I Settanta sovversivi o il futuro anteriore del nostro presente
di FRANCESCO FESTA.
C’è un tempo che ritma il passo della lettura del libro di Michael Hardt, I
Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte (Derive Approdi, 2025, pp.
309), ed è quello del futuro anteriore, o come ebbe a dire Ernest Bloch, del
«ricordo del futuro». L’idea che il passato non sia mai compiuto, ma contenga
potenzialità ancora vive in attesa di essere realizzate. Walter Benjamin parla
dell’«affiorare di una potenzialità che attende ancora di essere realizzata»:
ciò che è accaduto non si esaurisce nel fatto storico, ma continua a vibrare nei
corpi e nei movimenti sociali. Bloch aggiunge che «ciò che è accaduto è sempre
accaduto solo a metà»: ogni evento storico è incompiuto, ogni rivoluzione
conserva parte della propria energia utopica, pronta a riemergere in altri tempi
e luoghi.
Il passato, in questa prospettiva, si presenta come un archivio sempre aperto. E
il libro restituisce proprio l’idea di una memoria viva che connette passato e
presente, e viceversa, in un rinvio continuo dove la ripetizione aggiunge nuovi
elementi o una nuova composizione spostando rapporti sociali in un campo di
forze mai definito.
Gli anni Settanta diventano così anticipazione del presente. E appaiono come uno
spartiacque fra un prima, legato al lungo dopoguerra – “l’età dell’oro” del
capitalismo, dal 1943 al 1973: piena occupazione, welfare state, operaio massa,
fordismo e keynesismo – e un dopo, con la frammentazione dei cicli produttivi,
la riconfigurazione dei rapporti di produzione e della composizione sociale –
l’emergere di nuove soggettività sociali, l’operaio sociale, la fabbrica diffusa
e il post-fordismo. Proprio in tale iato affiorano elementi che troveranno
materializzazione nei decenni a venire.
Sono anni che anticipano anche e soprattutto le pratiche dei movimenti sociali,
icasticamente raffigurati nell’ultima pagina del libro nell’immagine della
«staffetta» e del «testimone» (p. 273) fra gli anni Settanta e noi.
Certo, i Settanta sono stati anche gli anni della nascita del neoliberismo, con
le dittature dei Chicago boys e gli esperimenti di “neoliberismo autoritario”;
ma Hardt di tutto ciò fa qualche cenno, poiché la sua attenzione è verso la
storia dei «movimenti progressisti e rivoluzionari», osservati con metodi
assolutamente innovativi.
Fin dalle prime pagine, il libro produce un senso di sprovincializzazione o di
straniamento sottraendo l’attenzione a letture storiche cui siamo assuefatti che
relegano, ad esempio, gli anni Settanta al seguito del Sessantotto italiano;
mentre apre a una prospettiva globale, dove le lotte di diversi continenti si
connettono in una trama transnazionale di esperienze globali. Il sottotitolo, La
globalizzazione delle lotte è precipuo nell’enucleare lo spirito
internazionalista del libro, infatti, uno dei metodi di osservazione dei
movimenti è quello della «connessione internazionale, genealogica e trasversale»
– di cui parleremo più avanti.
Un altro approccio molto convincente nella lettura dei movimenti è l’aver
archiviato le letture propriamente storiciste: per cui la storia venga misurata
in base alle vittorie o alle sconfitte. Hardt piuttosto si interroga su quali
visioni, pratiche e teorie innovativi siano emersi nelle situazioni di lotta. Un
esempio fra i tanti è il racconto del movimento autogestionario in Portogallo
nel 1975, dopo la Rivoluzione dei Garofani, con centinaia di fabbriche e gestite
dai lavoratori (circa 895), case e terre occupate. Il coordinamento di questo
movimento era la “Comune di Lisbona”, in cui riecheggiava lo spirito della
Comune di Parigi. Hardt osserva come il valore di quella rivoluzione risieda non
tanto nel successo o nel fallimento ma nella capacità di immaginare una
democrazia e una proprietà diverse dal socialismo di Stato, una democrazia del
comune.
«Il processo rivoluzionario – scrive Hardt – può anche essere valutato non in
base alla sua vittoria finale, ma alla forza delle sue innovazioni principali,
che possono essere riassunte nel fatto che ha dato origine a un percorso
rivoluzionario alternativo per due aspetti, rispetto alla democrazia e alla
proprietà, entrambi in contrasto con i principi consolidati del socialismo di
Stato esistenti» (p. 92).
Sono le potenzialità trasformative, più che i loro esiti, cui vale la pena di
guardare, il che è anche un invito prezioso a valutare le scelte nelle
situazioni di lotta: il fallimento è la deflagrazione di una scelta, la
sconfitta invece è un passo intermedio, un insegnamento. Così le esperienze
autogestionarie portoghesi si connettono ad altre situazioni autogestionarie,
come l’esempio del 1974 – citato nel libro – dell’esperienza della Lip, la
fabbrica di orologi nella regione francese del Jura; e va da sé, il collegarle
alle fábricas recuperadas argentine degli anni Duemila o all’esperienza italiana
della Gkn di Campi Bisenzio.
