Le madri tunisine: «Aiutateci a trovare i nostri figli dispersi nel Mediterraneo»
Incontro Latifa a San Lorenzo, a Roma. È la sua prima volta in Italia e lo
sottolinea con cura, come a dare peso a ogni passaggio di questo viaggio. È qui
su invito di A Buon Diritto, associazione che tutela e sostiene le persone
migranti. Latifa nomina una per una le persone che l’hanno accolta – Marina,
Rita, Camilla – quasi a rendere quel gesto parte integrante del racconto, un
riconoscimento necessario. Mi colpisce il modo in cui la sua voce sia sempre
intrecciata a una rete di relazioni e alleanze che ne rafforzano il significato
politico.
Siamo sedute in una stanza raccolta e silenziosa: io, Latifa e il nostro
interprete Anis. Il fratello Ramzi è il punto di partenza di tutto. «Il primo
marzo 2011 è scomparso in mare. Lui è il motivo di quello che sto facendo
adesso, della mia vita come attivista». Da lì, Latifa rievoca il senso di
abbandono degli anni successivi alla scomparsa: «In Tunisia esistevano già
associazioni che dicevano di volerci aiutare, ma ci hanno sfruttate. Hanno preso
finanziamenti sul tema dei dispersi, ma senza darci un vero sostegno. Così, dopo
cinque anni, mia mamma e altre madri hanno deciso di creare la nostra
associazione, per un attivismo serio e diretto, davvero dalla parte delle
famiglie». Nasce così l’esperienza dell’associazione, con richieste chiare e
puntuali.
> «Prima di tutto – spiega Latifa – vogliamo sapere la verità. Qualsiasi essa
> sia: se i nostri familiari sono morti, vogliamo che vengano cercati i loro
> corpi; se sono vivi, vogliamo che vengano riconosciuti i loro diritti, umani,
> pieni e inalienabili».
Queste rivendicazioni si inseriscono però in un quadro politico che da oltre un
decennio relega la questione delle persone disperse ai margini dell’agenda
istituzionale. Nel 2011, mentre migliaia di tunisini arrivavano via mare sulle
coste italiane, Roma e Tunisi firmavano i primi accordi bilaterali per il
controllo delle partenze e i rimpatri forzati. Da allora quelle intese sono
state rinnovate, facendosi sempre più stringenti, saldando la cooperazione tra i
due governi sul terreno della sicurezza e del contenimento, piuttosto che su
quello della tutela dei diritti umani.
A questo livello bilaterale si è presto aggiunta la dimensione europea: fondi,
equipaggiamenti, programmi di “rafforzamento delle capacità” delle autorità
tunisine, tutti finalizzati a bloccare le partenze esternalizzando la frontiera
mediterranea. È dentro questa architettura politica che le famiglie delle
persone scomparse si trovano a chiedere verità e giustizia. Una ricerca che, in
un sistema costruito per fermare corpi e cancellare movimenti, diventa un atto
politico tanto necessario quanto ostacolato.
di Mohamad Cheblak
Nei rapporti con le istituzioni, spiega Latifa, le differenze sono nette. «In
Tunisia il ministero degli Affari esteri ci riceve, ci dice che lavora sui
dossier, che serve tempo, ma almeno il canale è aperto». Con l’Italia, invece,
la situazione resta bloccata. «Lo Stato italiano non collabora, il sostegno
arriva per lo più dalla società civile e dalle associazioni».
La prima richiesta che l’organizzazione pone ai due governi riguarda la libertà
di movimento: eliminare l’obbligo di visto, che costringe i giovani tunisini a
partire irregolarmente, alimentando i trafficanti e aumentando i rischi di morte
in mare. Accanto a questo, si richiede un’assunzione di responsabilità
congiunta: che Italia e Tunisia lavorino insieme non per fermare le partenze, ma
per garantire diritti alle persone migranti e verità alle famiglie dei dispersi.
Latifa fa subito riferimento al sistema dei CPR, i Centri di permanenza per il
rimpatrio, diffusi in diverse città italiane, che trattengono persone migranti
in attesa di espulsione. «In Tunisia sappiamo che in Italia esistono dei centri
dove vengono portati i nostri familiari. Vogliamo trovarli, capire perché sono
stati detenuti e assicurarci che vengano garantiti i loro diritti». I CPR non
sono carceri in senso stretto, perché la detenzione non è legata a un illecito
penale, ma di fatto questi centri riproducono condizioni carcerarie: privazione
della libertà, isolamento, opacità nelle procedure. Per le famiglie tunisine
diventano luoghi di sospetto e di angoscia, dove l’assenza di informazioni
alimenta l’idea di una sparizione che prosegue anche oltre il mare.
Parlare con le famiglie dei dispersi è complesso. Alcune trovano la forza di
raccontare, altre non riescono nemmeno a nominare i propri familiari.
> «Tante madri non vogliono o non possono parlare. È un dolore troppo grande».
> La frase che ritorna più spesso è secca, quasi un grido: «Trova mio figlio.
> Portami mio figlio». Non importa il resto, i passaggi burocratici. «Vogliono
> solo i loro figli».
Le conseguenze non sono solo emotive. «Tante madri si ammalano» dice. Nomina sua
madre, Fatma, che oggi ha quasi perso la vista; altre colpite da depressione,
disturbi cronici. «Una madre addirittura si è data fuoco per la disperazione.
Questo dolore ti logora dentro e fuori». Quando non trova voce, aggiunge, la
sofferenza si sposta sul corpo, sulla salute, sulle relazioni.
