Il profondo messaggio del Satyagraha del Mahatma Gandhi
Con questa riflessione si vuole contribuire ad una riflessione più profonda del
messaggio del Mahatma Gandhi che, con gli strumenti della nonviolenza, riuscì a
mobilitare il popolo indiano liberandolo da decenni di violento ed oppressivo
colonialismo inglese. Le sue teorie politiche e il suo messaggio spirituale si
diffusero a macchia d’olio diventano un esempio. In questo articolo si apre uno
spiraglio di riflessione su un aspetto poco analizzato: l’asserzione ferma,
convinta e determinata della nonviolenza da parte di Gandhi, capendo umanamente
l’uso disperato della violenza da parte di tutti questi esseri umani che vivono
una condizione di oppressione prevaricante e totalizzante che conduce alla
sclerotizzazione umana. L’importante riflessione di Luca Cellini ci conduce, in
quanto pacifisti umanisti e nonviolenti, a frenare il nostro impeto giudicante
che tende ad elargire sentenze di fronte all’uso della violenza anche da parte
di chi farebbe molto volentieri a meno. Laddove sempre si condanna la violenza
anche come forma di difesa, è nostro dovere umanamente comprendere e capire la
disperazione umana e come può reagire di fronte alla violenza strutturale di un
sistema di oppressione. Ciò non ci spinge ad essere neutrali o passivi di fronte
alle forme di violenza, ma ad essere giusti con gli strumenti della nonviolenza.
Gandhi si è sempre opposto alla guerra, sviluppò e praticò la disciplina della
Satyagraha, una strategia di resistenza non violenta per lottare contro le
ingiustizie e il colonialismo britannico che dominava e schiacciava l’India e il
suo popolo da oltre due secoli.
Gandhi, come anche Martin Luther King, non erano pacifisti, bensì credevano che
la forza dell’anima e dell’amore nell’azione di una persona dedita alla pace
potesse vincere su qualcuno dedito alla violenza e alla guerra.
La violenza per Gandhi era vista come inferiore alla non-violenza, ma diveniva
un’opzione da considerare quando non ci fosse stata altra via di resistenza e
autodifesa.
Gandhi motivò anche perché in una qualsiasi lotta di liberazione considerasse
inferiore la violenza: “Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre
il bene, è un bene temporaneo; mentre il male che fa è permanente.”
Il suo ideale e il suo obbiettivo erano la trasformazione del nemico attraverso
la forza della verità e della non-violenza:
“La pratica della Nonviolenza mira a conquistare il nemico attraverso l’amore e
la paziente sofferenza.
Per praticare la nonviolenza e la resistenza non violenta ci vogliono molto più
coraggio e forza che nel praticare la violenza.
La forza non viene dal vigore fisico, viene bensì da una volontà indomabile,
e il coraggio non viene dall’assenza della paura, al contrario, viene dalla
consapevolezza, dall’altruismo e dalla ferrea autodisciplina.”
Ciononostante, sebbene considerasse di gran lunga superiore e molto più
coraggiosa la pratica della Nonviolenza, riconosceva la violenza come ultima
risorsa in situazioni di estrema necessità.
Vediamo meglio quali erano allora i casi in cui Gandhi considerava situazioni di
estrema necessità e perché sosteneva che fra scegliere tra la viltà e resistenza
e autodifesa violenta meglio comunque quest’ultima:
“È meglio essere violenti, se c’è violenza nei nostri cuori, che indossare il
mantello della non violenza per coprire l’impotenza, c’è speranza che un uomo
violento possa diventare non violento. Non c’è tale speranza per l’impotente e
il vile”.
In un suo scritto del 1946 Gandhi affermò:
“Ci si può e ci si deve difendere anche con la forza, soprattutto se rivolta
contro terzi, tuttavia la non-violenza è infinitamente superiore alla violenza.
Il perdono è cosa più virile della punizione. La clemenza nobilita il soldato.
Ma si ha vera clemenza soltanto quando esiste il potere di punizione; essa è
priva di senso quando proviene da una creatura impotente.
È difficile che un topo perdoni un gatto mentre viene fatto a pezzi da questo.”
Sempre negli stessi scritti definí che:
“La viltá è ancora peggiore della violenza, – aggiungendo che – “la viltà è
l’assenza di azione, la rinuncia alla lotta e alla difesa.”
A proposito dell’autodifesa aggiunse invece: “La violenza, sebbene moralmente
inferiore alla non-violenza, è un mezzo di autodifesa che può impedire la
sottomissione e l’oppressione.”
Disse anche che, qualora ci si trovasse a essere costretti a scegliere
unicamente fra viltà e autodifesa anche usando la violenza come ultima risorsa,
meglio quest’ultima alla codardia e alla viltà:
“La scelta tra violenza e viltà è, in un certo senso, una scelta di coraggio,
poiché la viltà implica solo codardia.”
