Rami Elhanan e Bassam Aramin, due giganti per una pace giusta
Quando ci eravamo visti a Brno, dove Rami Elhanan e Bassam Aramin erano stati
ospiti di un festival, ci eravamo lasciati con l’impegno di ritrovarci a libro
concluso. Era l’inizio di giugno e per terminarlo (Mio Padre, tuo padre. Due
uomini contro l’odio del conflitto israelopalestinese, DeAgostini) ci mancavano
quattro capitoli, da scrivere in 26 giorni.
Già eravamo state in dubbio se raggiungerli in Repubblica Ceca: rinunciando
avremmo guadagnato una settimana di scrittura, andando li avremmo finalmente
ascoltati dal vivo. Un conto era leggerle, un conto era sentire le parole che
Rami e Bassam sceglievano per raccontare di come erano stati cresciuti come
nemici, della perdita delle loro bambine per parte avversa, della scelta di
abbandonare la lotta per un cammino di nonviolenza. Volevamo sentire dalla loro
viva voce come erano diventati amici, anzi fratelli. E volevamo sapere in che
modo lo avrebbero spiegato ai ragazzi, i nostri primi lettori.
Alla fine siamo partite e, a conti fatti, ogni chilometro è valso la fatica.
Duecento ragazzi li ascoltavano in silenzio, tutti attenti a sorbire le loro
esperienze di pace, giustizia e riconciliazione. Sulla via del ritorno, avevamo
la certezza che ci sarebbero servite tutte le ore che restavano per consegnare
alla scadenza e al contempo avremmo avuto bisogno del soccorso di ogni parola
ascoltata per non tradire il coraggio di Rami e Bassam. Un coraggio divisivo:
«C’è solo una parte per cui stare ed è quella della pace. Che è la via più
stretta perché in un attimo sei detestato da entrambe le parti» dicono entrambi.
Nelle settimane seguenti abbiamo scritto forsennatamente, riletto, aggiustato e
rifatto finché abbiamo potuto. Poi abbiamo dovuto staccare le dita dai tasti e
lasciare che Mio padre, tuo padre partisse per la sua strada. Finalmente il 23
settembre è arrivato in libreria. Con la sua copertina rigida e intatta, solo
una ventina di giorni dopo, l’11 ottobre, era in valigia, pronto per essere
portato a Rami e Bassam che ci aspettavano alla Royal Irish Academy of Music di
Dublino. Un passaggio necessario, da spirito a spirito, da mano a mano.
Prima di incontrarli abbiamo voluto andare fino al mare, come avevamo fatto
insieme a Barcellona, dove ci eravamo conosciuti di persona. Al mare avrebbe
voluto andare anche Abir, la figlia di Bassam, ma un soldato dell’Idf le aveva
sparato prima che le fosse concesso il permesso. E forse sarebbe piaciuto anche
Smadar in quel primo giorno assolato di scuola, magari in moto abbracciata a suo
padre Rami, giorno in cui, invece, era saltata in aria con i suoi attentatori
palestinesi. Ecco perché il mare resta qualcosa che ci riporta al cuore della
storia e dei suoi protagonisti.
Abbiamo camminato in silenzio fino al faro di Howth e ci siamo sedute a guardare
l’orizzonte. Il cielo di Dublino non era sereno, ma era certamente molto meno
cupo di quello che si stendeva sopra Israele e la Palestina. Le onde invece
erano calme. Calme e costanti, come i nostri cari “padri”.
Lo sarebbero stati anche quel pomeriggio, dopo mesi di atrocità, di resoconti
inumani, di regole violate? Come li avremmo trovati? La violenza indiscriminata
aveva spazzato vite a migliaia, case e futuro dalla parte di Bassam, speranze e
giustizia da quella di Rami. Cosa pensavano della “cessata ostilità”, del piano
di Trump e del futuro?
E così alle 18, cuore in gola, siamo entrate nella sala della Royal Irish
Academy of Music. I nostri “due padri”, che adesso chiamiamo amici ci hanno
accolto come fanno sempre: spalancando le braccia. E ci siamo stretti tutti e
quattro in una vicinanza che sa di sollievo, come quattro scalatori che dopo
tanto faticare raggiungono infine la cima e possono di nuovo respirare.
Poi i libri sono scivolati fuori dalla borsa. Sulla copertina, i volti delle
loro figlie e appena dietro le loro sagome che si abbracciano. Il tremolio nei
loro occhi è stata la ricompensa più grande che potessimo mai ricevere.
A quel punto ci siamo spostati in una sala tranquilla e abbiamo finalmente
potuto chiacchierare.
«Certo non è una pace» butta subito sul tavolo Rami.
«Tante cose sono state trascurate, ma cos’altro abbiamo? Niente. Per questo
dobbiamo far funzionare quello che c’è. Questa strada stretta è la sola
possibilità. E comunque, da qualche ora almeno i bambini a Gaza non sentono il
suono dei droni e non vedono cadere le bombe. Già questo è un fatto. È poter
sopravvivere» conclude Bassam.
