno i diritti del popolo saharawi; – imponendo trasparenza sulle catene di approvvigionamento: se un pomodoro arriva dal Sahara Occidentale, deve essere chiaro e tracciabile. UNA QUESTIONE CHE CI RIGUARDA TUTTI Il Sahara Occidentale non è un caso isolato: è il simbolo di come interessi economici e geopolitici possano calpestare diritti fondamentali. Difendere il popolo saharawi significa difendere l’idea stessa che nessun popolo possa essere privato della propria voce e delle proprie risorse. L’autodeterminazione non è soltanto un diritto scritto nei trattati, è una battaglia di dignità che riguarda tutti noi. Ed è il momento che la comunità internazionale, a partire dall’ONU, smetta di chiudere gli occhi e trasformi la giustizia proclamata nelle aule dei tribunali in giustizia vissuta da chi attende da troppo tempo di essere libero. Non può esserci pace senza libertà e non ci sarà mai vera libertà senza giustizia.   Simone Bolognesi, Presidente Associazione Città Visibili APS Rete italiana di Solidarietà col Popolo Saharawi     Paolo Mazzinghi