Tag - il piano Trump potrebbe arenarsi

Il piano di Trump rischia più di arenarsi che di fallire
di Nathan J. Brown,  EUobserver, 13 ottobre 2025.     Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto, in ebraico, il riferimento al piano di uno stato palestinese, pochi istanti dopo essere apparso con Donald Trump per lodarlo. (Foto: La Casa Bianca) Oggi si festeggia pubblicamente il successo diplomatico del presidente Donald Trump: parti apparentemente inconciliabili hanno accettato il suo piano in 20 punti che non solo pone fine alle violenze più terribili a Gaza, ma promette anche un processo di ricostruzione a breve termine e un processo diplomatico a lungo termine per risolvere il conflitto israelo-palestinese.   In privato, tuttavia, la maggior parte degli osservatori è più pessimista e, nonostante tutte le loro speranze, si aspettano ancora che il piano fallisca.  Il loro pessimismo è giustificato, ma forse leggermente fuori tempo: probabilmente le cose si fermeranno lentamente a un punto crudele, ma forse sostenibile. Il vero accordo Le parti non hanno ovviamente accettato il piano in 20 punti, ma hanno solo scelto i punti che preferiscono (e li hanno interpretati in modo contraddittorio).  Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto, in ebraico, il riferimento al piano di uno stato palestinese, pochi istanti dopo essere apparso con Trump per lodarlo; Hamas è stato più franco e loquace, accettando il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe israeliane, ma rifiutando quasi tutti gli elementi a lungo termine. Pertanto, l’unico accordo reale riguarda il cessate il fuoco, il ritiro delle truppe israeliane e il rilascio di ostaggi e prigionieri. Si tratta certamente di un risultato, ma difficilmente spiega tutti i complimenti rivolti al presidente americano.  La nuova lingua franca della diplomazia – parlata da tutte le parti in quasi tutte le recenti dichiarazioni ufficiali e in molte di quelle non ufficiali – consiste nel perseguire gli obiettivi cominciando con un saluto a Trump, nella speranza che ciò induca la diplomazia americana nella direzione desiderata.  Persino Hamas non descrive più l’amministrazione statunitense come parte in guerra a Gaza ed esprime gratitudine allo stesso presidente la cui amministrazione ha adottato una serie di politiche ostili ai palestinesi. E al di là della retorica, l’amministrazione Trump e i suoi partner arabi hanno investito un notevole capitale politico (indipendentemente dalle motivazioni). Il dispiegamento della missione CENTCOM (US Central Command) composta da 200 persone (per monitorare il cessate il fuoco e fungere da nucleo fondamentale e centro di comando per una potenziale futura missione internazionale di stabilizzazione) è una dimostrazione tangibile di questo investimento. Gli accordi emergenti sulla distribuzione degli aiuti sono un altro esempio in cui potrebbe concretizzarsi qualcosa di più delle semplici frasi di circostanza. Alla fine, più piagnistei che fatti Tuttavia, la minaccia di stagnazione è reale. I limiti dell’accordo iniziale – come l’attenzione esclusiva agli aiuti umanitari senza la cruciale ricostruzione di Gaza e, cosa ancora più importante, con il rinvio della reintegrazione politica e governativa – significano che la situazione generale consentirà un deterioramento delle condizioni, lasciandole alla fine peggiori di quanto non siano ora. Le parti sono semplicemente molto distanti su quasi tutti gli elementi e hanno pochi incentivi a colmare tali divari.  L’accordo può parlare di “deradicalizzazione”, di un “consiglio di pace” e suggerire che Hamas “smantelli” le sue armi. Ma non ci sono strumenti, procedure o dettagli specifici a sostegno di questi obiettivi.  Le disposizioni chiave del piano si basano sul fatto che le parti facciano ciò che probabilmente non vorranno fare. Potrebbe essere possibile mettere insieme la promessa “forza di stabilizzazione”, ad esempio, ma è più probabile che essa funzioni come scudo umano contro gli attacchi israeliani piuttosto che come erede della missione delle forze di difesa israeliane di eliminare la capacità militare di Hamas. E poiché nemmeno le più copiose parole possono sostituire le azioni concrete, il cessate il fuoco si aggiungerà probabilmente alla lunga serie di misure provvisorie volte a sospendere i combattimenti per il momento.  Ciò riecheggia il modello storico di evitare le cause profonde dei problemi a favore di soluzioni temporanee (“meglio qualcosa che niente”) e poi “accomodarsi” con lo status quo e la realtà dei fatti. Quindi, se le cose dovessero davvero congelarsi allo stato attuale, sarà comunque molto facile distinguere Gaza dalla prospettata Riviera: sarà un “super campo” caratterizzato da un cessate il fuoco prolungato. Sotto una patina di stabilità, Israele manterrà il controllo generale della sicurezza e degli accessi, esercitando il diritto di veto praticamente su tutto, compreso il mandato completo e la composizione della nascente missione internazionale di stabilizzazione che il CENTCOM è incaricato di avviare. C’è un modo per evitare un altro risultato diplomatico che equivale solo a rendere sostenibile l’insostenibile?  O peggio, concentrarsi così tanto su Gaza da non notare l’escalation in Cisgiordania? Da tempo Gaza e la Cisgiordania sono trattate come due diversi territori palestinesi, piuttosto che come due unità della Palestina. L’attuale orientamento sul territorio della Cisgiordania è una deriva verso quell’arcipelago di bantustan che i dubbiosi del “processo di pace” hanno sempre sostenuto sarebbe emerso. Una traiettoria futura positiva dipende da una spinta coerente da parte delle potenze esterne per impedire che lo stallo si cristallizzi nella realtà dei “super campi” e dei bantustan. Ora tocca all’Europa e agli Stati arabi La responsabilità di impedire che il processo rimanga bloccato nella prima fase di stallo ricade ora in gran parte sugli europei e sugli arabi. Un indicatore chiave da tenere d’occhio sarà se e come la “via Trump” si collegherà alla “via della Dichiarazione di New York” (promossa da Francia, Arabia Saudita, Regno Unito, UE e altri). La Dichiarazione di New York stabilisce un quadro dettagliato e irreversibile per una risoluzione permanente del conflitto israelo-palestinese, chiedendo esplicitamente la fine dell’occupazione e il riconoscimento della sovranità palestinese. Questo approccio, sebbene meno gradito a Israele rispetto alle proposte americane, ha ottenuto un significativo consenso internazionale. Nel frattempo, il recente cessate il fuoco ha dimostrato che l’amministrazione statunitense può esercitare pressioni se lo desidera, dimostrando che i piani di pace promossi da potenze esterne possono essere efficaci se sostenuti da incentivi e sanzioni. La sfida consiste nel collegare questo approccio europeo alla realtà araba, con una distinzione in cui i paesi del Golfo potrebbero concentrarsi principalmente sulla risoluzione del problema israeliano (ad esempio, la normalizzazione) piuttosto che sulla causa principale del problema palestinese. Senza tale coordinamento e attivismo arabo ed europeo, magari espresso con le parole necessarie a persuadere Trump che è tutta una sua idea, il risultato più probabile è un lento ritorno alla tolleranza dell’intollerabile. Nathan Brown è professore di scienze politiche e affari internazionali alla George Washington University e autore di nove libri sulla politica e la governance araba. https://euobserver.com/eu-and-the-world/ar9990791d Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.