Leila Slimani / Gelsomini notturni a Punta della Dogana
A Rabat il profumo dei fiori la notte apre i pensieri alle storie – vissute e
narrate, che trasportano chi decide di raccontare oltre i suoi passi, sul mare e
sotto il cielo, nel cuore del Mediterraneo, dagli spazi eterni delle sabbie alle
quinte cremisi e saline di Venezia. Leila Slimani, scrittrice marocchina
emigrata in Francia, accoglie l’invito di passare una notte a Punta della
Dogana, dove i seicenteschi magazzini progettati da Giuseppe Benoni, capaci di
accogliere merci provenienti da ogni dove, sono stati riqualificati nel 2008
dall’architetto Tadao Andō. E trasformati in un centro d’arte contemporanea. Il
luogo dov’era il commercio della Repubblica di Venezia, al centro fra il bacino
di San Marco, il Canal Grande e la Giudecca, in un continuo via vai di navi e
controlli doganali di casse e sacchi, ora accoglie fra le sue mura ricoperte di
salnitro una quantità di opere d’arte moderne. Slimani vi giunge da lontano e
nota subito come lì si fondano il passato e il presente, l’antico e il moderno,
cicatrici e giovinezza. Suona alla porta del museo, è sera. Ma prima di essere
accolta la scrittrice per una trentina di pagine ci spiega come sia arrivata fin
lì.
A Parigi Slimani fa emergere per iscritto quel muro che devono faticosamente
erigere coloro che scrivono romanzi (ma non solo, occorre precisare) se
intendono portare a buon fine l’intrapresa. La disciplina prende il sopravvento
fra le mura di casa, nello specifico il suo studio di pochi metri quadrati.
Occorre farsi in quattro perché i protagonisti di un romanzo “non se ne vadano”.
Ecco perché una buona dose di disciplina sia necessaria per saper dire di no a
molte persone e affrontare le inevitabili perdite. È a questo punto che iniziano
ad apparire ricordi, sogni e allucinazioni mentre l’aria fredda parigina
attornia autrice e editrice sedute ai tavolini all’aperto mentre discutono
intorno al progetto di una collana dal titolo Una notte al museo. Fra un
bicchiere e l’altro di vino la proposta è ben decisa: per Leila si tratta di
dormire dentro Punta della Dogana a Venezia, in una clausura circondata da opere
d’arte contemporanea, una “chiusura” che fa venire in mente le reclusioni
eccellenti di Hölderlin, Emily Brontë, Petrarca, Flaubert, Kafka, Rilke. Miti
che offrono a Slimani le loro modalità, venendo incontro al suo desiderio di
ritiro dal mondo.
Fra rimpianto della decisione, dubbi, il senso opposto di quiete e caos,
entrambi ricercati come se si potesse scegliere fra mondanità ed eremitaggio,
arriva l’aprile del 2019 e la scrittrice atterra a Venezia. E a piedi, nel
silenzio notturno mai pago del continuo sciabordio, appesantita dalla cena e dal
vino rosso, si ritrova davanti alla porta del museo: “Sono Leila. La scrittrice
che deve dormire qui”. Fuori è notte, nel segreto chiuso delle grandi sale
Slimani “farà nottata” chiedendosi se potrà fumare, se sarà osservata dal
guardiano, se riuscirà a comprendere le installazioni che la circondano, lei a
cui l’arte attuale non l’ha mai troppo interessata. I pensieri corrono, vanno a
certe rimembranze parigine, alle letterature dei flâneur, alle paure inflitte
dai maschi, alle sciabolate di Virginie Despentes e, soprattutto, agli anni di
Rabat, dove non c’erano musei. Alla Leila ragazzina, che leggeva i romanzi
acquistati alle bancarelle, l’arte era vista soltanto attraverso la lente
occidentale, mondo lontano e inaccessibile. In letteratura e cinema cercava una
sconfinata libertà. In quell’enorme spazio ora, da adulta, si ritrova davanti
alla “regina reclusa” Emily Dickinson. Questo volevano dalla poetessa, di stare
tranquilla e prevedibile. E di voler essere risolutamente libera, si è sempre
imposta Slimani.