L’uso del metodo genealogico, trasversale e internazionale intreccia, invece, le
vicende dei movimenti in diversi continenti con echi e rimandi continui: è come
una trama complessiva e invisibile che riconnette i movimenti oltre il tempo e
lo spazio, restituendo una visione d’insieme delle connessioni e delle
risonanze.
«Indagare queste connessioni internazionali, trasversali e genealogiche –
osserva Hardt – è un metodo potente per lo studio dei movimenti sociali e
politici. Ogni singola lotta offre una prospettiva leggermente diversa da cui
osservare le aspirazioni comuni […] I molteplici punti di vista e le connessioni
tra i movimenti mettono a fuoco concetti che risuonano con le problematiche
della nostra situazione politica contemporanea» (p. 264).
Emerge così una lettura multipiano e trasversale, in cui si intrecciano
protagonisti differenti e movimenti internazionali tra loro eterogenei. L’«altro
movimento operaio» in America ed Europa; le lotte anticoloniali che attraversano
l’Africa — dal Mozambico all’Angola, fino alla Guinea-Bissau —; i movimenti per
la democrazia radicale e il potere popolare in Portogallo, Corea del Sud e
Giappone; le lotte del movimento di liberazione omosessuale tra Nord America ed
Europa; la teologia della liberazione di ispirazione cristiana dell’America
Latina; l’esperienza dei rivoluzionari marxisti-sciiti in Iran; gli operai
cileni che rivendicano l’autonomia dal processo di statalizzazione della
produzione nel Cile di Allende; i movimenti dell’autonomia dal comando del
capitale sul lavoro vivo; le lotte di donne e migranti contro le strutture
patriarcali e razziali del capitalismo; i primi movimenti ecologisti e
antimilitaristi sorti in opposizione alla minaccia nucleare.
Questa molteplicità è accomunata dal carattere “sovversivo”, che si manifesta
nel tentativo di «smantellare e rovesciare le strutture sociali di dominio»
costruendo, allo stesso tempo, «le basi per la liberazione» (p. 6). Sovversione
e liberazione, secondo Hardt, procedono di pari passo. Pars destruens e pars
costruens, due variabili comunicanti. La critica diviene tanto decostruzione
negativa quanto costruzione affermativa di mondi alternativi e confliggenti
rispetto all’esistente. E questa azione sottrattiva e costruttiva è
riconoscibile in tanti movimenti degli anni Settanta e successivamente.
A tal proposito, vien da ricordare l’esperienza dei movimenti dei disoccupati e
dei precari a Napoli, dopo il colera del 1973 e nei decenni a seguire. La
rivendicazione di quei movimenti si traduceva, da una parte, in sottrazione dal
potere delle clientele e dei partiti, e altresì in sottrazione dal recupero
delle logiche del collocamento sotto il controllo dei sindacati; e dall’altra
parte, nell’affermazione dell’accesso al lavoro e al reddito attraverso le
“liste di lotta”; dunque era la partecipazione diretta, nella lotta e non
delegata alle strutture dello Stato-piano, che poteva garantire il diritto al
lavoro e al reddito. Negli anni Ottanta, la rivendicazione si differenziò in «né
con lo Stato, né con la camorra», ma con le liste di lotta per l’accesso al
reddito.
Hardt inoltre smonta alcuni miti ormai inconfutabili nel dibattito pubblico ed
entrati a pieno titolo nei libri di storia. Fra questi vi è la dialettica tra
Sessanta e Settanta. Il Sessantotto è l’anno da ammirare, cui rinviare la
riflessione quando si evoca la rivoluzione; mentre il Settantasette è l’anno da
dimenticare e bandire. L’uno, il decennio dei sogni, l’altro della polvere (da
sparo). In realtà, per Hardt, gli anni Settanta sono il tentativo di
concretizzare le teorie solamente ipotizzate nel decennio precedente. Purtroppo
l’attenzione psicopatologica alla lotta armata, ogni qualvolta si parli di quel
decennio, oscura la ricchezza di esperienze collettive, sociali e culturali che
hanno animato quegli anni. Gli anni Settanta sono stati veramente un laboratorio
di sperimentazioni sociali.
E del resto la storiografia del “Secolo breve” ha consumato pagine e pagine per
fissare la contrapposizione fra comunismo versus capitalismo, dove il comunismo
ha avuto una e solo una applicazione: quella di Stato. Invece I Settanta
sovversivi ci mostra come siano esistite forme alternative tanto al capitalismo
quanto al comunismo di Stato: forme di democrazia rivoluzionaria in cui la
partecipazione diretta si è tradotta concretamente nel governo della proprietà.
