“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” – Gaza tra tregua e illusione
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace”
Così Publio Cornelio Tacito, storico e oratore romano vissuto tra il 55 e il 120
d.C., nel De Agricola
descriveva la pace imposta dai Romani ai popoli conquistati: una pace che, in
realtà, era solo una
desolazione generata dalla guerra
Se la Storia si ripete, annullando ogni arco temporale, riproponendo fatti,
eventi, reazioni e
sentimenti che – se non fossero datati e contestualizzati – potrebbero
appartenere a qualsiasi epoca
dell’umanità, allora anche le conquiste più epocali dell’uomo rischiano di
essere azzerate. E in
questo caso, i parametri per giudicare e analizzare ciò che oggi accade a Gaza
non possono più
avere un unico denominatore.
La diversità delle posizioni apre a scenari in cui ogni opinione può essere
legittima. Così, quella che
per alcuni è finalmente pace a Gaza, per altri è semplicemente il “deserto”.
Esiste un’unica verità?
Sembrerebbe di no.
Mentre Gaza continua ad essere teatro di una delle più gravi crisi umanitarie
del XXI secolo, in
un’alternanza continua tra la speranza di ricominciare a vivere – dopo la
cosiddetta “pace di Trump”
– e il rischio di ricadere nell’abisso da un momento all’altro, al centro del
dibattito italiano ed
europeo si discutono – con posizioni molto diverse – le proposte di pace e la
loro reale portata
storica.
La pace attuale ha stabilito un cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato da
diversi Paesi, che ha
portato a qualche risultato concreto: il rilascio di ostaggi, la sospensione dei
combattimenti in
alcune aree. Accolta con gioia da molti palestinesi perché le armi finalmente
tacciono e centinaia di
vite sono state risparmiate, è vista con cautela dalla Palestinian Authority,
che spera in un accordo
completo.
Tuttavia, vi è una miscela di speranza e scetticismo: si tratta di un piano che
in parte ignora i diritti
fondamentali. La pace sembra fragile. Molti punti focali dell’accordo si stanno
realizzando, ma i
temi strutturali – come il disarmo, il ritiro dai territori occupati, la
definizione di uno Stato
palestinese – sono ancora poco sviluppati e basati su equilibri temporanei, più
che su una vera
riconciliazione.
C’è un’assenza di fiducia reciproca, un’evidente asimmetria di potere tra le
parti, che rende questi
accordi estremamente vulnerabili. La pace rischia di essere soltanto una tregua,
se non verranno
affrontate le questioni centrali: autodeterminazione, sicurezza e giustizia per
entrambe le
popolazioni.
La “Pace di Trump” e il suo significato
La cosiddetta “Pace di Trump” legittima un progetto di riassetto della Striscia
di Gaza senza la
partecipazione attiva dei palestinesi. È questo uno degli aspetti più
evidentemente fallaci:
l’esclusione dei rappresentanti palestinesi dal processo decisionale. Non sono
coinvolte né
l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), né la società civile, né forze
alternative come ONG
indipendenti. Le critiche al progetto lo definiscono un paradigma coloniale
travestito da accordo.
Questa “pace” viene percepita da molti come un diktat unilaterale, perché
legittima l’occupazione di
ampie porzioni della Cisgiordania, riconosce come permanenti le colonie illegali
secondo il diritto
internazionale e riduce Gaza a una zona amministrata da attori arabi o
internazionali, ma senza
alcuna sovranità. Gaza verrebbe così trasformata in una regione gestita
esternamente, ma senza
alcun potere decisionale per i suoi abitanti.
È un modello che ripropone una logica coloniale, simile a quella di un
protettorato, più che un
autentico piano di pace. I palestinesi sarebbero “gestiti” più che liberati.
Invece dei diritti – che non
si acquistano – il piano offre compensazioni economiche sotto forma di
investimenti e progetti, che
resterebbero comunque inaccessibili a chi ormai non ha più nulla.
In sostanza, si legittima l’asimmetria tra occupante e occupato.
Ma nessuna pace è sostenibile se costruita sopra la testa del popolo coinvolto.
Non è pace, ma imposizione e sottomissione.
La libertà non si compra, si riconosce.
Una pace giusta richiederebbe
La partecipazione diretta dei palestinesi, in tutte le loro componenti politiche
e civili.
Il riconoscimento dei crimini dell’occupazione.