Siamo al centro della notte, al suo centro appare l’installazione di Hicham
Barrada: in una serie di terrari dimorano le piante del gelsomino notturno, che
Leila conosce bene. In Marocco il “mesk el arabi” è comune, sprigiona il più
intenso profumo solo di notte quando i fiori si schiudono. Il mistero delle ore
notturne incanta la scrittrice da sempre: l’odore dell’infanzia in quel profumo
inebriante che si spandeva vicino alla porta d’ingresso della casa di Rabat.
Leila in arabo significa proprio notte. E la libertà per lei adolescente era
oltre la porta di ferro. Nelle sale del museo di Punta della Dogana il giardino
segreto e orientale, proprio a Venezia, torna prepotente nei pensieri
dell’ospite che a piedi scalzi si ritrova a fantasticare sugli anni marocchini.
E Virginia Woolf la soccorre perché possa comprendere la costrizione delle donne
tra “dentro” e “fuori”. “La questione femminile è una questione di spazi”,
pensa. E pensa che occorra studiare la geografia della dominazione esercitata
sulle donne per misurarsi col mondo.
La notte scorre così, priva di sonno ma colma di trasformazioni giunte da molte
parti di mondo, dalle opere artistiche la spinta riporta ai richiami di Rabat,
alla voce del muezzin, alla distruzione di intere città, come Beirut per la
guerra, come Parigi e i fuochi della modernità, il fuoco devastante di
Notre-Dame. La bellezza rasa al suolo dal denaro. Le città esauste, compresa
Venezia. Tutti pensieri, si dice Slimani, indotti dal sentirsi un po’
sbalestrati da tutte quelle ore notturne passate insonne. Il tempo viene
invertito e stirato dal luogo, dalle opere esposte, e le tracce lasciate si
accavallano, addirittura rendono visibili i fantasmi che riempiono l’edificio.
Il profumo che i fiori hanno di notte è un libro d’intensa concentrazione, breve
e diretto, dove l’immagine anche tragica della vita, dell’impegno dovuto per
intenderne pieghe e oscurità, abbagli e poesia, deve restare moralmente sveglio.
Slimani, a poche pagine dal termine della sua sosta veneziana, fa emergere il
padre dalle nebbie della censura subita in Marocco a causa di uno scandalo
politico-finanziario, imprigionato e poi interamente prosciolto. Una ferita
causa di morte. Il padre è morto, Leila scrive. Ma il padre avrebbe riso delle
“fantasie di reclusione” della figlia. Slimani lo confessa, troppe le lacune per
poter rievocare ricordi precisi, e neppure sa se potrebbe scambiare la propria
scrittura con la vita del padre. Se riuscirebbe a dirlo.
La notte sta finendo sulla Punta della Dogana, la porta d’ingresso e d’uscita di
Venezia è ancora lì: luogo di passaggio e frontiera per merci e viaggiatori, per
menti di diverse civiltà. Le contraddizioni personali si raccolgono, diventano
le nostre di lettori, un concentrato di oriente e occidente a cui va di traverso
la condizione di meticcio. Salman Rushdie ha insegnato a Slimani, e a tutti noi,
che abbiamo “un’identità allo stesso tempo plurale e parziale”. Nell’ora blu
poco prima dell’alba, Slimani esce all’aperto e passa davanti alla chiesa della
Salute. Neanche un rumore, caffè e sigaretta al tavolino di un bar appena
aperto, e un unico inequivocabile primo pensiero: “la letteratura, come l’arte,
se ne infischia delle frontiere tra passato e presente”. E ancora: “Scrivere è
stato per me un atto riparatore. Un atto riparatore profondo, legato
all’ingiustizia di cui è stato vittima mio padre”. E il profumo del gelsomino
notturno è ancora lì, tutt’intorno.
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Pulp Magazine.