Verso l’equiparazione tra anti-sionismo e anti-semitismo. Un caso di persecuzione all’Università di Bologna
Mentre il dibattito si accende intorno alla proposta di legge Gasparri, che di
fatto equipara l’antisionismo all’antisemitismo rendendo labile il confine tra i
due concetti mettendo così a rischio ogni critica al governo israeliano,
proseguiamo l’excursus all’interno delle agenzie culturali, in questo caso
quella universitaria, sulle presenze nel nostro territorio di soldati dell’IDF o
di loro fiancheggiatori. In questo caso si vuole far luce sulle numerose
intolleranze anche violente verso chi tenta di togliere il velo al genocidio in
Palestina che incredibilmente ancora in molti negano o ne fanno una questione di
“quantità” di morti o di assenza di prove certe: certamente aver ucciso in
maniera mirata decine di giornalisti sul campo ha ridotto questa possibilità
testimoniale, così come seppellire chissà quanti cadaveri con l’uso di bulldozer
militari renderà difficoltosa la conta definitiva dei trucidati.
Raccontiamo, quindi, il caso di un ricercatore di UNIBO, Giuseppe (nome di
fantasia n.d.r.), perseguitato da studenti israeliani-sionisti in ateneo perché
indossa la kefiah. Si scopre che alcuni di loro sono soldati dell’IDF. Il caso
di Giuseppe riguarda un docente ricercatore del DIMEVET di Ozzano Emilia, il
Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie di UNIBO. la quale non ha
saputo/voluto difenderlo. La sua colpa? Indossare la kefiah, che alcuni studenti
permeati da idee di stampo sionista non tollerano, al punto di pretendere dal
dipartimento il divieto di indossarla negli spazi dell’università. La sensazione
di Giuseppe è di essere stato “puntato”, in particolare in occasione
dell’iniziativa “Sudari per Gaza”, il 4 novembre 2024, quando come tanti docenti
universitari in Italia, aveva dedicato 5 minuti prima della lezione alla
tragedia di Gaza: in particolare, si limitò a fornire in modo asettico i dati
numerici dei morti in Palestina ed in Israele dal 7 ottobre 2023 in poi, senza
esprimere alcun giudizio personale.
Quel giorno in aula c’erano degli studenti israeliani e forse proprio loro hanno
riferito ad altri colleghi connazionali in dipartimento quanto avvenuto. Sta di
fatto che dopo quell’evento alcune studentesse, che non seguivano il corso in
cui insegnava, hanno iniziato a diffondere in ateneo voci infondate sul suo
conto, minando così la sua reputazione. Nello specifico, lo hanno accusato di
spargere odio in università contro Israele e di utilizzare le sue lezioni per
fare propaganda a favore della Palestina. Accusa molto strana da parte di
studentesse che non frequentano il suo corso, visto inoltre che ai questionari
distribuiti al termine delle lezioni, quasi all’unanimità gli studenti hanno
risposto che il docente si è attenuto agli argomenti del corso. Una volta fatta
terra bruciata intorno a lui in dipartimento, le studentesse hanno alzato il
tiro, denunciando la sua condotta all’amministrazione centrale di Unibo con un
messaggio via e-mail al rettore, ribadendo la sua inadeguatezza a ricoprire il
ruolo di professore, che guarda caso era proprio il prossimo step della sua
carriera accademica.
A fronte di questa campagna denigratoria portata avanti impunemente dal
gruppetto di studentesse israeliane, l’ateneo ha risposto confermando una
sanzione disciplinare che blocca la carriera di Giuseppe per un anno. E Unibo
non ha finora messo in campo, dopo oltre tre mesi da quelle accuse, nessuna
forma di tutela dei diritti nei confronti di un suo lavoratore dipendente,
limitandosi a concedergli un colloquio, senza alcun impegno, solo di recente.
Una governance quindi nella pratica assente e incapace di gestire questa
vertenza.
Il caso è stato portato alla ribalta dal sindacato USB, che peraltro si è messo
a disposizione dell’ateneo dopo essersi consultato con il team di legali di ELSC
– European Legal Support Center: un ricercatore isolato nel suo dipartimento,
salvo la solidarietà di alcuni, rarissimi, docenti. Un ricercatore abbandonato
alla sua sorte contro un attacco frutto di una strategia sionista, condita dalla
consueta dose di vittimismo da parte delle studentesse, da diffamazioni, da
pressioni ai vertici e attività di controllo indebite: per giustificare il
monitoraggio che effettuavano sui social hanno persino affermato che era il
docente ad invitare gli allievi a seguire i post sul suo profilo. Naturalmente,
anche questo non rispondeva a verità. Il ricercatore ha pagato con una censura
scritta comminata da Unibo per aver pubblicato un post sul suo profilo personale
per la semplice leggerezza di aver indicato sul suo account l’affiliazione a
Unibo. In seguito a quel post, tutto sommato innocente e che rientra comunque
nella sfera della libera espressione del suo pensiero, è stato hackerato il suo
profilo Facebook, cosa segnalata subito dal ricercatore a Meta. Dopo il furto
dell’account, qualcuno pubblica un post molto crudo sul suo profilo per far
credere che sia opera del docente, ma anche se risultava evidente che non era
frutto suo, visto lo stile sgrammaticato in un misto di lingue fra italiano ed
inglese. Ma per l’accusa di Unibo è stata sufficiente la pubblicazione del primo
post, quello riportante l’affiliazione ad Unibo indicata nel suo profilo, per
chiudere il procedimento con una sanzione disciplinare.