Il riconoscimento pieno del diritto di autodeterminazione, senza condizioni
economiche
imposte da Israele.
La condanna chiara delle violazioni del diritto internazionale.
Una posizione italiana ed europea coerente con i valori fondativi dell’Unione
Europea:
rispetto dei diritti umani, del diritto dei popoli alla libertà e alla
giustizia.
La vera pace non può essere un esercizio geopolitico calato dall’alto, ma deve
partire dal
riconoscimento del diritto dei palestinesi alla libertà, alla dignità e
all’autodeterminazione.
Perché allora, per alcuni, è un’operazione straordinaria?
Perché, finalmente, c’è stato un cessate il fuoco, una riduzione delle
sofferenze civili, il rilascio di
ostaggi da parte di Hamas, uno scambio di prigionieri, e un impegno
internazionale alla
ricostruzione e all’assistenza umanitaria. Inoltre, è stato rilanciato – almeno
formalmente – il
principio dei “due popoli, due Stati”, sostenuto in molte dichiarazioni europee
e mediorientali.
L’accordo ha una forte dimensione simbolica: riconosce il dolore dell’altro,
alimenta la speranza. Il
cessate il fuoco è stato salutato come una “porta verso una pace eterna”, come
l’ha definita il
Presidente degli Stati Uniti. Questo è l’aspetto che, secondo molti, dà
all’intesa un significato che
va oltre il semplice armistizio: è un trampolino verso un nuovo assetto
regionale.
Appoggiato e sostenuto da Qatar, Egitto, Unione Europea, Turchia, Arabia Saudita
ed Emirati
Arabi, l’accordo è esaltato perché interrompe un ciclo devastante di guerra,
restituisce libertà a
civili e famiglie e rappresenta – per alcuni – un’occasione storica per
costruire una stabilità
geopolitica nella regione.
E l’Italia?
L’Italia ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi, pur chiedendo – a
parole – il rispetto del diritto
internazionale umanitario e la protezione dei civili. Tuttavia, questa richiesta
non è mai stata
accompagnata da sanzioni concrete verso Israele.
Non è stata tra i mediatori della pace, ma ha partecipato agli incontri
dell’Unione Europea per
sostenere il cessate il fuoco. Dopo l’accordo, il governo italiano ha dichiarato
di essere pronto a
contribuire alla ricostruzione di Gaza e a programmi di assistenza civile. Ha
affermato che la
soluzione duratura passa per “due popoli, due Stati”, anche se questo principio
non è presente nel
piano attuale.
Questa tregua tra Israele e Hamas è fragile: ha certamente interrotto un ciclo
sanguinoso di violenza
e aperto qualche spiraglio, ma non ha affrontato le radici profonde del
conflitto. La questione
palestinese resta irrisolta e, di fatto, assente dall’accordo. Al momento, tutto
ciò sembra solo una
tregua temporanea, fragile e minacciata ogni giorno. Non ha ancora tracciato una
vera via verso un
processo politico concreto.
Per alcuni, è il successo di Trump, che avrebbe deciso di mettere fine ai
crimini israeliani dopo
averli sostenuti per anni con l’invio di armi al governo di Netanyahu. Secondo
altri, dietro c’è un
piano economico e politico per la ricostruzione dell’area con mire speculative.
Il governo italiano, accusato di “complicità” per aver evitato di definire come
coloniali le politiche
israeliane, per avere appoggiato la “sicurezza di Israele” come valore assoluto,
senza pretendere il
rispetto concreto del Diritto umanitario internazionale non si è opposto al
Progetto che esclude i
Palestinesi.
“La Palestina sarà riconosciuta più facilmente se il piano verrà implementato”,
ha dichiarato la
premier italiana al vertice per la pace di Sharm el-Sheikh. Ha dettato
condizioni affinché quel
riconoscimento sia possibile.
Con questa posizione l’Italia prende le distanze da altri Paesi dell’Unione che
hanno
unilateralmente riconosciuto lo stato della Palestina ritenendo che sia uno
strumento di grande
portata simbolica ma soprattutto valorizza il diritto all’autodeterminazione
palestinese, condizione
basilare per un reale processo di pace.
Escludere i Palestinesi dalla determinazione del loro stesso futuro rende in
partenza precaria e
inefficace qualsiasi costruzione di Pace.
Redazione Napoli