Poi si ferma un momento e conclude: «Il dolore di una sorella non è quello di
una madre. Non trovo le parole per descriverlo».
L’attività dell’associazione non si limita alla Tunisia. Negli anni Latifa ha
intrecciato contatti con realtà di altri Paesi di partenza e di transito.
Attraverso la rete di Alarm Phone – un’organizzazione con sede in Germania che
monitora le chiamate di soccorso dal Mediterraneo e sostiene le famiglie delle
persone scomparse – ha conosciuto famiglie in Senegal, in Camerun e in altri
Paesi del Maghreb.
«Sono andata in Senegal, in Camerun, ho incontrato le madri, le sorelle, ho
condiviso con loro la nostra esperienza. In Senegal la situazione è più simile
alla Tunisia: le famiglie riescono a parlare tra loro, a mantenere contatti con
i familiari. In Camerun invece è diverso: non hanno lo stesso spazio di parola,
non possono organizzarsi liberamente. Se provano a rivendicare il diritto di
cercare i loro figli, rischiano repressione e prigione».
Durante uno di questi viaggi, insieme ad altre famiglie tunisine e senegalesi,
Latifa ha incontrato nuclei camerunesi che vivono la stessa assenza: figli e
figlie partiti nel 2012, 2013, 2014 e mai tornati. «Abbiamo proposto di creare
canali di comunicazione comuni, così da restare in contatto, condividere
informazioni e sostenerci a vicenda». Da questi incontri è nata una rete reale,
che cerca di superare confini e paure.
> «È difficile, soprattutto in Tunisia, dove il contesto politico rende
> complicato organizzarsi. Ma il contatto con altre famiglie aiuta a non
> sentirsi isolati, a capire che questo dolore attraversa più Paesi, più
> comunità».
Latifa racconta di incontrare spesso i giovani della sua zona e di fermarsi a
parlare con loro. «Quando li incontro chiedo sempre: perché volete partire,
sapendo che c’è un rischio enorme e una possibilità minima di arrivare in
Italia?». Le risposte sono sempre simili: vogliono vedere l’Europa, vivere
meglio, costruire un futuro che in Tunisia appare irraggiungibile. La situazione
economica del Paese lascia pochi margini: disoccupazione diffusa, precarietà,
mancanza di prospettive. «Tanti giovani non trovano lavoro, non hanno
possibilità di realizzare nulla, e allora scelgono di tentare la traversata,
anche se sanno che la probabilità di arrivare può essere vicina allo zero».
Il caso di Ramzi, suo fratello, è emblematico. Dopo il diploma aveva studiato
giurisprudenza, ma senza esiti. Si era poi formato come tornitore di rame e
argento, conseguendo un diploma professionale. Anche così, non aveva trovato
un’occupazione.
C’è però una storia che, racconta Latifa, l’ha segnata profondamente. È la
vicenda di Wissem Ben Abdellatif, un giovane tunisino morto nel 2021 dopo essere
stato trasferito da un CPR a un reparto psichiatrico italiano, in circostanze
mai del tutto chiarite. «Ho conosciuto i suoi genitori», dice «e da allora seguo
la procedura legale che si è aperta su questa morte. Ho sempre paura che mio
fratello abbia fatto questa stessa fine». Il timore si lega anche a una serie di
indizi che hanno attraversato gli anni. Ramzi era partito nel 2011 e, poco dopo,
un reportage diffuso in Italia mostrava immagini in cui, secondo la famiglia,
compariva anche lui. L’anno successivo, nel 2012, un’attivista italiana dichiarò
di averlo incontrato all’interno di un CPR. Per Latifa, questi frammenti
alimentano la speranza e allo stesso tempo la determinazione. E aggiunge:
> «Anche se un giorno scoprissi la verità su mio fratello, continuerò con
> l’attivismo. È una responsabilità. Tante persone vengono da me e mi dicono:
> “Trova mio figlio, pensa che sia tuo fratello, fa come se fosse tuo fratello”.
> E questo è ciò che sento di dover fare»
Questa affermazione segna il passaggio dal dolore individuale alla
responsabilità collettiva: una trasformazione che accomuna le organizzazioni
delle madri in molte parti del mondo. Sono soggetti politici che, a partire dal
lutto, producono forme di resistenza capaci di mettere in discussione sistemi di
potere. La loro forza sta nel trasformare la vulnerabilità in mobilitazione, nel
collocare la perdita in uno spazio pubblico e transnazionale.
La storia recente ne offre esempi chiari: dalle Madres de Plaza de Mayo in
Argentina, alle madri di Srebrenica, fino alle madri palestinesi che resistono
all’occupazione e all’annientamento della loro cultura. Rivendicazioni che
contestano regimi militari, pratiche di genocidio, politiche di annientamento.
In ciascun caso, la domanda di verità e giustizia rompe il silenzio e smaschera
logiche di impunità.
L’associazione delle madri tunisine si colloca in questa genealogia. Le loro
richieste – protocolli di identificazione dei corpi, riconoscimento dei diritti
dei sopravvissuti, verità sulla sorte dei dispersi – rappresentano un atto di
accusa contro l’impianto delle politiche migratorie europee, fondate sul
contenimento, sui rimpatri e sull’esternalizzazione delle frontiere, che
producono scomparsa e invisibilità.
Il lavoro di Latifa e delle altre madri riguarda la Tunisia e l’intero
Mediterraneo, ma interroga soprattutto l’Europa. Mette in luce la contraddizione
tra la proclamata tutela dei diritti umani e la produzione sistematica di vite
precarie, sacrificabili, non riconosciute.
L’immagine di copertina è di Mohamad Cheblak
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