Anatomia di un’attesa. Quando il disturbo psichico incrocia il codice penale
(disegno di sam3)
Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla
ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come
muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede
all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni.
Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno,
in
attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la
sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica,
ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi.
Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può
validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una
catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi
distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione,
favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle
persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze
faticose e danni concreti.
Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal
2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento
sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive,
comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso
cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe
rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia
diagnosi”.
Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni
e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi
segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture
rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il
tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una
fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del
disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una
trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non
sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali,
spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora
circondato da
stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato,
senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La
diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane
un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare
tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che
ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso
sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando
di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte
essenziale della cura.
Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione
crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni.
Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva
all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A
novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice
dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto
persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile.
Silvio evade e viene trasferito in carcere.
Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente
soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale,
resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo
tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di
detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione
psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è
affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto
viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di
incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da
soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche,
medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione
arenatasi nel silenzio.
La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni
qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in
ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come
questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica.
Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere
trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle
decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione
dell’ordine.
Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di
patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una
struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto
teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che
l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o
da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl
si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la
componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni
cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente,
poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico
interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano.
Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa,
trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è
accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un
“dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione
psichica che peggiora progressivamente.
Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente
concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16
maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di
Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non
sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli
attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e
ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione
della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre
l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni
rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza
coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di
cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”,
contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una
dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la
patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate
nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione.
Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare
a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon
esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria
malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio
per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di
negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande
complessità.
Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in
quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di
sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o
volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza
personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato
di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si
accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza
della propria condizione?
L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un
protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e
continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto
relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di
troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei
manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove
forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche,
Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere.
Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e
obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del
soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare
nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità
terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere
proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è
troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il
proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a
strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica
contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione,
dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e
l’attenuazione del sintomo.
Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera
della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per
l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente
al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la
finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si
può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della
sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste
strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra
più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi,
ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela.
Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un
problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma
la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha
strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso
comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua
condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo
internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti
come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa:
l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo
annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere
che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere
che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato.
Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale,
il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa
oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di
responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la
regressione si consolida, e si fa cronica.
Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di
rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di
rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero
occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione
risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste,
nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può
aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è
la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua
tutela.
Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione
diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa,
perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e
rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione,
rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo
un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia
farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la
psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si
dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta
il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha
bisogno.
Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato
a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico
strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di
cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto
costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile
da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di
considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso
crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un
abbandono, o peggio ancora, come un tradimento.
Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione
profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da
anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile,
segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre
confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali
della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il
rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in
cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e
soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di
violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede
progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza.
Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce
terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico
insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto
oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più
semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una
presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria,
fatica oggi ad attivarsi.
In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente
disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione
psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il
suo retroterra
educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente
dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio
sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile
l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura.
Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata
concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile
costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella
soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la
famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo
condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a
rendere la cura un’astrazione inapplicabile.
Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa
di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta
e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso
di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe
comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per
interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile.
Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di
azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di
cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato
portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni
etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di
prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di
senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende
necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena
cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso
dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita,
ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia
aperto a fatica.
Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla
famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio.
Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un
improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze
dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra
comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con
la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri,
entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione
organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm
ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3
luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per
il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità
praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una
posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi
ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da
lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima
di settembre.
Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la
propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura
specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente
un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale.
Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe
prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di
accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale
valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la
contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a
requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso
proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività
dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero
bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di
fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile
l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta
alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un
progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al
rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico.
L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità
del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e
compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che
solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi
esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio
presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo
quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del
pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla
potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre,
sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando
questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono
dunque quasi naturali.
La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una
forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a
muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo
controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e
tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro
l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e
reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere,
Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa
volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non
è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia
dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale
impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il
logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a
fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai
definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito.
Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la
chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama
disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si
attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio
dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé
l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita,
lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo,
dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene
la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio
rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non
produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla
governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto,
ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non
dover, fare il primo passo. (vera nau)