In uno scritto del 1947, Gandhi chiari meglio che: “La mia nonviolenza non
ammette che si fugga dal pericolo e si lascino i propri cari e le persone deboli
privi di protezione. Tra la violenza e una fuga vile, posso soltanto preferire
la violenza alla viltà. Non posso predicare la nonviolenza ad un codardo più di
quanto non possa indurre un cieco a godere di visioni piacevoli.
La nonviolenza è il culmine del coraggio. E nella mia esperienza non ho
incontrato difficoltà a dimostrare a uomini allevati alla scuola della violenza
la superiorità della nonviolenza. Codardo quale fui per anni, albergavo la
violenza. Cominciai ad apprezzare la nonviolenza quando cominciai a liberarmi
della viltà.”
Sempre nello stesso scritto del 1947 Gandhi affermò che:
“Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e
la violenza, io consiglierei la violenza.
Ad esempio quando mio figlio maggiore mi chiese quello che avrei dovuto fare se
fosse stato presente quando nel 1908 fui aggredito e quasi ucciso, se avesse
dovuto fuggire e vedermi uccidere, oppure avesse dovuto usare la sua forza
fisica, come avrebbe potuto e voluto, e difendermi, io risposi che sarebbe stato
suo diritto di difendermi anche facendo ricorso alla violenza.”
Sulla rubrica di un giornale indiano pubblicò la seguente riflessione:
“Molti lettori mi chiedono se nella violenza da me “permessa” possano essere
incluse varie cose che essi menzionano. Strano a dirsi, tutte le lettere che ho
ricevuto a tale proposito sono scritte in inglese! Se gli autori delle lettere
leggeranno il mio articolo comprenderanno immediatamente perché non posso
rispondere alle loro domande. Non sono in grado di rispondere, probabilmente per
il semplice fatto che non ho mai praticato la violenza. Soprattutto non ho mai
considerato la violenza come una cosa permessa. Ho semplicemente distinto tra il
coraggio e la codardia. L’unica cosa lecita è la non-violenza. La violenza non
può mai essere lecita nel senso che io intendo, ossia non rispetto alla legge
fatta dalla natura per l’uomo.
Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando questa viene usata per
autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran
lunga migliore della codarda sottomissione. Quest’ultima non reca beneficio a
nessun uomo e a nessuna donna.
Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve
saperli giudicare da solo. Nessun altro può farlo o ha il diritto di farlo al
posto suo”
(“Harijan”, 27 ottobre 1946)
Gandhi chiari anche ciò che lui considerava come “falsi seguaci della
non-violenza”.
“Un falso seguace della non-violenza è colui che non rimane in un villaggio che
viene assalito ogni giorno da un leopardo.
Se ne va e, quando qualcuno ha ucciso il leopardo, ritorna a prendere possesso
dei suoi averi e della sua casa.
Questa non è non-violenza. Questa è la violenza del codardo. L’uomo che ha
ucciso il leopardo almeno ha dato prova di un qualche coraggio.
L’uomo che senza rischiare nulla trae vantaggio da tale uccisione è solo un
codardo. Egli non potrà mai conoscere la vera non-violenza.
Non conoscendo la sostanza di cui è fatta la nonviolenza, molti hanno
onestamente creduto che fuggire sempre dal pericolo fosse una virtù paragonabile
a quella di opporre resistenza, soprattutto quando questa comportasse pericolo
per la vita.
Come insegnante di nonviolenza devo, per quanto mi è possibile, mettere in
guardia da una credenza così meschina.”
Sempre negli stessi scritti del 1947 Gandhi espose in modo ancora più chiaro ciò
che lui aveva praticato in tutta una vita, quando gli chiesero se nella vita di
una persona si potesse del tutto eliminare la violenza:
“Nella vita è impossibile eliminare completamente la violenza. Si pone il
problema di dove deve essere tracciata la linea di demarcazione tra violenza e
non-violenza. Tale linea non può essere la stessa per tutti…. Se ad esempio mi
chiedete quale sia la mia fede, vi dirò che, la mia fede nella nonviolenza è una
forza estremamente attiva. Non lascia posto alla viltà e neppure alla debolezza.
Vi è speranza che il violento diventi un giorno nonviolento, ma per il vile non
ve n’è alcuna.
Perciò ho detto più volte che se non sappiamo difendere noi stessi, le nostre
donne, i nostri bambini, e i nostri luoghi di culto con la forza della
sofferenza, vale a dire con la nonviolenza, dobbiamo almeno, se siamo uomini,
essere capaci di difendere tutto questo combattendo.
Rischierei mille volte la violenza piuttosto che la distruzione di tutto un
popolo.”
Da tempo mi sono domandato, ma se Gandhi fosse vivo oggi, e guardasse alla
Palestina, ma soprattutto a ciò che stanno facendo ora al popolo palestinese, da
praticante per tutta una vita della Nonviolenza, che direbbe?
Ma soprattutto, cosa sceglierebbe, cosa farebbe?
Luca Cellini