Marwan Barghuti e Nelson Mandela, il paragone che non piace agli “scemi di guerra”
Proponiamo di seguito una riflessione-analisi dello scrittore Soumaila Diawara
sui parallelismi tra la figura del leader palestinese Marwan Barghouti e del
leader sudafricano Nelson Mandela.
Il 9 ottobre, durante una trasmissione su La7, si è svolto un acceso confronto
tra Marco Grimaldi e Davide Parenzo. Come spesso accade, Parenzo ha finito per
commentarsi da solo. Nel momento in cui si discuteva della possibile liberazione
di Marwan Barghuti, Parenzo lo ha definito un “terrorista”.
Eppure, tutti sanno che Marwan Barghuti è un parlamentare palestinese,
incarcerato dal 2002 senza prove concrete a sostegno delle accuse che gli sono
state mosse. È stato membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina, e dirigente di Fatah. Le imputazioni nei suoi confronti non sono mai
state suffragate da fatti, ma questo non ha impedito che restasse in carcere per
oltre vent’anni.
Il paragone tra Barghuti e Nelson Mandela nasce in modo naturale. Quando Mandela
era membro dell’ANC, l’African National Congress, movimento che lottava contro
l’apartheid, possedeva un carisma straordinario. Durante la sua lunga
detenzione, l’ANC attraversò momenti di divisione, ma una volta libero Mandela
riuscì a riunire il popolo sudafricano.
Allo stesso modo, Marwan Barghuti rappresenta una figura capace di unire il
popolo palestinese, ed è proprio per questo che non viene liberato. Persino
Benjamin Netanyahu lo ha ammesso apertamente: la sua liberazione potrebbe “unire
tutti i palestinesi”, un rischio che il potere israeliano non vuole correre.
A un certo punto, Parenzo ha sostenuto che Mandela “non ha mai fatto la lotta
armata”. Forse sarebbe il caso che studiasse meglio la storia. Mandela non fu
arrestato perché faceva volare le colombe o portava fiori ai colonialisti
bianchi, ma perché faceva parte del braccio armato dell’ANC, l’Umkhonto we
Sizwe, “La Lancia della Nazione”.
Mandela partecipò ad azioni di sabotaggio, a scontri armati con il braccio
militare del regime dell’apartheid, a dirottamenti di linee ferroviarie, a
boicottaggi e ad attacchi simbolici contro le strutture del potere coloniale
interno. Accanto a lui si distinsero figure come Chris Hani, Winnie Madikizela
Mandela, Solomon Mahlangu, Joe Gqabi, Ashley Kriel e Steve Biko, intellettuale e
leader del Movimento della Coscienza Nera, brutalmente assassinato dalla polizia
sudafricana nel 1977. Tutti furono protagonisti di una resistenza che combinava
la forza delle idee con la determinazione della lotta concreta contro un sistema
disumano.
Mandela ebbe “la fortuna” di essere arrestato e condannato a 27 anni di carcere,
invece di essere ucciso come molti dei suoi compagni. Durante la detenzione, si
trasformò progressivamente nella coscienza morale del Sudafrica, simbolo di un
popolo oppresso ma non piegato.
Dopo la sua liberazione, Mandela divenne il volto della riconciliazione
nazionale. Ma questo non cancella le sue origini nella lotta armata e nella
resistenza politica. Al contrario, testimonia la sua evoluzione da combattente a
statista, da rivoluzionario a mediatore.
Spesso viene romanticamente descritto solo come “l’uomo del perdono”, come se la
sua grandezza derivasse da una mitezza innata. In realtà, Mandela aveva
conosciuto il male, la tortura, l’umiliazione e la perdita, ma scelse
consapevolmente la via della riconciliazione come atto politico e morale, non
come resa.
Perdonò senza dimenticare, perché sapeva che il futuro del Sudafrica non poteva
fondarsi sulla vendetta, ma sulla giustizia. La sua missione fu quella di
ricostruire un Paese devastato, mantenendo aperta la mano anche verso i
sudafricani bianchi, per ricucire ciò che la violenza aveva spezzato.
Romanzare la sua storia, ignorando la parte più dura e radicale della sua lotta,
significa falsificare la verità storica.
Il caso di Marwan Barghuti è diverso solo in apparenza. È accusato di terrorismo
per fatti mai provati, ma la sua colpa è politica: rappresenta l’unità e la
resistenza del popolo palestinese. Ed è questa la vera ragione per cui rimane in
prigione.
Vorrei dire a Davide Parenzo: se non conosci la storia di Mandela, è meglio
studiarla o tacere. Dopo il carcere, Mandela divenne un uomo di pace e di
dialogo, ma non rinnegò mai la lotta da cui era partito. E quando il Sudafrica
si liberò dall’apartheid, cercò di reinserire il Paese nel contesto
internazionale, mantenendo però sempre un profondo sostegno alla causa
palestinese, fino agli ultimi giorni della sua vita.
Non va dimenticato che Nelson Mandela figurava ancora nelle liste dei
“terroristi” del Mossad, della CIA e di diversi servizi segreti europei fino a
due anni prima della sua morte, avvenuta nel 2013.
Questo la dice lunga su come il sistema colonialista continui a etichettare come
“terroristi” coloro che si oppongono alla violenza e all’ingiustizia.
Questa, piaccia o no, è la verità della storia.
Soumaila Diawara – scrittore, poeta e intellettuale maliano. Nasce a Bamako, in
Mali, dove consegue la laurea in Scienze Giuridiche. Durante il periodo
universitario inizia la sua esperienza politica prendendo parte attiva ai
movimenti studenteschi a fianco della società civile. Terminati gli studi entra
nel partito di opposizione “Solidarité Africaine pour la Démocratie et
l’Indépendance” (SADI) in cui ben presto ricopre la figura di guida del
movimento giovanile. Diviene responsabile della comunicazione del suo partito.
Nel 2012 è costretto ad abbandonare il Mali in quanto accusato ingiustamente,
insieme ad altri, di un’aggressione ai danni del Presidente dell’Assemblea
Legislativa. Attraverso la rotta migratoria del Mediterraneo centrale giunge in
Italia dove presenta domanda di asilo. È autore di Sogni di un uomo, La nostra
civiltà e Le cicatrici del porto sicuro.
Redazione Italia