Un altro mito del Novecento smontato nel libro è il mito della crisi economica
degli anni Settanta (crisi petrolifera, finanziaria e economico-sociale). In
realtà la crisi è stata la risposta del capitale all’insubordinazione operaia e
all’autonomia dal comando del capitale sul lavoro vivo. Da quella
ristrutturazione della fabbrica e dell’accumulazione fordista sono emersi una
pluralità di soggetti che hanno segnato il passaggio dalla classe unitaria
all’eterogeneità.
In questa eterogeneità viene individuata la chiave per leggere i mutamenti della
composizione di classe e così della politica contemporanea: non più un unico
soggetto rivoluzionario, ma una molteplicità di istanze che si articolano e si
rafforzano reciprocamente. Le lotte antirazziste si intrecciano con quelle
femministe, queer ed ecologiste; le battaglie anticapitaliste con i diritti
civili. È la pratica dell’intersezione delle lotte che costruisce un terreno
comune senza annullare le differenze. Questa pratica emerge e si diffonde grazie
alle lotte dei movimenti femministi e alle pratiche emancipative dei movimenti
omosessuali.
Fra le tante conseguenze dell’esplosione della classe nell’eterogeneità vi è la
fine dell’unità della sinistra, e da quel momento in poi la ricerca della sua
ricomposizione, senza soluzione di continuità. Al contrario Hardt non ne parla
negativamente o come una fine, anzi, vi intravede una ricchezza: gli esiti sono
le possibilità di articolazione delle molteplici istanze che vanno emergendo
dall’eterogeneità di classe, il che è un metodo organizzativo proposto nelle
ultime pagine del libro.
All’altezza dell’eterogeneità sociale Hardt avanza l’ipotesi dell’uso
dell’«articolazione strategica della molteplicità»: la sfida è di organizzare
l’eterogeneità senza cercare un’unità artificiale, ma tenendo insieme e
potenziando le differenti istanze, dove l’una non predomina sull’altra, o meglio
l’una trae forza articolandosi con le altre.
Per spiegare questa forma organizzativa nel libro si individuano quattro
concetti chiave: autonomia, molteplicità, democrazia rivoluzionaria e
liberazione. L’autonomia è l’indipendenza dei movimenti da partiti e Stato; la
molteplicità è la nuova soggettività collettiva, orizzontale e composita; la
democrazia rivoluzionaria è la capacità di inventare nuove istituzioni e forme
di cooperazione; la liberazione è un processo quotidiano di trasformazione dei
rapporti sociali e personali.
Da qui discendono alcune riflessioni, come una sorta di assiomi. Il primo è che
i movimenti sono sempre eccedenti rispetto alla democrazia rappresentativa, alle
istituzioni borghesi e alle formule elettorali. Costretti in contenitori
elettorali, i movimenti perdono la propria potenza, e in realtà non
corrispondono alla potenza che invece esprimono nelle mobilitazioni. Due esempi
su tutti. Nell’anno 2001 ci sono state manifestazioni moltitudinarie del
movimento no global, ciò nondimeno in Italia siamo transitati dal governo
D’Alema, nelle giornate di marzo a Napoli, al governo Berlusconi, nel luglio
genovese. Così come le mobilitazioni contro il genocidio a Gaza delle ultime
settimane non trovano spazio nelle forme di rappresentanza, né tantomeno nei
partiti di sinistra.
Un altro assioma è che i movimenti depotenziano i partiti che vogliano investire
su di essi o mettersi alla testa degli stessi per altri scopi, mentre quei
partiti possono fungere da cinghie di trasmissione fra le istituzioni e le parti
sociali, in virtù della fruibilità delle risorse, degli strumenti e delle
informazioni.
Un ultimo assioma è che il conflitto e il consenso sono le variabili e gli
strumenti di misurazione dell’intelligenza collettiva dei movimenti, tanto le
pratiche incontrano il consenso nella società civile, tanto moltiplicano la
partecipazione, articolano le istanze delle parti in lotta e perseguono gli
obiettivi dell’eterogeneità sociale.
Hardt non fa mistero di un obiettivo de I Settanta sovversivi: discutere alcune
questioni per riaprire un’opzione di pensiero e pratica potenzialmente
rivoluzionari, i cui semi sono stati gettati proprio negli anni Settanta.
Anche se il rompicapo è sempre lo stesso: l’organizzazione. Un rompicapo
introdotto da due domande.
C’è la domanda che ci portiamo dietro dai Settanta: qual è la nostra parte? E a
questa Hardt risponde proponendo di arricchire la molteplicità tramite il metodo
dell’articolazione strategica. In effetti le lotte contro il genocidio a Gaza
dovrebbero giocoforza connettersi a quelle in difesa dei diritti sociali,
lavorativi, di genere, ecc. così come, le lotte contro lo stato di guerra
articolarsi con le lotte sul welfare, il salario, ecc.
E non in ultimo, l’altra domanda è relativa a un dato tangibile nelle ultime
settimane: i movimenti sono in grado di costruire “egemonia” – in termini
gramsciani – nella società, ma come possono mantenere aperte opzioni
costituenti, costruendo istituzioni del comune, dentro e contro la democrazia
rappresentazione e liberale?
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