Ecco che cosa vuol dire scegliere la pace: è non lasciarsi scivolare nel
sentiero della rabbia.
Sta per iniziare la conferenza. Qualcuno bussa alla porta. Emozione si aggiunge
a emozione: è Colum McCann, mostro sacro della scrittura e autore del
best-seller Apeirogon, il libro che ci ha ispirate e guidate nel tracciare i
loro percorsi straordinari.
Avevamo sentito parlare di Bassam e Rami di sfuggita, a seguito di una loro
visita a papa Bergoglio. Ci è stato subito chiaro che non avremmo potuto
scrivere di nient’altro. È a quel punto che abbiamo letto Apeirogon e le nostre
due copie ne portano i segni, marcate come sono da appunti, pieghe e
sottolineature. Quando gli abbiamo chiesto di autografarle, ci ha guardato negli
occhi e ha detto: «Ci devono essere anche le firme di Rami e Bassam». E aveva
quanto mai ragione. Loro ne sono il nucleo e il motore immobile.
Rami e Bassam rappresentano per noi quanto di buono rimane di un’umanità sempre
più brutale e violenta. Sono fonti d’acqua in un deserto che da ogni lato vuole
avanzare. Due uomini che da decenni, come le navi della Flotilla, tengono la
barra dritta, in mezzo a qualsiasi tempesta. Rami ha prestato servizio nell’Idf
prima per la leva, dopo come riservista in due guerre; Bassam ha trascorso sette
anni in carcere nel deserto del Negev, entrandoci ragazzo e uscendone uomo.
Entrambi hanno cicatrici indelebili. La vita poi li ha condotti a conoscersi e
riconoscersi quando, per vie diverse, sono entrati a far parte di due
associazioni interculturali israelo-palestinesi che si battono contro
l’occupazione, che entrambi considerano il vero autore della morte delle loro
figlie.
Dei “Combattenti per la pace” (Combatants for peace), Bassam ed Elik, il figlio
maggiore di Rami, sono tra i fondatori. Un’idea rivoluzionaria e coraggiosa in
cui ex soldati israeliani ed ex combattenti palestinesi, che normalmente non
avrebbero esitato a uccidersi a vicenda, hanno trovato la forza morale di
cercare punti di incontro, fino a diventare un gruppo di centinaia di attivisti
che si oppongono pubblicamente all’occupazione. Fanno raccolte fondi, cercano di
formare al rispetto giovani israeliani e palestinesi, fanno da scudo umano a
protezione di pozzi e degli agricoltori palestinesi attaccati dai coloni.
Sull’altra organizzazione di cui fanno parte, il “Parents Circle”, Rami e Bassam
scherzano amaramente dicendo che è l’unico club in cui nessuno vorrebbe mai
entrare, perché ne fanno parte i familiari di vittime di uccisioni da entrambe
le parti. La cosa straordinaria di queste realtà – e ce ne sono fortunatamente
altre a testimoniare il coraggio di cittadini israeliani e palestinesi che vanno
contro corrente – è l’impegno a operare fattivamente per il bene di entrambe le
comunità senza distinzione di appartenenza. Dicono sempre Rami e Bassam, «Non vi
chiediamo di parteggiare per Israele o per la Palestina, parteggiate per la
pace, per il rispetto e per la dignità di entrambi i popoli, dal fiume fino al
mare». Perché per loro «non esistono due nazioni per cui parteggiare, ma solo
chi vuole la pace e chi no».
Questi due uomini hanno una visione ampia della storia e della vita e lo hanno
ribadito a Dublino: «Anche questo conflitto, come tutti, prima o poi avrà fine.
Ce lo insegna la storia: popoli in lotta nel passato ora convivono
pacificamente. A Berlino c’è un’ambasciata israeliana e a Tel Aviv ce n’è una
tedesca; l’apartheid ha avuto ufficialmente fine con la riconciliazione tra De
Klerk e Mandela. Questo accadrà anche per israeliani e palestinesi.» E le
atrocità del presente e del passato non li dissuadono.
«Non possiamo fare che questo perché nessun altro figlio deve essere sacrificato
per le sacre pietre di Gerusalemme, che rischiano di diventare la tomba di
entrambi i popoli» conclude Bassam prima di salire sul palco. Poi, seduto
accanto a suo fratello Rami, intona una canzone di Abu Arab, uno di quei
conforti che lo hanno salvato durante la lunga prigionia nel carcere di
Beersheba. All’ultima nota, un attimo prima che un applauso commosso invadesse
la sala, Rami lo stringe a sé in un abbraccio colmo di ammirazione.
Ancora e sempre saremo grate del privilegio della loro conoscenza. Conoscerli,
sentirli parlare, leggere la loro storia è per noi ossigeno. E tutti ne hanno
bisogno, ma anche diritto.
Redazione Italia