La Commissione disciplinare, per di più, nella sua attività istruttoria non
sente la necessità di convocare le studentesse ed il ricercatore, perché in
seguito a quel primo post, il secondo risulta “irrilevante”, cosi come risulta
irrilevante lo stato d’animo che ha portato il docente a pubblicare quel post
sull’onda di una reazione di sollievo dopo la risposta dell’Iran all’attacco
delle bombe di Israele su Teheran: nella capitale iraniana, infatti, vive la
compagna del ricercatore e proprio nei giorni del suo fatale post, una bomba
cade a soli 50 metri dall’edificio della famiglia della sua compagna, ovvero
anche la sua famiglia. Loro si salvano, ma lo stato emotivo di Giuseppe è pieno
di preoccupazione, un’ansia che si scioglie in un moto di sollievo solo alla
risposta di Teheran ai missili. Ma tutto questo per Unibo è indifferente, non ha
alcun valore o peso nella decisione sulla sanzione da comminare. Vince l’attacco
delle studentesse israeliane e la loro strategia sionista nel portare a segno
l’azione.
La governance esce da questa storia ricoprendosi con un manto di vergogna, senza
alcuna motivazione plausibile, se non la codardia di fronte alle pressioni
sioniste che provengono dall’esterno, oltre che presumibilmente anche da chi
all’interno di Unibo fa da sponda. Un manipolo di studentesse israeliane manda
in tilt il sistema di garanzie che dovrebbe proteggere i lavoratori dell’ateneo
in casi del genere.
Nell’istruttoria non vengono evidenziate le verifiche necessarie che l’USB aveva
suggerito e si preferisce credere ad un gruppo di studentesse, a danno del
ricercatore; ma quel gruppo di studenti e studentesse che hanno agito per
screditare e diffamare il docente non sono semplici ragazzi e ragazze venuti qui
per studiare. Fra di loro c’è qualcuno/a che milita ancora oggi nell’esercito
israeliano, come provato nelle controdeduzioni del sindacato USB inviate
all’area del personale per difendere la posizione del ricercatore. Soldati e
soldatesse israeliani: alcuni di loro hanno completato il servizio di leva
obbligatoria, mentre altri militano attualmente nell’IDF. E’ presumibile che
quasi tutte/i vengano richiamati come riservisti (anche in Unibo) quando da
Israele viene emanato l’ordine di rientro per combattere. Ed è ragionevole
immaginare che almeno qualcuno di loro possa essere impiegato, anche
indirettamente, in attacchi contro Gaza, oltre che in Cisgiordania e altre zone
del Medio Oriente.
Insomma, la possibilità che studenti israeliani che frequentano corsi in Unibo
facciano la spola fra le aule del Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie a
Ozzano e gli avamposti o le retroguardie nel genocidio a Gaza non è poi un’idea
così remota, anzi sembra molto più che plausibile e il principio di precauzione
dovrebbe portare ad evitare in origine tali presenze in ateneo. Il sindacato USB
ha chiesto quindi a gran voce che la governance di Unibo faccia le opportune
verifiche per chiarire se qualcuno o qualcuna di loro partecipa direttamente o
indirettamente al genocidio, commettendo crimini di guerra e proceda in tal caso
a denunciarli ed espellerli dall’Ateneo, anziché agevolarli come risulta che
stia facendo, concedendo appelli straordinari per fare esami dopo il loro
rientro dalle missioni militari o durante il loro periodo all’estero.
Sarebbe ora, anche se in ritardo e ormai dopo due anni di massacri
indiscriminati, di rompere ogni complicità con Israele rescindendo tutti gli
accordi: anche quelli di mobilità, che dietro la loro apparente innocenza
possono nascondere alcune insidie qui descritte,: qualsiasi studente potrebbe
trovarsi nella stessa aula un soldato sionista israeliano che il giorno prima
sparava contro civili indifesi nel genocidio a Gaza e il giorno dopo siede lì
accanto come compagno di banco con le mani ancora sporche di sangue…
Stefano Bertoldi